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Quell'idea che ci era sembrata così bella: Da Berlinguer a Renzi il lungo viaggio
Quell'idea che ci era sembrata così bella: Da Berlinguer a Renzi il lungo viaggio
Quell'idea che ci era sembrata così bella: Da Berlinguer a Renzi il lungo viaggio
E-book359 pagine5 ore

Quell'idea che ci era sembrata così bella: Da Berlinguer a Renzi il lungo viaggio

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Info su questo ebook

POSTFAZIONE di FAUSTO ANDERLINI
Con aggiornamento alle elezioni ed agli avvenimenti politici del 2020

Un racconto sull’avventura politica, personale e collettiva, che fece innamorare intere generazioni dell’idea comunista (La Repubbica, recensione alla seconda edizione cartacea).
Un libro inconsueto, come il suo autore, viaggiatore-scrittore, uomo che ha attraversato le grandi speranze del Novecento per poi cercare nuove ragioni in remote latitudini del mondo. 
Non un diario o un’autobiografia, anche se qui dentro c’è tutta una vita in cui molti potranno riconoscersi. Piuttosto un viaggio a ritroso, dietro ai fallimenti e alle delusioni della grande utopia comunista. Ma anche dietro a quel patrimonio di idee e di sentimenti di quanti – e Tito Barbini tra loro – si sono spesi generosamente per un’idea che prometteva giustizia, eguaglianza, libertà. 
Come in un romanzo, in queste pagine si intrecciano la Storia maggiore e quella minore. I grandi personaggi come Mitterrand, Berlinguer, Gorbaciov e le persone che solo gli affetti custodiscono nel ricordo, come il padre, operaio comunista. I ricordi personali – dall’infanzia a Cortona al Sessantotto, dall’impegno nel Partito ad Arezzo al Comitato Centrale del PCI – e i grandi scenari nazionali o i misteri di Italia, a partire dalla Loggia P2 di Gelli.
Una miniera di vicende e di ritratti in punta di penna. Cinquant’anni di vita politica e istituzionale nel filo di un racconto che mette testa e cuore. 
Il viaggio più difficile e più emozionante di un uomo che non ha smesso di gonfiare le vele verso nuovi orizzonti.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2020
ISBN9788875423476
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    Anteprima del libro

    Quell'idea che ci era sembrata così bella - Tito Barbini

    © 2020 Inprogress S.r.l.

    Consulenza e Servizi per il Territorio

    Via Nazionale 17 Firenze - Italy

    Tel./Fax 055 2654524

    info@askaedizioni.it - www.askaedizioni.it

    Editing e redazione

    Chiara Gini

    Progetto grafico e impaginazione

    Leonardo Nassini

    Ringraziamenti dell’autore

    Di quanto ho scritto, è chiaro, mi assumo tutte le responsabilità, ma alcuni ringraziamenti sono doverosi.

    Grazie all’Istituto Gramsci per la rilevante documentazione messami a disposizione.

    Grazie dunque a Claudio Repek per i documenti che ho potuto consultare scorrendo le pagine del suo bel libro Il Partito Comunista ad Arezzo.

    Grazie alle mie figlie Galia e Silvia: le loro tesi di laurea Dal PCI al PDS e L’allargamento ad Est della NATO sono stati documenti preziosi per allargare il mio orizzonte di ricerca.

    Per i lettori che volessero scrivermi:

