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L altra metà delle note
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E-book435 pagine6 ore

L altra metà delle note

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Info su questo ebook

Tina è una giovane violinista e da sempre insegue il suo grande sogno: vivere di musica. A soli tre anni ha iniziato a pizzicare le corde di un violino e ha scoperto la bellezza delle note e il loro potere ammaliatore grazie ai suoi genitori e alla Maestra Fiò. Da quel momento, tutta la vita di Tina è ruotata intorno a quello strumento magico, fino ad arrivare a un passo importante: l’ingresso in una delle più prestigiose accademie musicali. Un esordio folgorante. Per fare questo passo la protagonista deve lasciare la sua famiglia e trasferirsi nella Grande Città dove va a vivere con Katia, un’eccentrica coinquilina appassionata di moda. E così tutto cambierà nella vita della violinista: la quotidianità, le amicizie, i punti di riferimento e persino i desideri. L’incontro poi con la carismatica ma temuta direttrice d’orchestra Sheila Hunter segnerà una svolta inattesa nel suo percorso: da un lato una repentina ascesa professionale, dall’altro un baratro emotivo accompagnato da un tormentato rapporto con il cibo.

Il romanzo d’esordio di Laura Marzadori, narrato in presa diretta, ci trasporta nel mondo della musica in maniera coinvolgente. E nelle pagine risuona una colonna sonora emozionante davvero unica, classica e moderna allo stesso tempo.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2021
ISBN9788830524361
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    Anteprima del libro

    L altra metà delle note - Laura Marzadori

    Rogers

    1

    ULTIMO GIORNO

    Per la prima volta dopo settimane non ho messo la sveglia.

    Voglio godermi con calma ogni minuto della giornata, voglio aspettare che arrivi mia madre che come sempre aprirà la porta della camera e mi dirà: «Tina, sei sveglia?».

    Questa volta invece di gridarle contro che manca ancora mezz’ora alle otto, la stupirò e risponderò: «Sì, mamma».

    Sono sveglia già da un po’, da quando la luce del sole è filtrata attraverso le persiane. Ho aperto gli occhi, giusto il tempo di capire dov’ero e mi sono resa conto che questa notte sarà l’ultima che passerò in questo letto. Domani salirò sul treno e arriverò là dove il sogno prenderà forma. In quella città che sembra nata apposta per ospitare il set cinematografico più emozionante di sempre, dove poter scrivere la sceneggiatura del mio personalissimo film.

    Posso già sentire il rumore delle auto che sfrecciano, il vociare delle persone, percepisco la frenesia, respiro l’arte e non vedo l’ora di riempirmi gli occhi di bellezza. Voglio fare tutto, voglio vedere tutto, voglio conoscere tutto, voglio esplorare tutto, voglio lasciarmi travolgere dall’energia che quella città riesce a emanare.

    Ancora non mi sembra vero.

    Se ripenso all’audizione, a quanto mi ero preparata tra lezioni, studio, prove di esecuzione e alle raccomandazioni del Maestro: «Tina, la musica è passione e tecnica, cuore e cervello». Certo la tecnica è importante, fondamentale, ma ciò che mi ha sempre interessato e affascinato della musica è quello che comunica, il mio obiettivo è arrivare al cuore delle persone. Non mi interessa suonare in modo troppo studiato, forse non sarò sempre perfetta ma preferisco affidarmi anche all’istinto.

    «Tinaaaa, sei sveglia?»

    «Sì, mamma…»

    «Oddio, Carlo, hai sentito?! È svegliaaa.»

    Bastava davvero così poco per rendere felice mia madre di prima mattina?

    A quanto pare, sì.

    Mi stiracchio ancora un po’ nel letto, annuso il profumo delle lenzuola fresche di bucato – devo assolutamente ricordarmi di chiedere a mia madre il nome di questo detersivo –, sciolgo le caviglie, mi stropiccio gli occhi e con un colpo di addominali eccomi seduta sul bordo del materasso.

    Un sorso d’acqua, una sbirciata al cellulare – i messaggi dopo il caffè, è una mia regola –, apro le persiane verdi della finestra che, contro gli intonaci rossi, creano quel contrasto di colori che caratterizza la Mia Città. Anche nella Grande Città avrò le persiane, ma sono verdi o marroni? Boh, e chi se lo ricorda?

    Chissà se la mia coinquilina è una tipa ordinata e soprattutto se sa cucinare. Devo dire che una delle cose che più mi preoccupa della mia prossima nuova vita è il discorso culinario. Mia mamma, pur non amando particolarmente preparare da mangiare, ai fornelli è una macchina da guerra: coordinata e precisa come una ballerina, organizzata per gestire al meglio il suo preziosissimo tempo, non rinuncia a cucinare in modo sano e naturale. «Niente cibi precotti o confezionati, niente merendine piene di grassi saturi, si mangiano i biscottini che faccio con Angela» – la nostra storica dada (come chiamiamo noi la tata) che la supporta nelle varie fasi della sua coreografia. Esattamente il contrario di come sono io: scoordinata, confusa e smemorata, nei miei piatti, per nulla gourmet, manca sempre qualche ingrediente. In ogni caso sono serena, perché so che mi salverà il delivery. Certo, se la coinquilina sapesse cucinare, non sarebbe affatto male.

