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Pop corn all'aperto
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E-book163 pagine2 ore

Pop corn all'aperto

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Info su questo ebook

Anna è una Psicoterapeuta impegnata a riprendere in mano le redini della sua vita.

Nel suo percorso personale riscopre il legame con sua madre e tramite lei accende i riflettori sul suo rapporto con gli altri.

Le vicende personali e la pandemia la costringono a fermarsi una volta di più ed a porre la sua attenzione ed il suo aiuto verso i nuovi vicini di casa: emozioni e disagi esistenziali inespressi vengono a galla, cambiando per sempre le vite di tutti i personaggi coinvolti.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2021
ISBN9791220349208
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    Anteprima del libro

    Pop corn all'aperto - Giuliana Balice

    PARTE PRIMA

    COME ERAVAMO

    Vedo le nuvole, ma non sono morta, anzi, una parte di me lo è, è tutto finito e devo ricominciare.

    Sono stesa su questo letto che mi ha vista crescere, ho fatto un passo indietro per andare avanti. Sto per addormentarmi ed esattamente come quando avevo otto anni, guardo il soffitto dipinto di nuvole della mia camera: le vedo cambiare forma e spostarsi, sono sopraffatta dalla stanchezza, mi lascio andare e dormo.

    È mattina presto, mi alzo dal letto, metto le ciabatte, indosso la vestaglia e mi trascino in cucina ancora intorpidita e non del tutto sveglia. Il pane fresco e croccante, la marmellata di arance fatta in casa, il profumo del caffè e la musica: c’è poesia in queste cose, è un ricordo travestito da presente.

    «Come procede il trasloco del tuo studio?»

    Percepisco il tono ansioso, mentre cerco di svegliarmi bevendo il caffè, ha dimenticato che detesto parlare appena sveglia, allora cerco di soprassedere.

    «Oggi devo richiamare l’azienda di traslochi per la conferma della data e poi, dopo che avrò sistemato tutto, informerò i miei pazienti del nuovo indirizzo, non c’è molto da fare, sta tranquilla mamma.»

    Ho quarantacinque anni ma lei si preoccupa per me esattamente come quando ero piccola, io lo accetto, è fisiologico, sono la sua bambina con il cuore spezzato e lei se ne sta prendendo cura: è soprattutto attraverso l’amore degli altri che si trova la strada giusta per ricominciare, da soli è difficile ho detto spesso ai miei pazienti in terapia, e me lo ripeto come un mantra, senza esserne ancora convinta.

    La sistemazione del mio studio mi sta tenendo parecchio impegnata, la mia vita è in rifacimento, sa di nuovo, come le pareti della stanza che ho appena fatto rinfrescare. Quando sono sulla soglia dello studio, che è ancora vuoto, si sente il profumo di vernice fresca, le pareti sono rosa pallido, è un colore delicato, proprio come volevo io, rende l’ambiente pulito e accogliente.

    So che in questo momento entrare in empatia con i miei pazienti non mi è possibile, ma con il trasloco di mezzo e una vacanza prima della riapertura della mia attività, conto di avere il tempo necessario per recuperare energie e tornare a esercitare bene la mia professione.

    Ricominciare per me significa tagliare i ponti con tutto quello che è stata la mia vita precedente: non voglio, per il momento, sentire nessuno degli amici che frequentavo con mio marito, ho bisogno di spazi e tempi nuovi.

    Mentre annaffio il giardino del nostro stabile, mi rendo conto del tempo che è passato dalla grandezza degli alberi, non erano così grandi quando ci passavo i pomeriggi a giocare e tutto intorno si è riempito di siepi di gelsomino, diversi roseti e tante ortensie; quando rientro dalla corsa, appena varcato il cancello d’ingresso, sento il profumo dei fiori.

    Spesso sono pensierosa e agitata, correre è uno sfogo, lo facevo anche da ragazza, quando ancora vivevo con i miei genitori. Mi fa stare bene, anche se ho i polmoni che mi bruciano, non sono più abituata e proprio come allora, quando rientro, incontro persone che mi conoscono da quando ero bambina.

    «Ciao Anna, ma sei tornata a vivere qui?»

    È Luigi, il giardiniere di una delle ville più grandi e belle di tutta la nostra zona, è sempre stato curioso, allora mi appresto a soddisfare il suo interesse, così lo dirà a tutti e mi sarò tolta il pensiero delle chiacchiere del vicinato. Questo pezzo di quartiere di Torino è come un piccolo paese.

    «Sì, mi sono separata» è la prima volta che lo dico e sono imbarazzata, «ho deciso di trasferirmi da mia madre, tanto la solitudine non piaceva neanche a lei.»

    Mi osserva, confermando con lo sguardo e a voce quello che penso anche io.