    titobarbini@libero.it

    ISBN 978-88-7542-347-6

    A mio padre

    Mentre il mondo del futuro è aperto all’immaginazione, e non ti appartiene più, il mondo del passato è quello in cui attraverso la rimembranza ti rifugi in te stesso, ritorni in te stesso, ricostruisci la tua identità, che si è venuta formando e rivelando nella ininterrotta serie dei tuoi atti di vita, concatenati gli uni con gli altri, ti giudichi, ti assolvi, ti condanni, puoi anche tentare, quando il corso della vita sta per essere consumato, di fare il bilancio finale. Bisogna affrettarsi. Il mondo della memoria procede all’inverso di quello reale: tanto più vivi i ricordi che affiorano nella reminiscenza quanto più lontani nel tempo gli eventi. Ma sai anche che ciò che è rimasto, o sei riuscito a scavare in quel pozzo senza fondo, non è che un’infinitesima parte della storia della tua vita. Non arrestarti. Non tralasciare di continuare a scavare. Ogni volto, ogni gesto, ogni parola, ogni più lontano canto, ritrovati, che sembravano perduti per sempre, ti aiutano a vivere.

    Norberto Bobbio, De senectute

    1. Tra bufalo e locomotiva

    «Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi.

    La locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato».

    Cito Buffalo Bill di Francesco De Gregori – una canzone che mi è sempre piaciuta molto – perché queste parole richiamano in un certo senso la mia storia.

    In fondo, un politico di professione è come una locomotiva. Almeno per chi è nato e cresciuto nella rossa Toscana, almeno per chi ha fatto politica nel partito dei comunisti italiani. Gente che, se possedeva voglia e stoffa, poteva contare su una strada segnata, su un futuro ragionevolmente sicuro.

    Più o meno, funzionava così: la militanza nei gruppi giovanili e nel movimento degli studenti, assemblee e tante notti in discussione in sezione. E poi vai a sapere, un avvenire di capogruppo in qualche assemblea elettiva, l’incarico in qualche ente locale o in qualche azienda municipalizzata, l’elezione a sindaco o a presidente di provincia… Si poteva anche andare piuttosto lontano, partendo da niente. Magari solo da un sogno, o piuttosto da una speranza un po’ più larga della propria vita.

    Questa è la mia storia. La storia di quel treno sempre in corsa, delle stazioni raggiunte. Sembrava non doversi fermare più quella locomotiva, lanciata com’era. E invece, ecco che sono arrivato alla penultima stazione, dopo più di quindici anni passati nei palazzi del governo regionale.

    Mi sono fermato e, come il bufalo di De Gregori, ho scartato di lato. La locomotiva aveva la strada segnata, potevo scegliere di andare fino in fondo su quel binario. E tutto si può dire, ma non ci si perde, lungo un binario. Invece, ho scelto di essere bufalo. Ho voluto provare a correre. Rischiando anche di cadere, ma almeno provandoci.

    Cosa significa, arrivare a un certo punto e fermarsi? Forse, in primo luogo, provare a riprendere la propria vita tra le mani. Provare a riflettere sulla realtà, sulla vita. Raccogliere una scommessa: perché, comunque vada, certi valori bisogna tenerseli ben stretti, prima che cadano come foglie morte.

    Per quanto mi riguarda, ho avuto la testardaggine del bufalo dopo che non mi è mancata affatto la pedanteria della locomotiva. Bella sfida, però. La testa dura dell’animale – forse anche l’istinto – e il metallo arrogante della macchina.

    Però, per farla breve: ho scartato di lato e sono partito. Ho lasciato ogni incarico politico, non mi sono ricandidato ad alcuna istituzione elettiva, ho cominciato semplicemente a viaggiare e a scrivere.

    Da ogni caduta si impara qualcosa di utile. Per non parlare dell’emozione di riprendere a volare e sentirsi vivi.

    Ho conservato bene la percezione di tanti momenti della mia storia politica. Oggi forse posso farli riemergere meglio che in altri tempi. Sarà che è più facile, con la vita che ha rallentato il suo ritmo e gli impegni familiari e lavorativi che sono diminuiti. O sarà piuttosto che, semplicemente, guardo di più all’idealista che ero.

    A volte c’è un evento preciso che spinge il ricordo verso la superficie della coscienza, altre volte sono le domande più intime che inducono a sondare i luoghi più reconditi della memoria. A volte invece quest’ultima ritorna a poco a poco, scrivendo.


