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Targata PC in giro per l’Italia e il mondo, in due, su una Vespa 125 ET3
Targata PC in giro per l’Italia e il mondo, in due, su una Vespa 125 ET3
Targata PC in giro per l’Italia e il mondo, in due, su una Vespa 125 ET3
E-book396 pagine5 ore

Targata PC in giro per l’Italia e il mondo, in due, su una Vespa 125 ET3

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Info su questo ebook

Mi chiamo Marco e sono prossimo ai 40 anni. Mi considero una persona particolarmente fortunata poiché la vita, per ragioni che non so spiegare con la ragione, mi ha messo di fronte a due incredibili regali: una Vespa ET3 del 1980 targata Piacenza, la mia città natale, e Giulia, la mia compagna di vita e di viaggio.Noi tre assieme abbiamo percorso decine di migliaia di km, in Italia e all'estero. Muovendoci lentamente, normalmente con velocità non superiore ai 50 km/h ma spesso anche a meno, e afforontando potentissime salite, ripidissime discese e infiniti rettilinei, passando fra avventure ed imprevisti, abbiamo avuto modo di conoscerci meglio e mutare il nostro punto di vista su molti aspetti della vita.Un libro introspettivo, una collezione di diari di viaggio, di suggestioni e di emozioni per capire che, in fondo, la lentezza è (ancora) un valore da cui si può imparare molto. E che, in fondo, se ti muovi lento, riesci a vedere e assaporare dei deliziosi fichi che trovi lungo la strada, mentre tutto il mondo ti sfreccia veloce, anzi velocissimo, per arrivare il prima possibile, chissà poi dove.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2022
ISBN9791221435603
Targata PC in giro per l’Italia e il mondo, in due, su una Vespa 125 ET3

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    Anteprima del libro

    Targata PC in giro per l’Italia e il mondo, in due, su una Vespa 125 ET3 - Marco Tibaldeschi

    Incipit

    Elogio della lentezza

    La vita frenetica di questi tempi appartiene a tutti, bradipi a parte. Per chi, come me, lavora nel mondo informatico, poi, è quasi impossibile rimanere fuori da ritmi che trasformano le settimane in secondi e gli anni in minuti. Mi ha sempre incuriosito l’evidente relazione che c’è tra il ritmo ipersonico delle nostre vite e i mezzi di trasporto di cui disponiamo. Muoversi velocemente significa poter fare più cose, indubbiamente, ma siamo sicuri che ci serva davvero poter fare più cose in meno tempo? È per questo che un mezzo come la Vespa, mi riferisco ad una Vespa d’epoca, è spesso vista come completamente al di fuori di questo mondo: è lenta, sporca, goffa, faticosa e scomoda. Tutto l’opposto di ciò che vogliamo oggi. Oggi, tutti vogliono rapidità, comfort, efficienza e prestazioni. Tutti vogliono arrivare prima, senza fatica, chissà poi dove e chissà poi perché. Mi ha sempre incuriosito questa frenesia, perché, ogni volta che salto sulla Vespa, noto questo fenomeno: nel tragitto, qualunque esso sia, innumerevoli auto e moto mi sfrecciano accanto, a volte proprio sfiorandomi, come se volessero umiliarmi. Quando succede, specie se mi trovo su quegli interminabili rettilinei dove l’unico modo per sopravvivere è continuare a interrogarsi, mi chiedo: dove caspita dovranno mai andare così di fretta? Cosa o chi devono raggiungere con tutta quell’ansia? Perché tutto questo nervosismo in una giornata di pace e sole come questa?

    Arrivato a destinazione, dopo ore di viaggio, magari con un caldo devastante, sono stanco, sporco ed esausto. Eppure, dopo tutta questa meditazione vespistica, è come se la mia percezione del mondo e la mia sensibilità fossero esplose improvvisamente: apro la finestra e sento le cicale che friniscono, lo scroscio dell’acqua di un ruscello che scorre dolcemente, il venticello che culla le fronde degli alberi. Il cinguettio di un nido di passerotti appena usciti dal guscio in attesa della mamma, il tintinnio dei bicchieri e una risata che seguono un brindisi nella casa vicina. Il singhiozzo, lontano, di una ragazza che sta piangendo, col trucco che magari le scivola via, segnandole la faccia. Sento il mio cuore che pulsa, preciso ed instancabile, e il mio respiro, pieno e profondo.