    «Mi spiace per quello che ti è successo, ma hai fatto bene a tornare, Lucia aveva bisogno di te.»

    Non posso fare altro che acconsentire, lo saluto e dico a me stessa con sincerità che mia madre ha bisogno di me tanto quanto io di lei. Mentre cammino verso casa, rifletto su come cambiano le cose da adulti: mia madre era stata quella che quando ero un’adolescente definivo una strega, perché quando la innervosivo mi parlava a denti stretti. Aveva saputo essere minacciosa quel tanto che basta per farsi rispettare e amare più di ogni altro individuo nella mia vita.

    Avrei potuto essere ovunque, ero sempre stata indipendente e intraprendente, ma per leccarmi le ferite avevo scelto di ritornare a stare con lei.

    Avevo cominciato ad avere paura del futuro, vedevo solo i miei errori, ma mia madre quotidianamente sapeva infondermi sicurezza e fiducia attraverso la saggezza delle sue parole, il buon cibo e la musica.

    *

    Rientrando a casa, la trovo in cucina intenta a preparare il pranzo, la radio è sempre accesa: non sopporta il silenzio.

    «Mamma, ho incontrato Luigi, ti saluta, appena mi ha vista ha voluto sapere!»

    «Abituati Anna, con il vicinato lo sai com’è, cogli i lati buoni: fatti dare i bulbi dei tulipani, me li promette sempre e non me li dà mai!» ha incalzato ironica.

    È un vicinato di anziani, hanno tutti più o meno l’età di mia madre, condomini interi di settantenni e tanti ultraottantenni, i bambini sono pochissimi in zona, nel nostro stabile non ce ne sono; è un palazzo di soli tre piani, quasi disabitato. Per ora ci siamo noi al piano rialzato e lo storico signor Renzo, ormai ultranovantenne, al secondo piano, gli altri appartamenti sono di proprietà dei fratelli di mio padre. Ogni tanto vengono dati in affitto alle agenzie di zona ma molto più spesso rimangono vuoti.

    *

    Non mi è mai piaciuto andare al mercato: la gente, le urla dei commercianti, i vestiti buttati sui banchi alla rinfusa non fanno per me, ma voglio aiutare mia madre nelle faccende di casa.

    «Vado a fare due passi al mercato, così mi distraggo anche un po’, da quando sono tornata ho solo lavorato al progetto del nuovo studio e fatto qualche corsetta.»

    «Se è per distrarti te lo concedo ma non caricarti troppo che poi finisci come me…»

    «A proposito, ti ha mica chiamato l’ospedale?»

    Quasi me ne stavo dimenticando, eravamo in attesa della chiamata per la sua operazione alla spalla.

    «Si va per le lunghe, mi sa per quest’estate.»

    «Come per quest’estate? E la nostra vacanza? Come faccio a prenotare? Non ti possono dare un range di date?»

    «Un che? Che hai detto? Ma come parli?»

    Mi guarda confusa. Non mi sono resa conto di avere usato un termine per lei sconosciuto: range.

    Provo a spiegarmi meglio. «Un periodo entro il quale ti potrebbero operare, questo intendevo, è troppo generico in estate, fatti dire in quali settimane, per favore, è la nostra prima vacanza insieme dopo tanti anni!»

    «Va bene, provo a chiamarli: mi hanno lasciato il numero di telefono, cerco di capire se hanno un range, come dici tu» risponde, facendomi l’occhiolino.

    A volte si invertono i ruoli, si lascia trasportare dalle mie decisioni. Quando le ho proposto la vacanza era felicissima: una crociera nel Mediterraneo, un giro semplice, il mare stupendo del sud Italia e alcune isole greche, mi ha detto subito di sì.

    È stato un anno pesante, un viaggio ce lo meritiamo, penso fra me e me mentre mi vesto: indosso una t-shirt bianca e un paio di jeans skinny, cerco di curarmi ma senza entusiasmo. Mi guardo allo specchio e lego i miei capelli: sono troppo lunghi, ma senza un taglio definito, è meglio che li sistemi prima della partenza. Guardo i miei occhi da vicino: ho poche rughe ai lati ma sulla fronte si notano di più, la mia espressione corrucciata degli ultimi mesi ha contribuito a un ulteriore invecchiamento, dovrei sorridere più spesso, sembro sempre arrabbiata. Mi metto un po’ di blush sulle guance, giusto per non sembrare un cadavere, stanno per consegnarmi i mobili. Questo mi rende euforica.

    «Mamma cosa prepari di buono oggi? Se fai la pasta ricordati che va pesata, non fare a occhio.»

    È di spalle, non ricevo risposta, non mi avrà sentita; mi avvicino alla cucina, guardo le pentole sul fuoco e cerco la sua attenzione.

    «Non mi hai sentita, vero?»