    Faccio colazione sul terrazzo: latte tiepido, cereali e caffè in tazzina, rigorosamente con la moka. Il profumo del caffè che sale rimane in assoluto uno dei miei preferiti, mi dà serenità, mi calma.

    «Che c’è, Tina?»

    «Papà, ciao! Buongiorno. Ma no, niente, mi stavo domandando se in città troverò un Aldo, il panettiere!»

    «Be’, mi sa che al mondo una copia di Aldo non c’è! Ma troverai senza dubbio una valida alternativa. Certo, come fa il pane Aldo…»

    Per mio padre la nostra Città, e tutto quello racchiude, è sempre la migliore in assoluto.

    «Sono sicuro che Jovanotti si trovava qui quando ha scritto L’ombelico del mondo» ripete spesso.

    Ci è nato e cresciuto, ne conosce ogni angolo, e non era affatto scontato che, «visto che qui c’è tutto quello che serve», accettasse il trasferimento di una figlia in un’altra città. Invece ha capito che qui non avrei avuto le stesse opportunità e che per raggiungere determinati livelli è necessario esplorare, fare esperienza, magari anche fallire, per poi rialzarsi. Ma io adesso quest’ultimo aspetto non vorrei proprio considerarlo come opzione!

    Devo dire che, sin dalle prime volte che mi è capitato di dover viaggiare per qualche concerto o concorso, mio padre mi ha sempre sostenuto.

    È pur vero che se avesse anche solo accennato a non essere d’accordo su qualcosa, la mamma non gliel’avrebbe fatta passare liscia.

    Mia madre è sempre stata la mia fan numero uno: attenzione, lei è una di quelle fan che se ti deve bastonare ti bastona, eh! È oggettiva, a volte pure troppo, però io preferisco così. Certo, se ogni tanto prendesse le cose con un po’ più di leggerezza, sarebbe meglio… A volte è così ansiosa che sembra ci debba salire lei su quel palco a suonare.

    «Allora, stasera cosa vuoi fare? Ceni con noi e poi vai a festeggiare con gli amici o stai fuori con loro direttamente?»

    «No, mangio con voi, che ho ancora un po’ di cose da sistemare, ed esco subito dopo.»

    «Perfetto.»

    Faccio una doccia tiepida, riesco ancora a percepire gli ultimi strascichi dell’estate. Il soffione della doccia di casa è tipo cascate del Niagara, ci sto sempre sotto un tempo indefinito, d’inverno mia madre ogni tanto entra per dirmi che se non esco mi cuocio. Tutte le volte riesco a farmi venire la pelle raggrinzita come quando si fanno i bagni lunghissimi al mare. A disturbare il mio momento di pace ci pensa mia sorella Lisa, che con irruenza si fionda in bagno saltellando: «Ma ti rendi conto? Ma posso venire a trovarti? Il letto è grande? Ci stiamo in due? E in tre? Nel caso volesse venire anche la piccola».

    «La piccola da sola con te, non esiste proprio! Comunque sì, il letto è grande e puoi venire a dormire da me, però decido io come e quando.»

    Anche le mie sorelle sono eccitate all’idea del mio trasferimento. Se ne sono vantate con i nostri amici in comune, le ho lasciate fare ma personalmente ho sempre preferito mantenere un profilo composto e discreto, non mi è mai piaciuto fare sfoggio dei miei traguardi. Sebbene ne sia molto orgogliosa, non mi piace vantarmene. Tutto qui.

    Finisco di sistemare le ultime cose per la partenza di domani e poi accontento le mie sorelle e faccio un giro con loro in centro; vogliono dei regali, ma riesco a sviare l’attenzione: «Non ho capito, scusate, sono io che parto, dovrei essere io semmai a ricevere dei doni!».

    «No, ti prego, ti stai portando via tutte le tue cose e non possiamo più rubarti niente dall’armadio, ti prego regalaci qualcosa di super!» interviene Lisa.

    «Se ci pensate bene, però, nella Grande Città le cose sono ancora più super, ve li prendo lì i regali, no?» Vediamo se le convinco…

    «Effettivamente» conclude la piccola, indispettendo Lisa.

    È bellissimo e difficilissimo essere la sorella maggiore: sei il punto di riferimento, il pungiball su cui sfogarsi, il porto sicuro dove approdare quando c’è un problema. Una responsabilità mica da poco, non sei nemmeno libera di sbagliare quanto ti pare, perché poi c’è il rischio che una delle due ripeta il tuo errore!