    Credo che non dovremmo concentrarci su altro, se non sul vivere completamente la vita che ci è stata data. Abbiamo tutto a un passo, ma siamo così tanto ansiosi di andare altrove e arrivare subito, che ci scordiamo che quello che ci serve è sotto i nostri occhi, ed è qui e ora. Pensiamo spesso solo al weekend, ma la nostra esistenza è una trasmissione senza interruzioni che è in programmazione dal lunedì al venerdì e poi anche nel weekend. In diretta, in streaming, senza replay o pause di sorta.

    Qualche volta qualcuno mi chiede come possa piacermi andare così piano. Rispondo sempre così, citando mio zio Angelo: se vai piano ti puoi accorgere delle fragole lungo la strada. A volte sostituisco i fichi alle fragole, ma c’è poca differenza. Muoversi lenti permette di gustarsi tutto, anche e soprattutto i dettagli che, per gli altri che vanno veloci, sono evidentemente insignificanti. Ho sempre trovato questa frase, nella sua banalità, molto profonda, densa di amore per l’esistenza e le piccole cose. Già, le piccole cose. Quelle che ci mancano quando veniamo sconvolti da qualche evento traumatico. Ci ricordiamo di loro solo quando ci accorgiamo di appartenere ad una dimensione completamente diversa da quella in cui viviamo quotidianamente.

    Insomma, la lentezza è importante perché ci connette col mondo, quello vero, e ci dà la giusta prospettiva. Una volta, mentre leggevo un libro su un viaggio intorno al mondo con un maggiolone, ho trovato questo passo: Povera Porsche Cayenne, non sai cosa ti perdi. E se non sai cosa ti perdi, non sai nulla. E allora, vogliamo continuare a vivere perdendoci l’incredibile ricchezza di quello che c’è in mezzo, fra l’inizio e la fine della nostra vita? Io ho deciso di no ed è per questo che amo viaggiare lento. Per godermi il panorama, è ovvio. Ma anche perché solamente così, nel mio posto e nel mio tempo, posso accorgermi delle fragole o dei fichi che trovo lungo la strada, mi posso fermare un attimo e gustare appieno il loro dolce sapore e, soprattutto, quello della mia vita.

    Genesi

    1000 lire di miscela al 2%, grazie

    Risposta breve: sì, fa male. A volte, tantissimo male. Altre volte fa talmente tanto male che l’unica soluzione è fermarsi, nel primo posto che capita, vuoi che sia sotto un ponte, in un bosco o in un qualunque non luogo che costeggia la strada, e far scorrere la vita, così come viene, tanto per far riposare il sedere. Perché, alla fine, possiamo fare tutti i pensieri filosofici del mondo, ma quando fa male il sedere, non c’è più niente da fare.

    Sì, viaggiare in Vespa per lunghi tratti è scomodo, per certi versi insopportabile. A volte è decisamente devastante. E allora perché mai esistono dei pazzi come me, come noi vespisti, che fanno lunghi tratti con questi mezzi? Io non so dare una risposta precisa a questa domanda, anche perché non mi considero un pazzo, sebbene molti vespisti lo siano. Né credo che si consideri tale Giulia. E neppure credo si considerino folli tutti gli altri viaggiatori in Vespa che ho conosciuto e anche quelli che non ho mai conosciuto e mai conoscerò. La pazzia, in fondo, è relativa. Chi mai potrebbe definirsi, sinceramente, pazzo? Se sei pazzo, non puoi sapere di esserlo. Come potresti affermare di esserlo senza saperlo? Comunque penso proprio di aver risposto alla tua domanda, ancor prima che tu me la facessi, sbaglio? Sì, quella dove mi chiedevi se faceva male il sedere viaggiando così tanto in Vespa. Come facevo a sapere che me l’avresti chiesto? Beh, è semplice. Me lo chiedono tutti. Tutti, veramente, dal primo all’ultimo. Chi non me lo chiede è perché lo sta pensando e, infatti, glielo dico io e lo tolgo dall’imbarazzo, un po’ come ho fatto adesso con te.

    Viaggiare in questo modo, per me, è meraviglioso. Una vera benedizione, una fortuna che non cambierei mai per nulla al mondo, neanche per mille Ferrari, mille Maserati o un milione di case sparse per il globo. Neanche per uno di quegli yacht enormi che vedi a Porto Cervo e vicino cui sbavano orde di turisti.

