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Roma giallo e nera
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E-book400 pagine6 ore

Roma giallo e nera

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Info su questo ebook

Delitti, violenze, rapine, stupri e perversioni: la storia di roma degli ultimi trent’anni è sporca di sangue

Un viaggio lungo oltre trent’anni nella storia criminale della Città Eterna. Un’epica dolorosa che ha prodotto decine di morti e feroci violenze. Vicende che si sviluppano in una successione cronologica che mantiene una rotta costante: l’attenzione nei confronti di Roma e dei suoi abitanti, protagonisti o spettatori, vittime o complici di cronache di ordinaria crudeltà. I fatti scellerati più significativi della capitale tra gialli, omicidi e scomparse misteriose. Dalla banda che negli anni ’80 terrorizzò la Roma bene alla terribile storia di Alfredino Rampi. E ancora, il giallo di Kathy Skerl, la sedicenne uscita per andare a una festa e ritrovata morta in una vigna vicino Frascati. E poi, i misteri di Castelgandolfo: dalla “decapitata del lago” all’esecuzione del brigadiere Laganà. Ma anche le scomparse misteriose che hanno tenuto la città con il fiato sospeso come quella di Davide Cervia, l’esperto in guerre tecnologiche rapito negli anni ’90 e di cui ancora oggi non si hanno notizie certe. Sono tutte storie che hanno segnato la città, così come il giallo di via Poma, l’uccisione di Simonetta Cesaroni, e quella di Duilio Saggia, ammazzato con un colpo di pistola al binario 10 della stazione Ostiense. È un quadro fosco a tinte gialle e nere che disegna una Roma insolita, spietata e affascinante al tempo stesso.

Un viaggio lungo oltre trent’anni nella storia criminale della città eterna

Tra gli episodi criminali contenuti in questo libro:

La gang degli anni ’80 che terrorizzò la città
Il pozzo maledetto. Vermicino, i 3 giorni di agonia di Alfredo Rampi
Rosa Martucci. Strangolata e uccisa
Piccola Kathy. Kathy Skerl: esce di casa per andare a una festa
Il mistero del lago. Castel Gandolfo: ritrovato un teschio
Johnny lo zingaro. Rapine, sparatorie poi la resa: la vera storia di Giuseppe Mastini
Morte allo stadio. Milan-Roma: la morte di Antonio De Falchi
Il giardino degli orrori. Elvino e Mario Gargiulo: padre e figlio
Il mistero di Maga Magò. Il cartomante a piazza Navona


Flaminia Savelli
è nata a Roma; laureata in Lettere moderne, ha scritto come freelance per diversi giornali e riviste. Dal 2008 collabora stabilmente con «la Repubblica». Per la Newton Compton ha pubblicato Misteri, crimini e delitti irrisolti di Roma e Roma giallo e nera.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854158108
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    Anteprima del libro

    Roma giallo e nera - Flaminia Savelli

    143

    Della stessa autrice

    Misteri, crimini e delitti irrisolti di Roma

    I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento a varie inchieste

    giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso.

    Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate

    nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti

    fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: luglio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5810-8

    www.newtoncompton.com

    Flaminia Savelli

    Roma giallo e nera

    Delitti, violenze, rapine, stupri e perversioni:

    la storia di Roma degli ultimi trent’anni

    è sporca di sangue

    logonc

    Newton Compton editori

    A quelli che restano. Nonostante tutto.

    Spesso nella vita si elencano le

    occasioni perdute, io tengo anche la lista

    delle occasioni non sprecate e quel

    pomeriggio è sempre ai primi posti.

    Mario Calabresi

    Introduzione

    Una lunga scia di sangue che parte dai ruggenti anni Ottanta e arriva ai giorni nostri, un itinerario guidato all’interno della criminalità romana che non tralascia nulla, dai grandi misteri agli omicidi più efferati che hanno disegnato Roma: una città in giallo e nero.

    Ogni capitolo segue una storia e ogni storia ha segnato in qualche modo la storia della cronaca nera della città eterna: dai Predatori della notte, alla tragica sorte di Alfredino Rampi passando per i grandi delitti. Da via Poma dunque, fino alle eccellenti scomparse come quella di Davide Cervia.

    Un percorso lineare che in ogni vicenda arriva il più vicino possibile alla verità dei fatti lasciando poco spazio all’immaginazione. Il lettore infatti non viene mai lasciato solo e viene accompagnato dallo sguardo dell’autrice che con la penna della cronista racconta e svela moventi senza mai tralasciare il giusto spazio ai veri protagonisti di queste storie: le vittime e i carnefici.