    Questo, in ogni caso, non è un libro di storia. Potrei cominciare con l’ordine e la lucidità che si pretende da una buona autobiografia. Però questa non è nemmeno un’autobiografia, è il racconto di una vita. Anzi di più vite, tra le quali ci metto anche la mia. Vite collegate da fili, allungati nel tempo e nello spazio. Vite che si srotolano negli anni.

    E senz’altro c’è il rischio che tutto questo assomigli un gioco a nascondino con la nostalgia. È sempre così: la nostalgia si risveglia con i ricordi e trascina i pensieri dentro un territorio sconosciuto. Si presenta come un ricordo smarrito, come qualcosa lasciato chissà dove. Qualcosa accaduto in altre età, che non si riesce a volgere il nastro del passato.

    Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria.

    Forse la mia è stata una caduta. Intendo quel cadere rovinoso, quel farsi male, quel finire nella polvere senza più la speranza di risollevarsi. Sono caduto e mi sono messo in viaggio: viaggio vero e viaggio interiore. Viaggio che, lo confesso, ha messo a dura prova la mia integrità intellettuale, o onestà che dir si voglia.

    Ho dovuto rimettere a fuoco i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, riannodare i fili della memoria, ritornare a ritroso sui sentieri della politica, lungo un cammino di incarichi e speranze, successi e delusioni.

    Sarà anche per questo che, più volte, in questi anni sono andato lontano. Ho cercato la lontananza e la solitudine, puntato su un tempo sottratto ai ritmi quotidiani degli impegni e degli affetti. Mi sono guardato indietro per restituirmi al presente. Tanto le cose che ci lasciamo dietro di noi prima o poi ci raggiungono, o siamo noi che le ritroviamo, per farci finalmente i conti.

    E sì, io al mio passato sono andato incontro, a mio modo. Consapevole che si viaggia per tornare, si viaggia per misurarci con ciò che siamo stati e che forse riusciremo anche a essere.

    Così comincerò col dire dei giorni e degli anni in cui è cresciuta dentro di me l’idea che è stata la grande idea della mia vita. Cercherò di testimoniare la fedeltà alla storia, senza abbandonarmi a un vano ondeggiare, ma annodando i vari fili, sereno e sgombro da pregiudizi. Un po’ come lasciarsi cullare da un’amaca riposando la testa e le gambe in un pomeriggio d’estate.

    Potrà succedere, e me ne scuso, che in queste pagine la mia memoria sia intermittente e a volte si smarrisca, perché così appunto è la vita.

    È facile scrivere i propri ricordi quando si ha una cattiva memoria diceva Arthur Schnitzler, splendido scrittore della Vienna di inizio Novecento. Meno male che io non intendo mettere in fila i miei ricordi. E nemmeno confrontarmi davvero con il tempo: né con il tempo che ho vissuto o quello che sto vivendo e neppure con quello della memoria e della coscienza.

    Mi vengono in mente, proprio ora, alcuni versi di una bella poesia di Alda Merini: Devo liberarmi del tempo e vivere il presente, giacché non esiste altro tempo che questo meraviglioso istante.

    Ecco, proprio così: ciò che racconto sembra lontano, quasi sbiadito per tutti i giorni che si sono infilati in mezzo, eppure appartiene ugualmente al mio presente.

    Non ricordo qualcos’altro della mia vita a cui io abbia riservato una dedizione così totale come per l’idea comunista. Questa passione, genuina, non mi assolve dal fatto di essere stato per troppo tempo cieco e muto al cospetto di quanto stava succedendo. E questo continuerà a rimanermi dentro, come una vecchia frattura che, anche dopo molti anni, di tanto in tanto torna a dolere.

    Mi metto a scrivere questa storia, e la sento come un nuovo viaggio e penso che questo viaggio mi farà bene. Anche se, non lo nascondo, scrivere di tutto questo è assai più difficile che raccontare un viaggio in Patagonia o sulle cime del Tibet.