    La mia vena pazzoide affonda le sue origini tanto tempo fa, direi da quando sono nato. Sono il quarto di quattro figli e, se hai solo fratelli maggiori, si può facilmente immaginare cosa voglia dire arrivare per ultimo, magari dopo tanti anni di distanza dal penultimo, e scombinare tuo malgrado gli equilibri di quel già caotico gruppetto di persone. Non è stata una mia scelta, bensì di mia madre e mio padre: la prima, proveniente da una famiglia che definirei senza regole per usare un eufemismo, è, a sua volta, l’ultima di tre figli. Peraltro unica femmina. I suoi due fratelli maggiori: due pazzi veri. Basti sapere che entrambi erano sportivi professionisti, uno pugile e l’altro calciatore, per cui quando c’era da menare le mani per difenderla erano ben contenti di farlo. Loro lo vedevano come un allenamento in più, senza il fastidio delle corde del ring e del rettangolo di gioco. Gli altri, se li vedevano in tempo, scappavano. Loro padre, cioè mio nonno materno, dicono che fosse ancora più matto. Mia nonna, invece, l’esatto opposto, povera donna. Una donna di cuore e sacrificio. Il bianco e il nero, lo yin e lo yang, insomma, anche se la famiglia, proveniente da Piacenza e capitanata dal nonno operaio, era rossa dalla testa ai piedi, com’era forse scontato a quei tempi. 

    Mio padre, invece, è il settimo di dodici figli, proveniente da una famiglia con un cognome altisonante e con una lunghissima storia da raccontare. Vista la grandezza della famiglia pare quasi incredibile che sia piemontese, del profondo nord. Con dodici figli, era ovvio, i miei nonni paterni devono aver avuto necessariamente un gran da fare. Ho sempre immaginato casa loro, anche per via dei racconti che negli anni ho sentito, un po’ come una caserma. Per forza: senza regole sarebbe stata l’anarchia più totale, visto che il caos c’era già normalmente. Insomma, il racconto delle mie origini credo sia sufficiente per descrivere il clima confuso in cui sono cresciuto, fra fratelli da una parte che non vedevano l’ora di farmi sparire e una coppia di genitori con due storie di vita completamente diverse, tanto da creare in me, più volte, molti dubbi esistenziali: chi sono io? Da che parte sto? Qual è l’esempio giusto, ammesso che ce ne sia solamente uno?

    Essere l’ultimo di quattro figli, di cui tre maschi, ha certamente dei pro, ma anche tantissimi contro. Il vantaggio è che per molte cose ho trovato la strada spianata (o almeno così mi dicono, pieni di orgoglio, quelli venuti prima di me), il contro è che le cose che vuoi, ma che non puoi ancora avere, le vedi passare fra le mani degli altri fratelli senza poterle neanche sfiorare.

    Faccio un esempio lampante: il motorino. Mio fratello Cesare, il primo dei quattro, racconta sempre che fu talmente tanto insistente nel chiederlo ai miei che quando lo ricevette, nella notte di Santa Lucia, lo accese direttamente in casa, rombando come un matto perché non credeva ai suoi occhi. Pensava fosse uno scherzo dei miei genitori. È facile immaginare la gioia dei vicini, dal momento che vivevamo in condominio, nel sentire un motore scoppiettare in piena notte. Pietro, il terzo dei quattro, invece, ricevette in regalo dal suo padrino di battesimo un Ciao, di colore amaranto se non ricordo male, che dipinse di blu con una bomboletta spray. Mi sembrava un gesto così ribelle a quel tempo. Era davvero bravo ad impennare e io, dalla finestra della camera, lo guardavo invidioso quando tornava a casa. La sua marmitta truccata risuonava in tutto il quartiere. Mamma e papà detestavano quel suo comportamento da teppistello. O meglio, papà sicuramente lo detestava, la mamma forse non proprio perché rivedeva in lui la sua infanzia. Io, invece, il motorino lo ricevetti in regalo per i miei 16 anni senza neanche chiederlo. A dirla tutta, i miei genitori mi presentarono una serie di dépliant coloratissimi tra cui scegliere il mio futuro compagno di viaggio. Scelsi, non troppo emozionato, uno scooter, un Gilera Typhoon X, nero e catalitico: molto poco sexy. Mio fratello Cesare me lo rinfaccia ancora oggi: Tu hai trovato la strada spianata, grazie a me!. Ha ragione, ma io cosa ne potevo?