    Questo è però anche il racconto della città, dei suoi cambiamenti, da quella povera e rabbiosa delle periferie dove si consumano atroci delitti a quella ugualmente senza pietà degli ultimi eccellenti omicidi, fino ai nostri giorni. Le storiacce si muovono dunque sulla scena di una Roma che cambia aspetto e modus operandi dei criminali, lasciandosi alle spalle la criminalità organizzata si addentra in un contesto che negli anni di fatto è cambiato. E se da una parte sembra sempre più difficile delinearne i contorni della nuova nera capitolina, dall’altro assistiamo quasi impotenti a un escalation di criminalità più privata troppo spesso relegata all’interno delle mura domestiche come nel caso eclatante di Aral Gabriele, il giovane universitario che ha avvelenato e ucciso i genitori e di Michela Fiorito, la giovane infermiera ammazzata dall’ex marito su un viadotto all’estrema periferia della città.

    Il libro non fa sconti, né agli assassini né ai poliziotti che danno loro la caccia, e neanche a Roma, violenta e ingiusta anno dopo anno, omicidio dopo omicidio.

    La volontà resta quella di raccontare con il maggior numero di particolari, la città nei suo angoli più scuri e di fare, per quanto possibile, luce su quegli episodi che hanno sconvolto la città cercando di capire come e dove nasce il crimine.

    1

    I padroni della notte

    Entrano nelle case, minacciano e saccheggiano: le vittime di queste incursioni sono tantissime, e almeno cinque donne hanno subito aggressioni fisiche. Circa 200 le abitazioni svaligiate e tutte con la stessa modalità. E poi rapine e furti d’auto per un bottino miliardario.

    Questi non vengono considerati semplici banditi, semplici ladri. Sono determinati e organizzati: il colpo viene ben organizzato e studiato, le vittime sono imprenditori, commercianti, persone agiate economicamente. E tra loro pure volti noti della tv o del cinema.

    Per giorni seguono il bersaglio, prendono nota di ogni dettaglio: orari, spostamenti, frequentazioni della casa. E poi agiscono. Sono tutti armati e con la pistola in mano diventano i padroni delle abitazioni per qualche ora. Vogliono oro, soldi, gioielli e con le armi li ottengono.

    Verranno accostati a un mito criminale della letteratura contemporanea, la stampa infatti li definirà «quelli della banda dell’Arancia Meccanica»: un’eccezionale storia di follia metropolitana.

    Proprio come i protagonisti del celebre film di Stanley Kubrick, tratto dall’omonimo romanzo di Burgess, sono predatori della notte. Però, non hanno mai ucciso nessuno, dalle loro pistole non è mai stato sparato un colpo, non hanno mai fatto parte del grosso giro della mala romana. Eppure, a modo loro, rappresentano un caso unico, probabilmente irripetibile nel panorama della delinquenza di questa capitale che non ha mai conosciuto, prima di loro, una banda di quartiere aggregata e compatta, di visi riccioluti e coatti, uguali e disciplinati.

    La loro storia criminale parte da lontano, molto lontano. Inizia nel 1979 a Torino e poi si sposta a Roma: nella città maledetta hanno agito ovunque, della via Flaminia alla Cassia, fino all’Appia Antica e arrivando all’Eur.

    I colpi in serie

    La banda nasce gradualmente: i primi elementi in origine organizzano colpi rapidi, rapine in strada che poi si evolvono e puntano nelle abitazioni di lusso.

    Due o tre giovani armati compaiono all’improvviso, sera dopo sera sulla Cassia, a piazza Bologna e sulla Flaminia, il triangolo più residenziale della città. La tecnica è sempre la stessa: i rapinatori sorprendono le loro vittime quando fuori è buio, mentre rientrano a casa. Entrano con loro nelle abitazioni e fanno razzia di gioielli, pellicce e preziosi. Prima di andare via legano le vittime e poi scappano. Ma quando queste non sono collaborative, cioè non consegnano subito il bottino preteso, i malviventi adottano diverse tecniche, come estenuanti interrogatori per ottenere informazioni sul posizionamento della cassaforte o altri luoghi in cui è custodito il denaro. La tortura finisce alle prime luci dell’alba quando gli uomini della banda imboccano le strade della città sicuri di confondersi in mezzo al traffico e di non incappare nelle pattuglie di sorveglianza.

    Una volta fuori dagli appartamenti, spariscono con la refurtiva che viene data in consegna a uno sconosciuto ricettatore.