    Eppure, non ho mollato. Giorno dopo giorno, sono andato avanti. Come quando si deve prendere una medicina, con costanza, perché interrompere una cura, sospenderla anche per breve tempo, può essere assai peggio. Una pagina al giorno, in questo ultimo anno, curvato sul computer, con Alessandra che mi osservava in silenzio, preoccupata per la mia salute.

    Per una sorta di esercizio autocritico, ho più volte riletto quanto scrivevo per rendermi conto se esisteva un filo conduttore, un senso, un punto di vista riconoscibile, una dignità. E può darsi che questo sia un esercizio di qualche utilità anche per chi prova a seguirmi. Altrimenti, pazienza. Di una cosa sono comunque sicuro: gli eventuali lettori non troveranno una sola riga che si confonda con qualcosa che non assomiglia alla verità.

    Anche se è stato difficile rimettere a fuoco gli accadimenti più lontani nel tempo. Tanto si sa, con l’età avanzata le cose lontane si mostrano limpide e quelle vicine appannate.

    Storia che non può cominciare con una data di nascita. Se ha bisogno di un altro inizio, se pretende un prologo questo riguarda solo me.

    Cosa ho fatto? Ho raccolto i cocci, ne ho fatto un mucchietto e l’ho nascosto in un angolo. Non volevo lasciarli sparsi sulla strada che dovevo imboccare.

    Non è stato semplice liberarmi dall’idea che si può vivere senza essere strutturato come politico di professione.

    Per questo mi sono proposto di non confrontarmi con il tempo. E questo, per me, significa anche dare un senso alla vita attraverso il presente, perché nel presente c’è il passato, ci sono le nostre radici; nel presente c’è il futuro, le possibilità che ci rendono ciò che saremo.

    Ho amato molto una storia raccontata nella Vita di Milarepa, il grande mistico tibetano dell’XI secolo. Ebbi modo di leggerla durante un mio viaggio in Tibet e tutto, dall’aria che respiravo a queste parole, mi indussero sicuramente a una diversa visione del tempo.

    Un maestro indiano e il suo discepolo camminano in una campagna assolata. Il maestro chiede un po’ d’acqua da bere e il discepolo si allontana alla ricerca dell’acqua; trova una valle molto verde, continua a camminare, incontra una sorgente e al di là della sorgente un villaggio. Affascinato, entra e incontra una ragazza e se ne innamora. Si sposa, ha dei figli. Poi arrivano le sofferenze: una carestia, tutto il villaggio muore, anche i suoi figli, sua moglie. Il discepolo allora torna indietro, ripercorre i suoi passi, disperato, solo, perso, arriva fin dove il vecchio maestro gli aveva chiesto l’acqua. Il maestro è ancora lì, sul ciglio della strada, e gli dice: Quanto tempo, per portarmi un po’ d’acqua. È tutta la mattina che ti aspetto. Ecco il tempo che sogno anch’io.

    Cercherò, infine, di essere un testimone sereno, in modo da dar conto al meglio di una intera vita politica. Sereno e giusto, perché i ricordi sono sempre deformati.

    Con tutta l’onestà necessaria nel riconoscere che ho fatto parte di una esperienza collettiva nella quale la dimensione esistenziale non è andata di pari passo con la dimensione storica. E questo talvolta ha prodotto una tensione creativa, talvolta un cortocircuito.

    Oggi avverto in tante letture un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. Un po’ come quelli del Sessantotto, oppure quelli del concerto a Woodstock. Ora, se coltivata privatamente, la nostalgia è un sentimento come un altro, ma quando diventa collettiva assume consistenti sfumature di finzione e di ridicolo. La più ipocrita è il fatto di ripensarsi, parlo come generazioni del Novecento, come ex-rivoluzionari.

    In realtà, abbiamo molto parlato di rivoluzione, ma non siamo stati mai veri rivoluzionari. Per lo meno la nostra non è mai stata una prassi della rivoluzione. Solo per utilizzare un’espressione che appartiene a quei tempi.