    Mi mancheranno da morire queste due, mi mancherà tutto di loro, in primis tutti quei difetti di cui mi sono sempre lamentata, lo so. Ma sono certa che ogni volta che tornerò faremo tante cose insieme.

    La giornata scivola via veloce, e in poco tempo viene sera.

    Abbiamo mangiato tutti insieme, facendo finta che fosse una serata qualunque, come mille altre passate in famiglia, eppure ogni tanto ci sono stati piccoli momenti di silenzio dove probabilmente ognuno pensava a come sarebbe stata la vita dall’indomani.

    Dopo cena vado in piazza a salutare per la centesima volta il mio gruppo di amici. «Oh, mi raccomando, non è che la prima volta che torni poi non ti riconosciamo più, eh?» bofonchiano i più scettici. C’è poi chi mi prende in giro imitando la mia voce con un nuovo accento. E chi come Fede, la mia migliore amica, non la smette di piangere.

    «Oh, guarda che non vado mica in Nuova Zelanda!» cerco di rassicurarla.

    Con sorpresa la notte prendo sonno quasi subito. Faccio un sogno tra l’inquietante e il comico: salgo sul treno sbagliato, un treno senza meta che avrebbe viaggiato ininterrottamente.

    Ok, sono pronta per la mia nuova vita.

    2

    UN NUOVO INIZIO

    Oggi, domenica 8 settembre, approdo nella Grande Città. Arrivo in treno, di pomeriggio. Mi accoglie una stazione molto più grande di quella della Mia Città, e c’è più gente. Mi piace, così imponente e maestosa, mio papà suggerirebbe che è in stile Liberty o forse Art déco, magari è una miscela dei due. Mi piace soprattutto l’ampia e lunga tettoia di ferro e vetro che copre i binari e ti protegge: scendi senza temere pioggia o neve e ti dà perfino l’impressione di ripararti dal freddo. E poi, quel tragitto a piedi, prima di arrivare nell’atrio brulicante, consente di prenderti il tempo per acclimatarti, soprattutto a me che arrivo nuova nuova senza sapere ancora bene cosa mi aspetta.

    Senza dubbio c’è un sacco di gente. Anche nella Mia Città ce n’è molta e ci sono tanti stranieri, ma qui sembrano parecchi di più, si respira un’atmosfera international. Ho l’impressione che sia diverso anche il modo di vestire: tutti trendy, elegantoni, anche i miei coetanei. Questa ragazza che mi sfreccia accanto, per esempio, avrà all’incirca diciotto anni come me, ma guarda un po’ che mise, pare molto sicura di sé con quegli stivaloni texani bianchi e neri, gli shorts strappati, la giacca biker in pelle e la grossa borsa firmata. Be’, che dire: look a effetto. Anche io e le mie compagne di liceo avevamo sempre le sneaker all’ultimo grido, ma qui siamo su un altro pianeta. Non si tratta solo della scarpa che piace a tutte, mi sembra che qui la moda sia un biglietto da visita da esibire.

    Da noi si respira un’atmosfera più casereccia, forse per tutti quegli studenti fuori sede un po’ sfattoni che si vedono in giro, e anch’io, quando esco, spesso mi butto sopra la tuta una cosa qualunque senza pensarci su. Che poi uscire da casa mia, che sta dentro le mura, ti dà semplicemente l’impressione di passare dal tuo salotto a un altro, solo un po’ più ampio.

    E comunque la Mia Città è più piccola, ora mi trovo in una metropoli che è al centro del mondo: business men e women, modelli e modelle e chissà chi altro. Si muovono tutti velocemente, ma dove vanno? Chissà se mi vedono, e se mi vedono – cosa di cui non sono affatto sicura – che impressione hanno di me? Provo a fare mente locale su come sono vestita: volevo stare comoda sapendo di dover viaggiare e quindi giacca di pelle, pantaloni della tuta e Vans. Guardandomi ancora una volta intorno concludo che questo pomeriggio non posso certo competere con queste supervamp dai look stratosferici e svolazzanti.

    In ogni caso, ho fame e mi compro subito un muffin che mangio al volo tirandomi dietro il mio trolley gigante; ma quante mani ci vogliono? Borsa, valigia, muffin. Per fortuna il violino sta per conto suo, senza impicciare, dentro la custodia a zainetto, si fa sentire solo come un modesto peso sulle spalle, merito anche della custodia in carbonio, regalo dei miei. Mi viene in mente quella volta che andai per un concerto a Portland e, alla dogana dell’aeroporto, un tizio in divisa piuttosto imponente mi chiese con aria semiseria cosa portassi lì dentro: «A gun, Miss?». Avevo solo sedici anni; prima era passata mia mamma, che ora fissava me e lui con una certa ansia – mia mamma ha sempre l’ansia. Su gentile invito della guardia aprii la custodia e apparve il mio Curletto del 1942; lui sorrise sornione, soddisfatto delle nostre facce preoccupate: «Oh, a violin, Miss!». E che altro ti credevi?, pensai tra me e me.