    Con il passare del tempo le rapine dei Predatori della notte divengono sempre più frequenti e il modus operandi si raffina, diventa più sofisticato.

    Proseguono le rapine lampo, ma si alternano a detenzioni di durata maggiore. Dipende dai casi, dal grado di collaborazione o di resistenza delle vittime.

    Sono sempre di più i commercianti e i ricchi della zona che finiscono nelle loro mani.

    La banda, il 16 febbraio del 1981, entra in azione a casa di Fabio Testi, sulla Cassia.

    L’attore è in compagnia della moglie. Viene derubato e costretto a consegnare orologi, anelli, orecchini, una telecamera e 800 dollari.

    Il 12 giugno del 1981, i Predatori della notte entrano in un attico di via Vincenzo Tiberio. L’abitazione apparitene all’editrice Adelina Tattilo, proprietaria di Playmen: rubano pellicce e gioielli per un valore di oltre 200 milioni di lire. Tengono in ostaggio la donna, sua figlia Manuela Balsamo di 17 anni e un amico di famiglia presente al momento del colpo. L’azione si protrae per tutta la notte, poi i malviventi fuggono a bordo dell’auto delle stessa Tattilo.

    Un altro VIP che rischia di essere rapinato dal gruppo è Peppino di Capri, ma il colpo nella casa del celebre cantautore sfuma.

    C’è terrore in città: questi banditi occupano le prime pagine dei quotidiani e vengono percepiti come capaci di tutto.

    Polizia e carabinieri hanno capito che questa lunga scia di aggressioni, maltrattamenti e rapine porta un’unica firma.

    La trappola

    Ormai che questi episodi siano legati tra di loro è una certezza per chi sta cercando di far tornare l’ordine in città.

    Alla fine del 1982 sul tavolo della sezione antirapina dei carabinieri ci sono decine di denunce che sembrano portare la stessa firma. Si teme che il numero sia molto più elevato ma che per paura molte delle vittime non abbiano sporto denuncia.

    Tra i vari elementi raccolti, c’è un particolare che insospettisce gli investigatori: il modo di perquisire le vittime è lo stesso seguito dagli agenti di polizia: faccia contro muro, gambe aperte; e poi il tipo di domande che i banditi rivolgono alle vittime durante gli interrogatori e gli accorgimenti adottati nell’uso dell’ascensore, dove i malcapitati vengono messi con la faccia rivolta verso la parete, in una posizione che impedisca loro di premere i pulsanti.

    Gli inquirenti pensano che si tratti di qualcuno che conosce molto da vicino le forze armate. Il cerchio sta iniziando a chiudersi, nonostante gli indizi siano molto scarsi, solo alcune delle vittime sono riuscite a ricostruire un sommario identikit e non basta per rintracciare i colpevoli.

    In città l’aria è tesa, decine di pattuglie perlustrano i quartieri della Roma bene e si procede con controlli a tappeto. Carabinieri e polizia trascorrono le notti per le strade ma i colpi in serie non si fermano e il sospetto a questo punto è che siano più bande ad agire.

    La notte del 16 aprile del 1983 la Squadra anti rapina è in via Linneo ai Parioli e individua una macchina ferma. A bordo ci sono 3 uomini: due vengono fermati, l’altro riesce a scappare. A insospettire gli agenti un paio di guanti trovati nel corso del fermo.

    L’ex poliziotto

    In manette finiscono Agostino Panetta, 24 anni, e Giuseppe Leoncavallo, 25 anni. Il fuggitivo è Maurizio Verbena, 23 anni.

    Panetta è figlio di un poliziotto, lui stesso un ex poliziotto. Non sono i classici criminali ma questo gli inquirenti lo avevano già capito.

    Contro Verbena il sostituto procuratore spicca un mandato di cattura, gli arrestati dovranno rispondere per rapina a mano armata, sequestro di persona e porto abusivo d’armi.

    Per gli investigatori loro sarebbero la cupola della banda dei predatori della notte e subito vengono interrogati.

    Agostino sembra essere il capo dell’organizzazione.

    Il giovane, dopo aver preso servizio in polizia è finito presto dall’altra parte della barricata.