    Per quanto mi riguarda, non sono mai stato un rivoluzionario. Sono stato un militante comunista, questo sì. Perché militante? È giusto usare questa parola così desueta e antiquata?

    È una parola che ho amato molto e che amo ancora, oggi che non mi serve più. Quando la pronuncio sento ancora un’emozione che assomiglia a quando la scoprii da ragazzo.

    Era un libero legame – riprendo questa espressione dall’ultimo libro di Mario Tronti – che ci univa in un’unica famiglia, visibile perché praticata fuori, invisibile perché coltivata dentro: quella del movimento operaio di segno comunista.

    "Comprendo come non lo possa capire chi non ha attraversato quella esperienza. Non è una colpa, però è una mancanza. E allora non comprendo perché, non avendola vissuta, ci si permetta di dileggiarla. Ecco, questo non va intellettualmente tollerato.

    Ecco, la dico così: tutti coloro che si sentono sull’onda della storia che avanza, sono come gattini che di notte, abbagliati dai fari, si lasciano investire da una macchina spietata.

    E dico una cosa di cui sono convinto e di cui non m’importa di convincere altri: solo chi è stato comunista nel Novecento può vivere oggi fino in fondo la condizione di spirito libero.

    Poi spiriti liberi ce ne sono, e ce ne sono stati, ben al di fuori di quella esperienza. Ma l’essere stato comunista nel Novecento ha lasciato in eredità un patrimonio di pratica spirituale, di libertà di pensiero che, certamente, non dà nessuna delle tante libertà concesse dai sistemi democratici. Chi non ha avuto la fortuna di vivere quella condizione, penso alle nuove generazioni, dovrebbe appropriarsene nel corso della sua formazione".

    Questo dice Mario Tronti. E mi piace questa rivendicazione di orgoglio di un filosofo che peraltro non ha avuto tentennamenti nella ricerca delle ragioni sulla sconfitta storica della parte in cui aveva militato, rievocata nei foschi bagliori della politica al tramonto.

    Ecco, ancora oggi, in giorni in cui la mia adesione consiste solo nel rinnovare stancamente la tessera a un partito che di militanti non sa davvero nulla, mi piace considerarmi un vecchio militante.

    È come dire: sono stato nella storia dei comunisti, non solo nel senso generico di appartenenza al PCI, ma perché ho partecipato agli eventi. Sono stato parte: la parte che voleva cambiare il mondo.

    E certo, la passione ha oscurato lo spirito critico, la capacità di guardare le cose come stavano. Eppure, ancora oggi dirsi militante significa dare una risposta alla mediocrità di questi tempi. Affermare ancora una volta che sono cambiato ma non ho abiurato.

    Consapevole ancora che quegli anni lontani, difficili, faticosi, a volte sbagliati, sono stati davvero, per dirla con il titolo di un bellissimo romanzo di Antonio Scurati, il tempo migliore della nostra vita.

    2. È ora di cambiare

    E dunque venne questa svolta nella mia vita, alle soglie dei sessant’anni. Lo stacco netto tra il peso delle responsabilità e uno spazio tutto mio, forte e libero, ha lasciato un gran vuoto. Un vuoto sofferto, anche se voluto, quasi un sollievo. Anche se animato dall’idea di diverse possibilità pronte a schiudersi. Ma perché questa svolta?

    Devo confessarlo: la coincidenza di alcuni fatti ha rotto un equilibrio dentro di me che probabilmente era precario da tempo, complice un ritmo di lavoro forsennato e prolungato. Sì, da tantissimo tempo: e il tempo, anche se non sembra, ti cambia in profondità. Magari te ne accorgi solo molto più tardi.

    E con il tempo, il crescere dentro di uno stato di profondo malessere politico, sociale ed esistenziale. Perché questo era il mio tempo: dipendere in tutto e per tutto da un’agenda del lavoro politico e amministrativo da rispettare e portare avanti a ogni costo. Agenda che, ovviamente, obbediva a ciò che più reclama e impone la politica: la ricerca del consenso. Mito e assillo, desiderio e smania.