    Comunque scommetto che qui, in questa grande stazione, nessuno immaginerebbe mai cosa nascondo nel mio guardaroba a rotelle, accuratamente avvolta nei vestiti. Quando mia madre ha visto che la stavo impacchettando ha esclamato: «Tina, sei pazza? La tv in valigia? Non ce la farai mai!». Macché non ce la farò, ce l’ho fatta benissimo e adesso sta qui dentro: la mia tv a schermo Led, sottile, ultimo acquisto a completamento dell’arredo della mia camera. Con lei mi addormentavo dopo aver guardato un film con le mie sorelle. Magari restava accesa anche tutta la notte, a volume basso, un chiacchiericcio rassicurante. Non ci pensavo proprio a farne a meno là dove sarei andata.

    Lasciato l’atrio dove arrivano e partono i treni, eccomi davanti a un’ampia scalinata fiancheggiata da due colonne imponenti ed eleganti; questa è la scalinata centrale, ma ce ne sono altre due più piccole ai lati: tre scalinate in corrispondenza delle tre grandi uscite sulla piazza della stazione. Ma io non esco lì fuori, scendo ancora, giù nella metropolitana. Sono sicura che mi abituerò presto a questi mezzi veloci che non ti danno nemmeno il tempo di aspettarli: comodissimo spostarsi, molto più comodo che con gli autobus della Mia Città. Scale mobili e poi altre scale, sì, ci prenderò la mano alla metro: un altro segno che sono arrivata in una vera metropoli.

    Il muffin è finito, grazie al cielo, ora devo concentrarmi per capire qual è la mia linea. Ho odiato fin dalla prima volta la luce sparata e fredda che fa molto sala di un interrogatorio, e continua a stupirmi la velocità con cui si sposta la fiumana di persone: sono centinaia eppure sembrano un’entità unica. Non si guardano in faccia e mi danno l’impressione di tenersi stretta la borsa con sospetto; pochi sorrisi, occhi agli orologi o ai cellulari e movimenti meccanici per obliterare il biglietto o imboccare le varie uscite verso le scale mobili. Io devo cambiare due linee dalla stazione a casa. Sono così confusa che mi sento già stanca, e poi gli spazi chiusi mi hanno sempre agitata un po’, figuriamoci quelli sotterranei. Per fortuna l’ultimo tratto sbuca in superficie ed è come prendere una bella boccata d’aria. Ecco i grandi alberi del viale vicino a quella che sarà la mia nuova casa: sfilano ordinati di fronte alle palazzine di periferia, un po’ tutte uguali e fredde, ma io, volando con la fantasia, le immagino piene di famiglie riunite con tanti bambini che giocano felici. Ogni tanto il sole si fa largo tra i nuvoloni e tutto cambia subito aspetto. Ora mi attende un breve tratto a piedi lungo il viale trafficato, poi in un attimo giro nella piccola via lungo il canale, lasciandomi alle spalle smog e rumore.

    Sono arrivata.

    L’ingresso della mia nuova casa non è niente male, devo ammettere che non gli avevo dato troppa attenzione la prima volta che sono venuta con i miei per valutare se prendere o meno la stanza. Il palazzo è un edificio piuttosto elegante, «anni Trenta» aveva osservato mio padre. Il portone è verde scuro a due ante, con dei grandi battenti d’ottone e pesantuccio ad aprirsi. Ma quello che mi intriga di più è che il piano terra, un bello spazio che si sviluppa su entrambi i lati del portone, è occupato da un ristorante, ma non uno qualsiasi, uno famoso nella Grande Città, stellato. Mi piacciono i ristoranti e ancora di più quelli super come questo. Per ora l’ho visto solo di sfuggita, ma nei prossimi giorni scenderò a curiosare un po’ e a dare un’occhiata al listino, ammesso che lo abbiano esposto. Ora che ci penso, probabilmente non ci sarà nessun listino in bella vista, meglio informarsi in rete, così capirò se almeno una volta ci potrò venire.

    Attraverso un breve androne e alla sinistra di un piccolo cortile interno, accanto all’ascensore, ci sono delle scale ampie, che imparerò a salire regolarmente, su fino all’ultimo piano. Adesso, ferma davanti al primo gradino, sto pensando a come fare: devo sperare che ci sia qualcuno dei miei futuri vicini in casa disposto ad aiutarmi. Dovrebbe solo scendere ed essere così gentile da accompagnare il mio guardaroba a rotelle su con l’ascensore. Io lì dentro non ci salgo, patisco troppo a causa della claustrofobia. Mia madre dice che in questo assomiglio a papà: «Piena di paturnie, come tuo padre».