    Nel 1977 a Trieste è nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro, chiamato per meriti e spiccate doti sportive. Tuttavia questi sono anche gli anni di piombo, c’è bisogno di agenti in servizio in tutto il paese e dal gruppo sportivo viene destinato al servizio di ordine pubblico a Torino. Ma qui l’ambiente è difficile, troppo per Panetta. E per questo la sua vita imbocca tutta un’altra strada: di giorno poliziotto, di notte rapinatore. Con lui ci sono altri tre colleghi ad agire. Il loro primo colpo è del 3 gennaio 1979, ne seguiranno pochi altri. Poi viene mandato in convalescenza per malattia a Roma, sei mesi, e successivamente viene congedato. Una volta nella capitale allarga il suo giro, comincia a fare piccole rapine e furti. La base è a Torre Angela, qui inizia la sua ascesa delinquenziale da predatore della notte. Insieme a Verbena e poi Leoncavallo organizzano i colpi, all’inizio sono solo loro ma presto la gang crescerà e tanto.

    La lista di reati è lunghissima, sarà Panetta a raccontare gli ultimi 4 anni della sua vita. Come per liberarsi ma soprattutto per ristabilire la verità: al momento dell’arresto è sospettato di oltre 200 rapine, ma di queste ne saranno attribuite alla banda 74.

    Paura in città

    Ci sono almeno altre due bande criminali che terrorizzano le famiglie romane. Ma sono molto più aggressive e sanguinarie.

    Le vittime anche in questo caso sono persone benestanti e famose, le zone battute sono sempre le stesse.

    Tra gli obiettivi dei criminali, finisce anche l’attrice Dalila Di Lazzaro. Al momento dell’aggressione, nel settembre del 1983, vive nel lussuoso attico di via Cortina D’Ampezzo. A guardia della casa ci sono dei cani che i banditi hanno avvelenato con delle polpette prima di entrare in azione. Fa ancora molto caldo, la finestra del salone è aperta:

    Intorno alle 3 di notte ero a letto insieme al mio compagno d’allora, Fabrizio. Stavo dormendo ma mi sono svegliata perché ho sentito mio figlio che si lamentava nella stanza accanto, ho pensato stesse male per qualcosa che aveva mangiato. Ho sempre dormito con la porta chiusa a chiave, quindi mi sono alzata e mi sono avviata verso la porta. Appena l’ho aperta mi sono ritrovata davanti un uomo, mi ha puntato la torcia contro gli occhi e ho visto l’ombra della pistola. Sono rimasta impietrita, poi dietro di me è arrivato Fabrizio, ha iniziato subito a gridare. Erano urla fortissime e allora quell’uomo mi ha scansato ed è andato addosso a lui, hanno iniziato a lottare ferocemente nel buio. Ricordo il buio, la paura e le grida di Fabrizio, strillava per impaurirlo per farlo scappare. Il mio compagno però non mollava, lo picchiava frontalmente mentre io gli tiravo pugni da dietro. Una scena terribile, a un certo punto è partito un colpo di pistola e mi ha sfiorato la spalla bucandomi l’accappatoio. Fabrizio intanto continuava a gridare e a menare, senza sosta, poi è partito un secondo colpo ma io ho sentito solo lo sparo, tanto che ho pensato che la pistola fosse di quelle finte, a salve per intenderci, come quelle che si usano nei film. Non saprei neanche dire quanto è durato ma continuavano a menarsi fino a quando dalla stanza di mio figlio ho visto uscire altri tre uomini, si sono parlati ma ero sotto shock e non sentivo nulla, non distinguevo le grida di Fabrizio dalle loro voci. Appena hanno finito di parlare sono corsi verso l’uscita mentre quello che lottava con Fabrizio ha iniziato a gridare: «Sono bloccato, aspettate!». Poi si è liberato, la porta fortunatamente era aperta perché l’avevamo dotata di un particolare sistema di chiusura interna. Non voglio neanche immaginare cosa ci avrebbero fatto se l’avessero trovata chiusa, invece hanno aperto la porta e la luce delle scale ha illuminato l’ingresso: li abbiamo visti scappare uno dietro l’altro per le scale. Solo a quel punto ho acceso la luce. Non dimenticherò mai quella scena: la stanza era piena di sangue, per terra sui muri. Il secondo sparo ha colpito Fabrizio in pieno all’inguine, ma aveva continuato a lottare. Era steso a terra, il sangue che continuava a uscire. Poi mio figlio è uscito dalla sua stanza, e quello è stato il momento più terribile perché era una maschera di sangue, gli usciva dalla testa, dal naso, dalla bocca. Quando sono entrati in casa con la mia porta chiusa a chiave sono andati da lui, mi ha raccontato che lo hanno immobilizzato a letto e hanno iniziato a picchiarlo e a torturarlo perché volevano che mi chiamasse, che mi facesse aprire la porta. Lo picchiavano con la canna della pistola ma Christian, che all’epoca aveva 13 anni, è stato coraggioso, mi voleva proteggere e gli continuava a dire di «no, no, lasciatela in pace mia mamma». Ho chiamato la polizia e l’ambulanza, non so neanche come ho fatto a rimanere lucida, Fabrizio è stato operato d’urgenza, e solo per un miracolo si è salvato perché il proiettile aveva colpito un’arteria. Mio figlio ha avuto più di 20 punti in testa e altri lungo il sopracciglio. Insieme alla polizia, durante la denuncia, abbiamo ricostruito la dinamica: la banda era entrata dalla finestra del salone rimasta aperta per il caldo. Poi hanno tentato di entrare in camera mia ma era chiusa, allora sono andati da Christian. Certo, era un colpo studiato anche se non avevo la cassaforte in casa e con me pochissimi gioielli. Ma questo loro non lo immaginavano. A me che chiedevo come potevo difendermi la polizia rispose: «Faccia tutto quello che crede necessario, ma non compri un’arma. Loro la sanno utilizzare molto meglio di lei».¹