    Non credete a chi afferma il contrario, magari dagli schermi televisivi: questo è il tempo del politico in corsa, questo è l’altare a cui deve sacrificare tutto. Anche negli spazi di apparente libertà, perché pure allora la testa guarda altrove.

    Così i miei figli sono cresciuti, e io non c’ero. Amara constatazione, questa. Ai tempi, la vita di Partito era fatta anche di digiuni o di pasti frettolosi in piedi, di assemblee popolari e riunioni nelle sezioni trascinate fino all’alba, di discussioni che divoravano le notti buie e rubavano i loro amori ai tanti giovani che avevano scelto la lotta politica. Ci sono errori fatali che hanno commesso i militanti a tempo pieno. Regali che la vita gli ha portato e di cui loro nemmeno si sono accorti.

    Poi, a un certo punto, ecco il bisogno di fare questa cosa un po’ folle. Che poi non sarebbe folle, anzi, è piuttosto normale, solo che per quelli come me era fuori dall’orizzonte della vita, un’ipotesi da non prendere in considerazione: ovvero uscire di scena.

    È questo che mi è venuto di fare: uscire di scena, improvvisamente e senza dirlo a nessuno, vincendo la tentazione delle vecchie abitudini. Con una strana gioia, che subito mi ha pervaso e ha avuto la meglio sui sensi di colpa, che comunque avvertivo acquattati dentro. Il tempo che mi rimaneva non era moltissimo e le abitudini accorciano quel tempo. I cambiamenti invece lo allungano.

    È un esercizio che consiglio a tutti i miei amici e avversari che hanno scelto la vita politica. Credetemi, è davvero importante fermarsi ogni tanto, uscire dalla propria testa e vedere le cose sotto un'altra luce, con occhio diverso. È qualcosa che ho imparato a coniugare con un sentimento di libertà. E che permette di scorgere nuove potenzialità, nuove possibilità, dove non le avevi mai viste prima.

    Non dico di seguirmi nella mia scelta e di lasciare tutto. A volte serve solo una pausa, trovare un’altra cosa da fare. Però dico di essere onesti con se stessi.

    Pascal ricordava che "ogni disgrazia viene agli uomini da una sola cosa: il non saper restare in riposo in una camera". Eppure oggi, accanto all’inquinamento acustico, ecologico, delle immagini e della realtà virtuale, esiste anche l’inquinamento del tempo, ossia la scomparsa d’un tempo naturale a favore di uno artificiale. Il tempo della velocità, del traffico, del volo aereo, della quasi istantanea trasmissione di dati attraverso le sofisticate apparecchiature tecnologiche. E anche questo è un discorso che ha a che vedere con la politica.

    Non sempre si capisce di avere bisogno di staccare perché… ci vuole una nuova prospettiva per capirlo.

    Apri gli occhi: cosa vedi? Nuove possibilità? Questi nuovi orizzonti ti danno maggiore speranza? È questo l’obiettivo, lo deve essere. Anche se non funziona sempre in questo modo. A volte, un cambiamento di prospettiva ti fa vedere chiaramente quello che hai perso. Insomma: è arrivato il momento di chiudere la porta, cambiare lo spartito della musica, rimuovere la polvere. Il momento in cui devi smettere di aggrapparti a chi eri prima e di coltivare il sogno di ciò che vorresti essere domani.

    E certo, lo so bene che i politici preferiscono rifiutare il cambiamento quando riguarda loro stessi. Piuttosto vivono in quella che gli anglosassoni chiamano la zona di comfort. Sono così presuntuosi da considerare uniche e assolute le loro verità. E sarà anche che l’insicurezza che scaturisce dal cambiamento li spaventa, proprio loro che per mestiere devono sembrare tanto sicuri, davanti a un microfono o da un palco di una sala congressi.