    Il pensiero torna di nuovo a Portland, due anni fa. Ricordo l’ansia nella hall dell’Hilton, dove io e mia madre eravamo ospiti: la camera al quindicesimo piano, il terrore di dover prendere l’ascensore. E il sollievo quando ho scoperto che l’ascensore era in pratica una stanza sali-scendi con un corrimano luccicante lungo le pareti su cui io, quando salivamo da sole, improvvisavo audaci esercizi di ginnastica; e poi grandi specchi che la facevano sembrare ancora più grande. Be’, qui non è lo stesso, ma grazie al cielo i piani da fare sono solo quattro; comunque adesso il problema è il mio guardaroba, con tv incorporata, che sicuramente non riuscirei a trascinarmi su per le scale, quindi devo trovare una persona gentile che scenda e lo accompagni al piano, ma il cellulare della mia coinquilina squilla a vuoto e nessuno risponde al mio «Ehilà, c’è qualcuno?!». Decido allora di mandarlo su da solo, io poi mi affretterò a recuperarlo.

    Ce l’ho fatta! Ho preso il bagaglio e non ho nemmeno il fiatone per i gradini; un giorno di questi li conterò.

    Sono quasi emozionata a infilare la chiave nella toppa, apro la porta su una sala abbastanza ampia e accogliente. Nella parete di fronte, una bella finestra che dà sulla strada e sul Gran Canale; a destra, un cucinotto modesto ma provvisto di tutto. A sinistra, la zona notte a cui si accede attraverso un piccolo disimpegno: due camere e un bagno, il mio, la mia coinquilina Katia ne ha uno privato. Il pavimento è in legno, non antico come quello di casa mia, ma comunque confortevole e di un bel colore caldo.

    La mia stanza ha una grande finestra ed è luminosa, a differenza della mia vecchia camera dove il sole entrava solo un paio d’ore intorno a mezzogiorno. Si affaccia sul Gran Canale e guardando lontano, lontanissimo, spuntano le montagne. Ho sempre sognato di vedere le montagne dalla finestra, proprio come quando d’estate andavo in Carnia, nella casa dei nonni. Là, tutto era magico: ricordo la sensazione di entusiasmo dal momento in cui mi svegliavo fino alla sera tardi. Passavo il tempo a giocare con mia sorella Lisa (la più piccola non era ancora nata), organizzavamo qualsiasi cosa, circondate da quelle montagne, su quei prati soffici pieni di mostri che saltavano e frusciavano tra l’erba: così apparivano gli insetti a me, bambina di città. Il pomeriggio era per i compiti, per l’esercizio con il violino e per giocare a carte con il nonno, che qualche volta ci faceva vincere. Ecco, per un attimo, entrando nella mia nuova stanza, mi sono ritrovata là, in mezzo a quegli odori e colori.

    Il letto è abbastanza grande, di legno chiaro come il resto dei mobili. Anche se non mi entusiasma questa monotonia di colore e materiali, le linee moderne, nel complesso, non mi dispiacciono. A conti fatti, comunque, il punto forte, anzi fortissimo della camera rimane la finestra.

    Faccio entrare il mio guardaroba a rotelle e lo apro con cautela. Sposto i vestiti che l’avvolgono ed ecco spuntare la tv. Sembra integra, devo solo trovarle una sistemazione decente e sperare che ci sia una presa per l’antenna nelle vicinanze. C’è una specie di mobile con cassetti, è un po’ alto ma per ora credo che la poggerò lì. L’altro oggetto che mi sta a cuore è la Louis Vuitton acquistata con il cachet di alcuni miei concerti, la mia borsa preferita. Avevo paura che si potesse rovinare, strizzata in valigia, ma fortunatamente è ancora perfetta e non teme certo il confronto con tutte quelle borse griffate viste alla stazione.

    Anche se non assomiglia alla casa dove sono cresciuta, la mia nuova sistemazione mi piace, perché sarà la MIA casa, il mio spazio, la mia nuova libertà.

    3

    L’ACCADEMIA

    La prima volta che sono venuta nella Grande Città è stata quando in primavera ho fatto l’audizione per entrare nell’Accademia di musica, gloria di questa metropoli, famosa nel mondo almeno quanto il suo teatro d’opera. L’Accademia è la scuola in cui tutti i giovani come me vorrebbero studiare. Chi entra qui ha una possibilità in più di farcela, nel senso di fare il musicista di professione.