    Inizialmente sospettati, Panetta e i suoi compari dimostreranno di non essere gli autori dell’aggressione e i responsabili della rapina nell’attico dell’attrice non sono mai stati individuati.

    La banda

    Leoncavallo e Panetta ammettono parzialmente di aver commesso più rapine. Attraverso le deposizioni delle vittime e le ammissioni dei due fermati, gli investigatori riescono a ricostruire la storia della banda. La loro è una vera e propria impresa efficientissima, con tanto di distribuzione dei compiti e di orari. Ricostruiscono anche la storia della gang, com’è nata: dopo i primi colpi per strada, con le rapine ai passanti, decide di fare il salto di qualità con le rapine in casa.

    L’idea è stata proprio di Panetta che racconta ai suoi due amici delle prime rapine a Torino. Spiega quanto è più facile aggredire poche persone alla volta, che è meno rischioso di rapinare le Poste, o le banche. Decidono di colpire le zone in della città, per avere obiettivi il più possibile sicuri.

    E la prima zona che prendono di mira è quella tra la Cassia, Grottarossa, Corso Francia. Poi è la volta dei Parioli e poi ancora la Flaminia e l’Eur. Così fanno: di notte le rapine e la mattina vanno nelle case dei ricettatori, poi si divide il bottino in parti uguali. E si ricomincia con i pedinamenti. Le vittime vengono selezionate ai bar, ai semafori. Vengono notate le macchine e da lì cominciano pedinamenti e ricerche, si va a colpo sicuro.

    Ma intanto, rapina dopo rapina, la banda diventa famosa tra i delinquenti di strada, molti chiedono di aggregarsi ma vengono usati solo per qualche sporadico colpo: «Troppo violenti, spregiudicati» spiega Remo «io avevo bisogno di gente con i nervi saldi».

    I carabinieri individuano pure e la piccola manovalanza e fermano anche ladri, scassinatori e ricettatori. Tutti accusati di far parte della banda.

    Ancora, gli arrestati elencano uno per uno i colpi che hanno messo a segno e le aggressioni. Questo permette di ristabilire la verità: alle denunce già arrivate, grazie ai verbali di interrogatorio, se ne aggiungono altre ma calcolare il numero esatto dei colpi è impossibile, molte delle vittime, così come si temeva, non hanno mai denunciato l’episodio per paura di eventuali ritorsioni. Tuttavia, secondo una prima sommaria ricostruzione dei carabinieri il loro bottino arriverebbe a 15 miliardi di lire. E dopo 10 mesi di latitanza anche l’ultimo componente della banda viene arrestato. Verbena viene rintracciato oltre oceano e rimpatriato nel maggio del 1984: lo trovano nella sua dorata residenza di Perth, in Australia, dove intanto si è rifatto una vita. Ha una fidanzata e un nome nuovo di zecca, Ennio Maini. Tutto questo non gli è bastato. Due giudici, Giancarlo Armati e Angelo Gargani, avviano la pratica d’estradizione e lo fanno rimpatriare.