    Invece, non è così. Almeno per la mia esperienza.

    Vorrei dire a tutti: sperimentate una rottura della continuità, un’impennata della volontà di cambiare. E poi parliamone. È da quel bisogno di cambiare, di prendere una pausa, di respirare un’altra aria, sì, proprio da quel bisogno, magari avvertito una prima volta, piombato addosso a sorpresa una prima volta, che tutto è cominciato. Ora sorridendo, mi viene da dire: come la prima volta che, davanti allo specchio, scopri il tuo primo capello bianco.

    Negli ultimi dieci anni ho guardato attonito a come pezzo dopo pezzo veniva smontato ciò che avevamo costruito in tanti decenni precedenti. Era evidente, via via che mi allontanavo dalla politica quale l’avevo conosciuta, che anche quella politica stava venendo meno. Come due strade che si separano dopo un bivio, allontanandosi sempre di più. Nella realtà non rimaneva in piedi quasi nulla delle cose che mi stavano a cuore.

    Si rimprovera alla classe politica la distanza dalla realtà. Non si fa che parlare, fino alla nausea, dell’estraniarsi dei partiti dalla società così com’è. Credo, al contrario, che la politica sia fin troppo immersa in questa realtà e da essa assimili di tutto, compresi gli istinti più bassi della società.

    Non serve però prendersela con i populismi di varia natura. Invece, è meglio chiedersi perché il popolo non trovi canali di rappresentanza efficaci. Perché i rappresentanti e i leader non dispongano di legittimazione e consenso adeguati. O anche perché il governo e le istituzioni non siano efficienti e non suscitino passioni.

    È chiaro che, in mancanza di risposte adeguate a queste domande, abbia gioco facile il populismo: sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Non limitiamoci a scacciarlo con fastidio: per guarirne, occorre curare la nostra democrazia. Ma questo non lo stiamo facendo da molti anni a questa parte... Il populismo ci sta raggiungendo perché, a differenza della sinistra, riscopre le passioni. Poco importa che le passioni populiste mettano in campo messaggi rozzi e talvolta inquietanti: sono comunque immersi nel tempo che stiamo vivendo. In fondo, le passioni delle persone interpellano il mestiere più antico e ormai dimenticato della politica, cioè la capacità di dare un orizzonte allo spaesamento, di cogliere le domande di libertà, di rappresentare i bisogni delle persone.

    C’è stato un tempo nel quale il mio lavoro politico ad Arezzo e in Toscana ha influenzato il Partito e le istituzioni della Regione. Ho diretto i comunisti aretini nel difficile passaggio che cambiò il nome al PCI. Poi sono stato tra i fondatori del PD, evento per il quale, lo avrete capito, immaginavo esiti diversi da quelli attuali.

    Un politico a tutto tondo, direste voi? In un certo senso avete ragione, è proprio così. Il fatto è che sono nato in una comunità che viveva la politica anche come totale coinvolgimento umano. Con una comunione di idee ma anche un con sentire comune con tanti amici. Parola complessa, comunità: spaventosamente ambivalente. Richiama la dimensione senza la quale non c’è vera realizzazione per l’uomo, ma con la quale la libertà è perennemente messa in gioco.

    A un certo punto, ho avvertito sulla mia pelle la sproporzione tra l’agire politico e i delicati e inspiegabili percorsi delle persone che mi stavano accanto e affermavano di condividere il mio progetto. Non di tutte, ovviamente. Però, in qualche modo, il mio è stato anche un distacco dalla comunità in cui ho vissuto tutta la vita.

    Mi è stata inferta una ferita, che nulla aveva a che fare con la normale conflittualità tra visioni politiche diverse. E a ferirmi sono stati alcuni degli stessi compagni di Partito.

    E che bella questa espressione, così importante per me: compagni di Partito. Espressione, ma soprattutto relazione come poche altre nella mia vita.