    L’edificio che la ospita è all’altezza di tanta fama: un antico palazzo che l’ultimo discendente di una nobile famiglia, amante della musica, decise di trasformare in una fucina di talenti, lasciandolo alla sua morte alla Grande Città affinché proseguisse questo suo disegno. Nessun’altra accademia al mondo, pur famosa, può vantare una sede così prestigiosa e ricca di storia. Un ingresso imponente, con una facciata medievale, introduce in una corte con un portico dalle volte affrescate che corre lungo tutto il perimetro. Al centro, un antico pozzo in pietra messo lì, sembra, nel Settecento; due colonne poggiate sul bordo di una preziosa vasca pentagonale sorreggono una pietra con sopra inciso il motto PROPERE ET PROSPERE.

    All’interno, un susseguirsi di stanze affrescate, stucchi, quadri, arazzi, gigantesche specchiere dorate alle pareti e lampadari che luccicano anche se spenti; in terra, tappeti e corsie colorate lungo i corridoi. Pregiati mobili d’epoca fanno compagnia a spinette, fortepiani, clavicembali antichi. Bacheche settecentesche sfoggiano fotografie che, sebbene ingiallite, raccontano straordinarie frequentazioni di questo luogo: i più grandi musicisti di sempre si mostrano in compagnia di autorità o in occasione di preziose quanto esclusive esecuzioni, che sicuramente solo pochi hanno avuto il privilegio di ascoltare. E poi due stupende sale da concerto, non troppo grandi, ma che lasciano senza fiato per la loro bellezza e raffinatezza.

    Non soltanto passato, certo; queste antiche stanze ospitano moderne ed efficienti segreterie, dove persone gentili si rivolgono agli studenti in inglese o italiano; altri uffici per l’amministrazione e perfino un bellissimo shop con accesso dal cortile in cui si possono acquistare registrazioni rare, spartiti e libri, fino alle matite con lo stemma della casata.

    Be’, se riesci a non lasciarti intimidire, qui puoi davvero fare un tuffo, come Alice nel Paese delle Meraviglie, in un luogo altro, diverso, esclusivo che, se ce l’hai fatta, diventa anche un po’ tuo; un vero privilegio, a pensarci bene. I poveri turisti che passano lì fuori, con il naso all’insù a guardare la meravigliosa facciata, possono accedere al massimo nel cortile e nella cappella di famiglia che dà sul portico; il resto è off-limits per loro, tanta magnificenza è per noi mocciosi, purché muniti di una custodia sulle spalle.

    Facce di ogni genere, provenienti da tutto il mondo, percorrono con i loro strumenti corridoi, salgono e scendono scale alla ricerca dell’aula dove studiare o di quella dove fare lezione con i migliori insegnanti sulla piazza. Oppure sostano davanti a bacheche piene di bigliettini in cui si offre e si compra di tutto, si condividono stanze, si combinano ensemble di musica da camera e si annunciano concerti. Le lingue di tutto il mondo si fondono in un inglese sui generis che con quello di Oxford ha poco a che spartire; un idioma universale parlato con speditezza e soprattutto senza timidezza o timore: l’importante è capirsi. E quando fai musica insieme, per comunicare ti basta poco altro.

    La prima volta che ci ho messo piede sono andata in segreteria, dove mi è stato dato un badge provvisorio e mi è stato detto dove si sarebbe tenuta l’audizione per l’ammissione alla classe di violino del Maestro Nikolaj V. Sulla porta ancora chiusa dell’aula, era affisso un foglio con l’elenco dei pretendenti ai soli quattro posti liberi: una trentina circa. Rosicchiando un delizioso croccante ai semi, ho cominciato a scorrere la lista: quasi tutti stranieri con una netta maggioranza di orientali. Audizioni e concorsi sono ormai pieni di agguerritissimi figli del lontano Oriente, me lo spiego pensando che in fondo loro sono miliardi e che, a quanto pare, adorano la nostra musica, anche se l’hanno conosciuta relativamente di recente, e comunque sembrano amarla e rispettarla più di noi che l’abbiamo creata nei secoli. Alcuni potevano essere tedeschi, un paio spagnoli e altri che non so; di italiani eravamo in due.

    Ero carica, senza essere travolta da quelle ansie che tolgono il respiro. «Occasione unica e irripetibile» mi aveva detto mia madre prima che partissi, così per darmi la giusta carica. Per fortuna non le do sempre retta: per lei qualunque occasione in cui vengo chiamata a misurarmi con il violino è unica e irripetibile; in quel momento io invece pensavo semplicemente che fosse difficile farcela, e che se questa volta non fosse andata bene avrei potuto riprovare qui o altrove.