    La ricostruzione

    I tre cominciano a parlare e gradualmente ammettono le responsabilità davanti ai giudici. Panetta, racconta come ha iniziato la sua carriera di ladro, la sua storia. Dice anche che nel 1982 non vuole più rubare, vuole cambiare vita e uscire dal giro. Così compra il bar Pachita a Torre Angela, e con un centinaio di milioni lo riveste in legno, abbellisce il bancone a Lche fa angolo dove un corridoio immette in quattro sale giochi, una col biliardo, una con i tavoli verdi, due con le macchinette. I ragazzi della banda però non lo mollano, e nel frattempo sono diventati parecchi: rapinatori, ricettatori e collaboratori a vario titolo. Seleziona i complici trovando persone con i nervi saldi e capaci di gestire situazioni delicate e di paura: «alla fine, se non ci sai fare, crolli prima dei rapinati» dirà. E in effetti, quando Panetta vuol troncare la sua carriera, gli altri provano a imitarlo. Ma spesso va buca. Costretto dalle insistenze, Remo torna poi a fare il capo.

    Le violenze

    Quello degli abusi sessuali è senz’altro l’aspetto più cruento e controverso della storia di questa banda. Sette alla fine saranno le violenze contestate dal maggio del 1981 al marzo del 1983. Le vittime hanno età compresa tra 18 e i 50 anni ma, sostengono i rei-confessi, quegli stupri avevano una loro logica professionale. Il racconto del primo lo fa proprio uno dei componenti della banda: «La casa sembrava ben fornita ma i padroni negavano di avere casseforti. Allora pensai di violentare la moglie, che in verità non mi piaceva. Non parlate? gli dissi, e allora ci penso io, e le imposi un rapporto. Ultimato capii di essermi sbagliato, perché forse non c’era davvero la cassaforte. Però il mio amico volle pure lui lo stesso rapporto...»².

    Panetta dirà in sede processuale e scatenando non poche polemiche: «Su questa storia delle violenze carnali si ha la tendenza ad informare in modo morboso e non sempre si dice la verit໳.

    Per il giudice Gargani:

    Questa componente fu utilizzata per rendere più soddisfacente il risultato della rapina, in sostanza per prelevare un bottino più completo. Anzi, il più delle volte la violenza di questo tipo veniva soltanto minacciata e restava tale soprattutto nei casi in cui maturava la convinzione che più di quanto si era preso, non si poteva più spremere. Quello che si può affermare con certezza è che mai le violenze carnali sono rientrate nel costume abituale. Il fenomeno fu e rimane circoscritto.

    E aggiunge: «Ogni episodio ha avuto durata brevissima, mai in presenza di altri. Il Panetta inoltre si è dovuto imporre con i suoi compagni per evitare il perpetrarsi di altre violenze e porre fine definitivamente al fenomeno, quando si rese contro dell’assurdità di questi comportamenti, episodi del genere non se ne sono più verificati»⁵.

    Una vita difficile

    Il 4 marzo del 1986 inizia il processo della gang, alla sbarra ci sono 62 persone. Un fiume di verbali, centinaia di testimoni. Le rapine, le aggressioni e i furti contestati nella capitale coprono un arco di tempo che va dal 1979 al 1983. Il capo, il predatore della notte ha confessato, ricostruito, spiegato, denunciato, tanto che il giudice Gargani che lo ha rinviato a giudizio crede al suo sincero pentimento e aggiunge: «Ogni imputato dovrà essere considerato nella sua individualità, pur non riconoscendo nessuno di essi al Panetta il ruolo di capo, tuttavia quasi sempre costoro gravitavano intorno a lui, frequentavano il bar da lui gestito nella speranza di essere prescelti nelle uscite serali»⁶.

    E a spiegare il suo ruolo e a descriversi sarà proprio Panetta: «Mi definisco un delinquente razionale», dice Remo nella sala colloqui del carcere di Rebibbia nella sua prima ufficiale dichiarazione pubblica. Alto, atletico, sorridente, ostenta serenità e si racconta: «Entrai in polizia a 18 anni»⁷, dice:

