Diario di un runner qualunque
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Anteprima del libro
Diario di un runner qualunque - Giorgio Izzillo
Riscaldamento
«Non importa cosa trovi alla fine di una corsa, l’importante è quello che provi mentre stai correndo».
Ogni giorno milioni di persone si infilano un paio di scarpette e asfaltano la superficie del pianeta ispirate più o meno consapevolmente da questa frase di Jesse Owens.
Io quando ho capito che mi piaceva correre?
Di preciso non saprei. Forse l'avevo realizzato molto prima di cominciare a farlo con continuità e applicazione, ma fidandomi più degli altri che di me mi sarò detto che si trattava di sensazioni sbagliate. Forse mi sarò fatto influenzare da quell'ortopedico, parecchi anni fa. Il dottore sosteneva che a causa di una significativa asimmetria del bacino la corsa non faceva al caso mio, a meno che non volessi rovinarmi le articolazioni e convivere con un cronico mal di schiena.
Di sicuro non ho mai avuto le stesse granitiche certezze del leggendario JO
e di altri atleti che hanno imboccato molto presto la loro via agonistica, fondendo la passione al talento e raggiungendo i massimi traguardi sportivi. Un fantastico Olimpo da venerare per sempre, plastica rappresentazione delle capacità dell'essere umano di spingersi a ridosso dell'impossibile. Ma da quel che si sarà potuto intuire, pur avendo anch'io due scarpe e due gambe, non appartengo a questo meraviglioso microcosmo.
Io faccio parte di un altro universo, un filo più avaro di ribalte eclatanti e di echi di gloria.
Io sono un runner qualunque.
Uno tra i tantissimi che si buttano per le strade, per i viali alberati di un parco o su piste più o meno decenti perché sentono forte il bisogno di spaziare con il corpo e con la mente, di cambiare, di trasformarsi. Senza partire a tutti i costi da un vivere tormentato, dall'insofferenza e dal disprezzo per il proprio aspetto, dalle imboscate tese dalla depressione.
Quello che sono adesso lo devo alla camminata veloce, alla corsetta blanda, all’uscita solitaria per scaricare lo stress, al gruppetto goliardico che trotterella allegro, che si nutre di selfie a ripetizione e di un buon espresso al bar. Sono come mi si può vedere, come mi si legge adesso nei pensieri e nei ricordi sparsi di questo diario. E a te che non corri, se non riesci a immaginarlo, dico che per molto tempo non ho prestato eccessiva attenzione alle parole del mitico Jesse, che probabilmente ti sembrano buone solo per rimpinguare il bagaglio di aforismi in cui l'uomo pesca quando è a corto di idee compiute.
In effetti, pur apprezzandone il senso, le ho un po’ rivisitate pure io. E’ vero, quel che provi mentre corri è fondamentale, è il carburante che ti sposta in avanti, è la spinta che non ti fa demordere fino a che non sentirai di aver portato a termine il tuo sporco, gratificante lavoro.
«Ma alla fine di una corsa, davvero non c'è proprio nulla che conti? A me sembra che ci sia sempre qualcosa».
Spesso c’è molto. In qualche uscita può sembrare troppo, come la bellezza in eccesso che riempie il cuore a palloncino di American beauty fino quasi a farlo scoppiare.
Per questo tutti dovrebbero provare a correre almeno una volta. Per poter correre un po’ più veloce e un po’ più in là la volta successiva e poi un’altra volta ancora. Per provare e per trovare, durante e dopo, quel che è di solito riservato all'assiduo podista.
In definitiva, stiamo parlando di sentimenti, di stati d'animo, di istanti ritenuti irripetibili nel (tanto) bene e nel (raro) male, amplificati dall’essere parte di una comunità in cui si consolidano amicizie e legami veri.
E’ per questo che nelle pagine che seguono l’aspetto tecnico, l’indicazione dell'esperto, le leggi delle tabelle di allenamento sono elementi ornamentali.
Sono inevitabili parti del discorso che, quando presenti, addobbano una narrazione che è puramente emozionale.