    «No, ero al telefono con l’ospedale: mi operano fra una settimana, non possiamo partire, se rimando slitta tutto di troppi mesi, non ce la faccio più, voglio essere operata. Mi spiace, ho detto di sì all’intervento.»

    «Ma siamo quasi a luglio, fa caldo, perché non ti operano in autunno?» Respiro, sbuffo, ingoio per non farla sentire in colpa e poi minimizzo. «Va bene, facciamo così, andiamo solo qualche giorno in montagna prima della tua operazione, giusto per cambiare aria, poi ti opererai e sarà lunga, non ci potremo muovere per un bel po’, tu per la ripresa fisica e io per la ripresa lavorativa, che ne dici, andiamo allo chalet?»

    «Sì, anche io ho voglia di rilassarmi un po’ prima dell’intervento, partiamo domani o dopodomani, giusto il tempo di fare due piccole valigie, la casa è a quaranta minuti da qua, è l’unico tipo di vacanza che possiamo fare in questo momento.»

    È convinta ma percepisco anche la sua ansia per l’intervento.

    *

    Il giorno dopo, al mattino, siamo già pronte per la nostra piccola vacanza, Lucia è anche andata di fretta dal parrucchiere a farsi sistemare e cotonare i suoi bellissimi capelli bianchi. Si cura con la stessa attenzione da sempre, e con ottimi risultati: è sempre particolare, anche in casa; sfoggia vestaglie di tutti i colori e il bianco dei suoi capelli le fa risaltare ancora di più gli occhi azzurri e vispi.

    Il nostro chalet di montagna è a 1200 metri sul livello del mare, non è alta montagna: non fa caldo, non fa freddo (se non di notte), si respira aria buona, il paesaggio è bellissimo; è il posto ideale per rilassarsi.

    Sono vent’anni che non facciamo una vacanza insieme, l’ultima volta siamo stati a Parigi tutti e tre: io ero una ragazzina e pioveva sempre. Mentre guido penso a quel viaggio: ci eravamo stancati tantissimo, camminavamo tutto il giorno. L’ultimo giorno avevo insistito per andare a visitare il cimitero di Père-Lachaise. Papà non ne voleva sapere, così ci eravamo divisi: lui al Trocadero e noi due a visitare le cappelle dei personaggi più famosi. Ricordo mia madre esausta, seduta su una panchina di uno dei viali che attraversa il cimitero. Ho continuato da sola il giro: ho segnato sulla cartina il punto in cui era lei, vista l’immensità del posto, e sono tornata dopo circa un’ora a riprenderla. È un ricordo indelebile la sua espressione annoiata e spazientita.

    Non mi va in questo momento di condividere questi ricordi con mia madre, non ho ancora capito se le faccia bene o meno, così continuo a guidare silenziosa.

    Mentre sono immersa nei miei pensieri, mi accorgo che la nostra meta è vicina. La natura intorno a noi sta cambiando forma e colore: vedo ai lati della strada i pini e sullo sfondo i costoni delle montagne; su qualche punta si vede ancora la neve e ci sono molti rivoli di acqua che scendono a valle. Ho abbassato il finestrino e ho preso un bel respiro di aria fresca, mi mancava.

    Una volta arrivate, ci fermiamo per prima cosa a prendere il pane, ma come sempre ho bisogno anche di un buon caffè: sono già in astinenza.

    Al bancone del bar-panetteria ci accoglie la signora Gina che ci conosce da almeno quarant’anni.

    «Buongiorno, ben trovate, come state signore? È tanto tempo che non vi si vede.»

    Noto che nonostante la confidenza, mamma non le dà spiegazioni sulla nostra mancanza dalla valle da due stagioni, così anche io decido di non dire nulla.

    Su uno scaffale della panetteria vedo diversi barattoli di cioccolato spalmabile artigianale, penso di prenderne uno piccolo, tanto per avere qualcosa di dolce da spalmare sul pane, ma neanche il tempo di pensarlo che vedo mamma prenderne uno di quelli grandi e portarlo alla cassa, allora le dico, seria: «Hai il diabete non dovresti neanche annusarla la cioccolata, poi proprio il barattolo grande hai preso? Almeno prendi il piccolo!»

    «Bisogna sapersi controllare a prescindere dalle quantità, io mi so controllare, altrimenti a quest’ora sarei già morta o insulino-dipendente, come credi che sia sopravvissuta questi due anni da sola?» mi risponde, fissandomi infastidita.

    La signora Gina, che sente il nostro piccolo dibattito, cambia espressione, capendo in questo modo che mio padre non c’è più. Dopo le parole di mia madre mi sento presuntuosa: che ne so in fondo io del suo modo di vivere?

    Mi ero trasferita da lei da poco tempo, non la conoscevo così

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