    Alcuni ragazzi della lista erano già lì in attesa, seduti sulle poche seggiole poste nel corridoio o appoggiati alla parete; per me erano tutte facce sconosciute. Un paio di loro parlavano fitto in una lingua che poteva essere russo. Io stavo circa a metà dell’elenco e un rapido conto mi fece concludere che sarei stata tra i primi del pomeriggio. Avevo deciso che avrei aspettato l’appello e poi cercato un posticino dove studiare un po’; a pranzo avrei approfittato di un bar-tavola calda poco lontano dall’Accademia, che avevo visto arrivando e mi era parso ben fornito. Una cosa che avevo imparato dall’esperienza di altre audizioni e concorsi è: mai rimanere ad ascoltare gli altri candidati; è solo stressante e rischioso, soprattutto quando ti ritrovi davanti quei mostri impeccabili che non sbagliano una nota e vanno avanti così fino alla fine, e mentre tu ti chiedi da quale pianeta arrivino, la tua autostima rovina come un masso giù dalla piccola cima, là dove tu l’avevi faticosamente portata.

    Per primo è arrivato il pianista accompagnatore, faccia simpatica con naso importante alla Dante Alighieri, trentacinque anni forse, modo di fare tranquillo e incoraggiante.

    «Buongiorno a tutti, sono Giovanni, il pianista accompagnatore di questa classe di violino. Il Maestro sarà qui tra poco, verifichiamo intanto chi c’è e chi suonerà questa mattina.»

    Come previsto, ero passata come seconda nel pomeriggio; un sorriso amichevole del pianista aveva accompagnato la scansione del mio nome: «Tina Moroso, bene, signorina, direi che lei può tornare verso le quindici».

    Dopo aver ringraziato, mi sono avviata lungo il corridoio verso l’atrio, dove un corpulento signore con capelli neri, faccia tonda e rubiconda, e grembiule nero aperto davanti, mi ha detto: «No, signorina, purtroppo non ci sono aule libere per riscaldarsi». Un classico, in ogni caso avevo adocchiato delle toilette con ampio antibagno, perfetta soluzione d’emergenza. Prima che ci pensasse qualcun altro, mi sono precipitata in quello delle signore e mi sono sistemata con una seggiola raccattata in corridoio: leggio e sonata di Beethoven.

    Portavo la numero 6 in la maggiore, una delle prime che avevo studiato con il mio insegnante. Non certo tra quelle più gettonate nei cartelloni dei concerti, dove la fanno da padrone La Primavera o la celeberrima Kreutzer, ma il mio Maestro me l’aveva fatta studiare in occasione di una tournée che mi ero guadagnata vincendo un prestigioso concorso di violino con concerti a Praga e in Germania, compresa la partecipazione a una trasmissione radiofonica. In alcune stagioni importanti l’aveva presentata Leonidas Kavakos, superviolinista che lui ammirava molto: ed ecco chiuso il cerchio. Comunque è musica straordinaria, non si discute, a partire da quel la alto, quasi sospeso, che proprio all’inizio si prende tutta una battuta e oltre, per poi svilupparsi in una lunga arcata di note legate tra loro a formare una frase sospesa, quasi una domanda, che ti cattura nell’attesa di una possibile risposta che non verrà. Con lo stesso la, ancora più sospeso se possibile, inizia il secondo movimento, una melodia sublime, calma, serena, potente nel conciliarti con tutto ciò che ti circonda.

    Oltre alla sonata era richiesto un capriccio dell’immancabile Paganini. L’avevo fatto sentire proprio la sera prima, al telefono, al mio vecchio Maestro. La lezione al telefono era una modalità abbastanza comune tra noi; quando stava fuori città o in viaggio e io avevo impegni importanti, lui comunque non voleva rinunciare a tenere alta la tensione fino all’ultimo. In quel caso posizionavo il cellulare sul leggio, accanto allo spartito, e suonavo anche pagine intere; lui ascoltava, magari in vivavoce durante i suoi frequenti spostamenti in auto, tra concerti e lezioni in Conservatorio. Quando lo raccontavo agli amici, nessuno ci credeva o spesso veniva considerata come una pratica quantomeno originale: in realtà funzionava. Non so come facesse, ma ascoltava da capo a fondo e poi, ricordandosi tutto, partendo dall’inizio, sistemava ogni passaggio imperfetto, ogni nota non precisamente intonata, perfino un’arcata sbagliata: «A battuta 25 così, così e così». Le prime volte mi ritrovavo quasi a guardarmi attorno per capire se non fosse in realtà nascosto alle mie spalle, poi con il tempo ho capito che si trattava di un piccolo miracolo reso possibile dal fatto che lui è uno straordinario maestro, che mette passione nell’insegnare e soprattutto che ha a cuore ciascun allievo.