    Lì si faceva sport. Io ho sempre avuto un po’ il pallino dell’attività fisica. Ma nella polizia non trovai che imposizioni, ingiustizie. Poi incontrai, a Torino, tre poliziotti, transfughi. Cominciammo le rapine in strada. La sera rientravamo in caserma. Finché me ne andai, a Roma misi insieme altri compagni e giù ancora rapine, a raffica. Fino a dieci per sera. Attraverso il male cominciavo a capire di valere qualcosa finalmente, mi sentivo inviolabile... Io rapinavo, è vero, minacciavo e ho anche picchiato duro. Ma evitavo traumi inutili. Per me era gratificante soprattutto ottenere il massimo rendimento con il minimo della violenza. So di dover pagare. Ne ho fatte tante... io che non ho mai sopportato la prepotenza sono stato un prepotente: ho colpito vittime senza colpa, seguito la via più trucida e più brutta per dimostrare la mia pericolosità. Quella che, allora, mi sembrò una conquista, una rivalutazione di me stesso. Mi sentivo quasi inviolabile, le rapine nelle abitazioni avvennero dal 1981. La storia delle violenze sessuali è stata esagerata, quando cominciò, io di rapine ne avevo già fatte centinaia e non ci avevo mai pensato. Era mio, nostro interesse non lasciare livore nelle vittime, per evitare le denunce, per far sì che polizia e carabinieri non riuscissero ad acquisire una visione di insieme... Poi un giorno del 1981 puntammo per strada una coppia. La donna era stata riaccompagnata a casa da un amico. Li immobilizzammo; le imponemmo di portarci in casa. Lei resistette: non voleva far incontrare il marito con l’amico. Noi li legammo in due stanze diverse. Mentre raccoglievamo gli oggetti in giro per la casa, lei tentò di ammansirci. Ci diceva: «Perché lo fate? Siete così carucci...». Mi scattò una molla in testa. Dunque la minaccia sessuale poteva pagare, facilitare. Con quella donna ebbi un rapporto orale. Lei lo ha negato e ancora lo nega. Avrà le sue ragioni. Incredibile, come oltre alla storia degli stupri, sia stata enfatizzata anche quella dei personaggi mondani. In realtà quei pochi che capitarono nel mucchio non erano neanche i più ricchi. Poi, quel loro creder che la loro popolarità li avrebbe salvati, mi parve ingenuo. Ci dissero stupiti: «Ma io sono Fabio Testi...», o «io sono Peppino Di Capri». Subirono ovviamente la sorte degli altri.

    La resa

    Gli imputati sono 62, molti sono a piede libero, altri rinunciano ad assistere al dibattimento. Ci sono le parti lese, le vittime: oltre 20 famiglie si sono costituite in giudizio, ma lo hanno fatto a processo praticamente iniziato e vengono rappresentati da Tina Lagostena Bassi.

    Nel 1986, dopo un procedimento penale costellato di lacrime e confessioni il tribunale scarica addosso a Panetta 23 anni di carcere. Una pena esemplare, si è sinceramente pentito e ha collaborato alla ricostruzione dell’intera vicenda ma non basta. Pene più miti invece ai gregari che hanno partecipato solo a qualche colpo. E per gli altri due della cupola: «Gli imputati», scrivono i giudici sui compari, «la loro condotta non ha mai raggiunto i vertici di sadica brutalità», 18 anni quindi ma ne sconteranno meno della metà. Tutti e tre in galera si distinguono per buona condotta e la storia di una delle bande criminali che ha saccheggiato le strade della Roma bene finisce qui.

    Il sentiero dei camosci

    Oltre trent’anni dopo Panetta vive da uomo libero e lavora. Un uomo alto, robusto che si trascina dietro la consapevolezza dei suoi crimini e oltre vent’anni di carcere. Ha svolto diversi impieghi e ha cercato di reintegrarsi con la società. Ha pubblicato un libro, Il sentiero dei camosci, in cui racconta giorno dopo giorno l’esperienza del carcere. Di lui e del suo libro la scrittrice e giornalista Mila Mercadante dice:

    Dalle sue gesta è nato un film⁸ e la stessa cosa è avvenuta per Vallanzasca: non è facile resistere di fronte a certi uomini, perché la loro intelligenza, se non può giustificare la devianza e la violenza, fa venir voglia di rifletterci sopra,di costruire attorno a loro una storia. C’è qualcosa di ineluttabile nei loro destini, qualcosa di poetico, qualcosa di toccante e negarlo non serve. E allora accade che il cinema o la letteratura diano loro la giusta prospettiva, quella consistenza e quel significato che ogni esistenza possiede. Noi siamo tutti curiosi di capirli, i Panetta, gli uomini cattivi che prima di diventare cattivi sono stati bravi bambini e figli teneri, studenti, perfino poliziotti. Perché Agostino Panetta è stato in polizia, prima di cambiare completamente idea. Il libro è formativo come un documentario, è uno spaccato interessantissimo della vita carceraria. Un libro spietato e dolce insieme scritto con uno stile brusco e schietto. Non vi è una sola parola di troppo, non c’è retorica, non un briciolo di compiacimento o di vittimismo. Panetta non scrive per giustificare alcunché, e non scrive per vanità. Il suo interesse è rivolto soprattutto all’ urgenza di una riforma carceraria: il suo racconto per questo motivo è attualissimo e significativo. Leggendo possiamo imparare molte cose e scoprirne altre che non sospettavamo neanche. Panetta racconta sentimenti che gli uomini liberi non conoscono, e racconta lo squarcio rovinoso che si crea tra il fuori e il dentro, tra noi e loro, tra il tempo reale e quello infinito della clausura. Chi non si sente mai l’anima debole non può vedere niente degli altri, neanche se campa cent’anni. Bisogna andare giù di sotto a guardare come stanno le cose, bisogna pure vederlo, il rovescio della vita, e Il sentiero dei camosci fotografa con puntualità e crudezza questo rovescio: un mondo popolato di gente che non crede più a niente e che conosce depressione e paura, perciò non vuole altro che speranza e vita. Panetta ha usato il tempo immobile della prigionia come uno strumento portentoso per garantirsi un livello di identità alto, che forse prima non aveva.