Una confessione di memorie riportate in rigoroso ordine non cronologico di fronte alle quali ognuno, podista o meno, potrà sorridere, riflettere, forse restare indifferente, magari commuoversi o compatire il disadattato che le ha scritte. Perciò nella disordinata trama di queste cronache si trovano solo nomi.
Si parla di me, si parla degli altri che mi hanno accompagnato lungo un tragitto intenso e appassionante. Se tale è stato, è in gran parte merito loro.
Solo nomi. Niente cognomi, eccetto il mio; al massimo dei soprannomi. Perché al di là di chi si rivedrà, di chi si ritroverà in un rigo o in più capoversi per aver vissuto ciò che vi è scritto, un nome è di tutti e di nessuno.
Un nome, specie se caro, specie se familiare, è l’ala gentile che trasporta chiunque nel ventre di ciò che si legge, che affida chiunque all'immedesimazione con le policrome scene di un racconto privo di padroni.
Un racconto in cui può specchiarsi non solo chi condivide una passione capace di tramutarsi in un’attitudine mentale, in uno stile di vita, al peggio in quella che per alcuni è una patologia conclamata.
Ma anche il racconto del tuo possibile, intrigante futuro prossimo, dico a te che non corri ancora.
Un racconto da runner qualunque.
Manifesto
Un giorno qualsiasi. Un runner qualunque.
L’alba e i suoi dintorni. Una sveglia che suona, quando non anticipata dall’orologio biologico che ti scuote per primo dal torpore del sonno. Due dita di caffè, un cucchiaino di miele e un bicchiere d’acqua. I panni stesi sullo schienale di una sedia, preparati nel dopocena della sera precedente dopo aver visto le previsioni meteo. Il Garmin già al polso dalla notte, per rubare secondi al tempo che scivola subito via veloce. Le scarpette, due affascinanti cavalli al palo pronti ad essere montati. Apri con delicatezza la porta di casa. Cerchi di fare il minimo rumore per non disturbare chi è ancora a letto, anche se pare non serva «tanto mi svegli lo stesso, dannazione!» (mia moglie dixit). Mentre il cane, più umano degli uomini, ti scruta perplesso ma assai più comprensivo e tace, guardando la maledetta porta chiudersi alle tue spalle.
L’odore della strada, deserta. I colori della strada, deserta. Gli scarni rumori della strada. Qualche auto, col suo fascio di luce perforante. Qualche cane, non il mio. I cani che a volte ti seguono per un po', altre ti guardano senza smuoversi, altre ancora ti ringhiano contro battagliando per un territorio che tu non hai alcuna intenzione di invadere.
Il mio calpestio, il nostro calpestio; un compagno fedele e rassicurante.
Il tempo che fa, un dettaglio. A meno che non cali dall'alto Noé con tutta l’arca e l’acqua che la circonda. A meno che non grandinino iceberg, non appaia Eolo con i suoi fratelli, non brucino di calore l’asfalto e l’aria. Un'occhiata al cielo, una alla strada e si va verso il nuovo giorno, verso il buongiorno.Il
«Buongiorno!» sussurrato al netturbino, il «Buongiorno!» gridato al podista che corre sull’altra sponda. Il «Buongiorno!» con sorriso elargito al runner che ti viene piano piano incontro.
«Buongiorno» e «Buon pomeriggio». Perché ci sono l’alba e la mattinata, per le allodole
. Eppoi c’è il pomeriggio, per quelli che «Ma come fai ad alzarti alle 5.30?». C’è il tardo pomeriggio per i gufi
. Sconfina nella sera per chi cerca scampo da risvegli bagnati e ghiacciati d’inverno, sudati e appiccicosi d’estate. Per quelli che, mentre le allodole
volano, si alzano per recarsi al lavoro. E nella peggiore delle ipotesi, poi, c’è sempre una pausa pranzo a disposizione, per aprire una finestra di corsa o per dare una sbirciatina al programma settimanale degli allenamenti.
Le tabelle e l’allenamento che devo, che dobbiamo fare domani. Le tabelle, da imparare a menadito come si fa con le loro sorelline per la matematica. Tabelle e tabelline: la stessa tortura a fuoco lento. Lento, come il fondo. Il fondo lento, la corsa media, il corto