    Paganini mi sembrava andare via liscio; intanto era arrivata l’ora di pranzo, anzi, tra studio e qualche occhiata a Facebook, si era fatto tardi. Come da programma mi sono avviata verso il locale all’angolo della via dell’Accademia: mi era piaciuta l’insegna CAFFÈ un po’ rétro e avevo visto entrarci parecchi studenti. La pioggerellina del mattino si era trasformata quasi in una bufera di vento e goccioloni, con una corsa sono arrivata all’ingresso. Era un posto proprio accogliente, mi era piaciuto fin da subito per quell’aria non eccessivamente modaiola; le gonfie poltrone di pelle un po’ macerata e i bassi tavoli rotondi mi ricordavano il ritrovo di Friends, la serie televisiva che guardo sempre. I due ragazzi dietro il bancone mi hanno salutata come se già mi conoscessero: Anna e Marco sembravano poco più grandi di me e ho subito pensato che sarebbero diventati un pezzetto della mia nuova famiglia. Mi sono sistemata in un angolino, quel giorno avevo giusto il tempo per uno spuntino, ma sentivo che in quel posto ci sarei tornata, e spesso.

    Quando sono arrivata davanti alla porta dell’aula dell’audizione erano già le due e mezza; da dentro riecheggiava la sonata di Debussy, mi pareva ben eseguita. Dopo sarebbe toccato a me. Avrei varcato la porta e, seduto al pianoforte a coda, il pianista con il naso importante mi avrebbe sorriso; alcuni candidati coraggiosi mi avrebbero soppesata dalle seggiole in file ordinate e poi ci sarebbe stato lui, il Maestro Nikolaj V., noto violinista ma soprattutto insegnante dalla fama incontrastata. Russo d’origine, aveva formato allievi molto brillanti che erano riusciti a farsi strada in questo mondo impossibile, e ciò faceva di lui un insegnante ricercatissimo. Le masterclass che teneva nelle migliori scuole del mondo, dal Giappone agli Stati Uniti e ovunque in Europa, erano di fatto blindate, anche perché spesso lui invitava i suoi allievi stabili e a quel punto, come si dice dalle mie parti, non ce n’era più per nessuno.

    Io ero riuscita per caso a fare con lui un paio di lezioni a novembre dell’anno scorso, in occasione di un suo rapido passaggio nella Mia Città. Aveva tenuto una masterclass di un paio di giorni che non era sfuggita all’occhio attento di mia madre: «Un’occasione imperdibile, Tina, da sfruttare». Era andata bene, mi era parso di avergli fatto una buona impressione, pensiero confermato dal fatto che quando mi ha vista entrare nell’aula dell’Accademia per l’audizione si è ricordato di me: «Tina, buongiorno, anche tu qui». Una frase semplice, apparentemente innocua, che ha avuto però su di me l’effetto di un potente tranquillante e stimolante allo stesso tempo. Attenta alla mia mano destra, su cui lui all’epoca aveva avuto qualcosa da dire, ho cominciato da Beethoven. Quell’incipit sereno e calmo mi porterà bene, Paganini lo lasciamo per dopo, ho pensato.

    Sono uscita abbastanza soddisfatta di com’era andata. La prima chiamata è stata per mia madre che sicuramente aveva fatto tutti i suoi conti per stimare ora e durata dell’audizione, e da quel momento in poi sarebbe entrata in uno stato catatonico in attesa della mia telefonata. Ha risposto cercando di darsi un contegno: «Be’, com’è andata?».

    «Bene, sono contenta» e lei ha proseguito con il suo immancabile: «Ma… bene o benissimo?». Frase diventata ormai celebre tanto che io e le mie sorelle la prendiamo in giro.

    «Sì, mamma, benissimo! E comunque il risultato si saprà solo domani verso ora di pranzo.»

    Ho pensato di meritarmi un gelato, una passeggiata e una serata tranquilla con tv e Facebook. Avevo tempo, molto tempo, prima della tempesta adrenalinica del giorno dopo, quando mi sarei ritrovata davanti alla bacheca ufficiale dell’Accademia, posizionata non lontano da quella affastellata e disordinata degli studenti; avrei scrutato i fogli dei risultati delle audizioni cercando quella del Maestro Nikolaj V…

    … subito prima di scorgere come terzo, tra i quattro nomi degli ammessi, proprio il mio: Tina Moroso.

    Ce l’avevo fatta, di lì a qualche mese la mia vita sarebbe cambiata.

    4

    FUORI DALLA TANA

    Quando ho iniziato a suonare ero talmente piccola che a stento sapevo parlare, per questo non ho ricordi della mia vita senza la musica. I miei genitori mi hanno accompagnata in una scuola di violino che non avevo ancora tre anni. Nessuno dei due è musicista, né avrebbe potuto vedere in me, che ero così piccola, alcun talento; il fatto era che entrambi amavano la musica classica. Mia madre in particolare l’aveva conosciuta da grande, ben dopo la sua laurea in Fisica. Era stato un incontro casuale, come amava precisare: «Per come funzionano le cose nel nostro bellissimo paese, sarei potuta arrivare alla fine dei miei giorni senza avere l’occasione o, meglio, l’opportunità di ascoltare il Quintetto D.956 di Schubert! Una vera tragedia». Con questa consapevolezza,

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