    1 Intervista diretta rilasciata all’autrice da Dalila Di Lazzaro, Milano 12 maggio 2013.

    2 «l’Unità», 18 novembre 1984.

    3 «la Repubblica», 19 marzo 1986.

    4 Ordinanza di rinvio a giudizio.

    5 Ibidem.

    6 Ibidem.

    7 «la Repubblica», 28 febbraio 1986.

    8 L’odore della notte, del 1998, diretto da Claudio Caligari.

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    Il pozzo dei segreti

    È appena un lamento: dalle profondità della terra, nel silenzio della campagna romana, arriva sottilissima la voce del piccolo che chiede aiuto. Lo sente un agente che lo sta cercando. L’allarme è scattato intorno alle 21:30, la polizia è stata allertata che un bambino non è rientrato a casa. Suo papà lo ha lasciato tornare a casa da solo e si sono salutati intorno alle 19:30 sul sentiero: appena una manciata di metri che tante volte ha percorso da solo. Ma quando Ferdinando rincasa e non trova suo figlio capisce subito che qualcosa deve essere accaduto. Insieme alla moglie Franca chiamano la polizia, subito partono le ricerche. E lo trovano. Alfredino chiede aiuto, è scivolato in un pozzo ed è rimasto incastrato. Sul posto intervengono anche le unità cinofile, i vigili del fuoco e i carabinieri. È la notte del 10 giugno 1981, ha appena sei anni: quel bambino va tirato fuori. Dal fondo del pozzo grida: Basta, basta..., vuole tornare a casa e sua mamma è lì che parla con lui, che lo consola e lo chiama.

    I soccorsi

    Per oltre tre ore lo cercano lungo tutta la campagna che costeggia via Sant’Ireneo, la strada della casa di campagna della famiglia Rampi. Ferdinando è un dipendente Acea, vivono a piazza Bologna, a Roma, ma nel fine settimana e durante i mesi estivi si spostano a Vermicino, poco distante da Frascati. Proprio davanti casa loro c’è un’altra villetta in costruzione e proprio in quei giorni gli operai stanno scavando nel terreno alla ricerca di acqua. Viene controllato anche quel terreno, però Alfredino non può essere lì: il budello trivellato è coperto da una lastra di ferro e tenuto fermo da due grandi sassi. Il bambino non avrebbe mai potuto toglierlo da solo. Ma il poliziotto Giorgio Serranti teme che il foro sia stato chiuso successivamente. Si avvicina quindi all’imboccatura del pozzo appena scavato e si mette in ascolto. Lo chiama per alcuni minuti fino a quando il bambino risponde: «Sono qui, aiutatemi».

    «Mi sono avvicinato al pozzo e ho sentito un lamento che veniva dalla profondità. Una cosa spaventosa»⁹ racconta Serranti a chi gli chiede come ha trovato il bambino.

    È mezzanotte e Alfredino è lì sotto da più di quattro ore; subito il brigadiere Serranti dà l’allarme, la mamma Franca accorre: «Alfredino siamo qui adesso ti tiriamo fuori». Con lei c’è anche una squadra dei vigili del fuoco, tutti sono certi che le operazioni di salvataggio dureranno poco. Ma il buco dove è finito il piccolo è un pozzo artesiano largo appena 30 centimetri e lungo 80 metri. Una spirale profonda, umida e buia. Secondo i calcoli, il bambino si trova a 36 metri di profondità. È rimasto incastrato dove il cunicolo fa una curva, un braccio è dietro la schiena, l’altro fortunatamente è libero. Le gambe sono rannicchiate e sotto di lui ci sono almeno altri 44 metri prima di raggiungere

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