    Se dovessi ragionare con i miei parametri di allora, oggi direi ai politici: non vi consiglio di mostrare le ferite. Per un politico, solitamente allenato a mostrare forza, sicurezza e capacità di dominare la scena, mostrarsi ferito è come riconoscere uno stato di debolezza. Gli avversari, anche quelli che sembravano amici, ne approfittano. Come la preda ferita in mare, con gli squali intorno.

    Per fortuna, questa miseria umana non mi riguarda più da molto tempo, sono cambiato. Sono diventato più saggio e maturo? Sicuramente ho perso quell’ansia per il potere che può essere scambiata per temerarietà e alle volte persino per coraggio nelle scelte.

    Nel corso di questi anni, non so quante volte mi hanno chiesto di candidarmi nuovamente a qualche incarico e a riprendere il mio posto sulla scena. L’ultima proposta poco tempo fa, da un gruppo di amici, per candidarmi al Comune di Arezzo con una mia lista civica.

    Non ho accettato. Per una scelta di vita, per me ormai definitiva, e per il timore di un impegno vincolante a cui non saprei più come fare fronte. Oltre che, ragione non da poco, per una remora di natura etica a indossare un’altra giacca.

    Ah, quasi mi dimenticavo un’altra cosa che mi sta molto a cuore. La metto qui anche se c’entra poco con il ragionamento che sto facendo.

    Il fatto è che mi arrabbio moltissimo, quando sindaci eletti direttamente dai cittadini lasciano il loro impegno a metà legislatura perché attratti da posti e da poltrone più prestigiose. Abbiamo esempi recenti ad Arezzo, Firenze e in altre città. Perché fanno questo? Non c’è incarico più bello e gratificante del sindaco. I miei dieci anni a Cortona sono stati i più importanti della mia vita politica, i più belli. E poi, last but not least, non si può e non si deve tradire la fiducia dei cittadini a cui si è chiesto fiducia per il voto.

    A spingermi all’abbandono, di cui sentivo il bisogno senza però che riuscissi ancora a decidermi, in realtà fu proprio un tradimento. Di natura diversa, ma pur sempre tradimento.

    Con gli occhi di oggi, non fu una cosa molto importante, tutto sommato perfino autoreferenziale. A ripensarci, affiorano più le motivazioni personali che gli scenari politici. Se ne parlo è solo per le conseguenze che ha avuto dopo. Inoltre, non mi sembra una questione privata. Per dire, questa vicenda assomiglia in modo impressionante a quella che, dopo le dimissioni di Occhetto, portò Massimo D’Alema alla segreteria del Partito. Nessuno poteva immaginare che il Consiglio Nazionale decidesse di imboccare una strada diversa da quella indicata dalla consultazione del Partito. E invece avvenne proprio questo. Il Partito aveva indicato Veltroni con un’ampia maggioranza e il Consiglio Nazionale scelse D’Alema. Un gruppo dirigente interpretò il voto della base, rovesciandone l’esito. Ecco, ad Arezzo successe la stessa cosa, con l’aggravante di una sconfitta che si rovesciò su tutti.

    Una vicenda lastricata di tanti, troppi errori: e anch’io certamente ne ho commessi, primo fra tutti quello di cadere in una sorta di autoreferenzialità: la qual cosa è uno dei modi con cui si manifesta la presunzione.

    Non ho compreso, per esempio, che il rincorrersi delle generazioni, secondo una legge che si direbbe naturale, genera un meccanismo di rivalità che imprigiona la mente facendo mutare l’amicizia in competizione. Accade così, nella lotta politica, che i mezzi e i fini si dissociano e dividono le persone. Può sembrare retorica, frasi che si dicono per dire, che scorrono in superficie. Invece si tratta di una di quelle verità che scardinano le ante dell’armadio e rimettono in circolazione spettri di cui si farebbe volentieri a meno. Il solito copione, insomma: situazioni irrisolte, paure intime, l’armamentario degli

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