    Avendo fratelli grandi, ho sempre avuto un po’ gli occhi verso quello che sarebbe stato il mio futuro. Per questo, a 14 anni, il giorno stesso in cui li compii, chiesi in prestito il Ciao di mio fratello Pietro che me lo concesse con sufficienza: lui ormai era più che maggiorenne e gli interessavano solo le macchine, le ragazze e il pallone, mentre io aspettavo quel momento da anni. A me, in realtà, bastava arrivare in centro città e fare il gadano con gli amici. Il Ciao era truccato, ovviamente, perché mio fratello Pietro è sempre stato un po’ uno smanettone e io ne godevo di riflesso, anche se con le ragazze, a differenza sua, ero un imbranato totale. Ricordo perfettamente la prima volta che lo presi. Ne ho una netta memoria per tre ragioni, oltre al fatto che era il mio compleanno: la prima è che sia Cesare che Pietro si preoccuparono di spiegarmi come fare miscela. Al tempo, era ancora disponibile presso i distributori. Mi raccomando, devi chiedere la miscela al 2%. Anzi, fai così, digli di farti 1000 lire al 2. L’idea di spendere 1000 lire per qualcosa che fosse diverso da un gelato o un pacchetto di figurine mi bastava per farmi sentire già grande, un po’ più simile a quei giganti irraggiungibili dei miei fratelli. Che poi dovessi impiegare anche una terminologia tecnica, segreta, incomprensibile (chissà che cosa sarà mai questo 2%?), con cui ottenere questa famigerata miscela (ma non si chiamava benzina?), mi gasava come un matto. La seconda ragione è che mia cugina Augusta, una delle cugine degli undici zii del ramo paterno con cui trascorrevo tutte le estati nella casa di nostra nonna Rina, a Sant’Andrea, una frazione di Cassine, compie gli anni qualche settimana dopo di me e questa cosa è sempre stata ragione di sfottò da parte mia. Il fatto che fossero pochi giorni non importava: potevo guidare il motorino prima di lei e questo, in un’esistenza vissuta da ultimo arrivato, mi faceva sentire sufficientemente grande e potente. Per cui ricordo, come se fosse oggi, di averle detto, il giorno prima del mio 14° compleanno: sento già la miscela che mi scorre nelle vene!, con l’accento su miscela, cercando di farla ingelosire.  Miscela era un termine che mi eccitava, perché lo sentivo sempre pronunciare dai grandi, quelli che andavano e venivano mentre io dovevo stare in casa a guardare i cartoni animati. Mi piaceva molto di più del termine benzina, perché benzina era un termine scontato, strausato, specialmente dai vecchi che si muovevano in automobile. Io volevo la miscela, al 2% e la volevo subito, perché solo così potevo sentirmi grande. La terza ragione, infine, è perché quando arrivai la prima volta in centro per conto mio, gli amici puntarono subito gli occhi prima sul Ciao e poi sulla marmitta, aprendo la bocca sbalorditi. Mentii dicendo che era un regalo di compleanno appena ricevuto e così mi sentii ancora più grande di quanto già mi sentissi.

    In tutto questo non ho parlato di mia sorella. Lei, poverina, è stata costretta a vivere in una casa di maschi, uno più grande che quindi faceva valere le sue ragioni in modo deciso e due più piccoli: un tamarro, Pietro, e un bambino viziato, il sottoscritto, che otteneva tutto e anche di più senza neanche chiedere. Un bel giorno comparì in casa una Vespa, non ricordo il modello anche se mio fratello Cesare è sicuro fosse una ETS. Ricordo con certezza fosse rossa, chissà che fine ha fatto. Aveva l’impianto audio installato nel cassettino frontale: il fatto di poter andare in giro in moto con la musica era un qualcosa di incredibile, per me, che ero ancora tanto, troppo lontano dalla miscela. Quella Vespa era di mia sorella Eugenia, per un motivo che mi è ignoto.  Non credo che la usasse granché ed è probabilmente per questo che, un bel giorno, anzi dovrei dire un brutto giorno, un uomo se la venne a prendere e la portò via dal nostro garage, saldando con qualche centinaio di migliaia di lire i miei genitori. Lo salutarono, ringraziando, con il sorriso sulle labbra e lui se ne andò via bello contento. Non la vidi mai più o meglio non ne vidi mai più una così in vita mia, anche se sono certo che da qualche parte ci sia ancora. So soltanto che quella Vespa, così rosso fuoco e con la musica, mi colpì al cuore, inconsapevolmente, e mi segnò pur non avendola mai cavalcata.

    La mia adolescenza, quindi, oscillò fra una Vespa rossa irraggiungibile, un Ciao amaranto che fece una brutta fine grippando, proprio sotto le mie mani, qualche anno dopo appena arrivato a casa (avrò forse sbagliato a fare miscela?), e il Typhoon con cui feci i primi viaggi, su e giù, fra Alessandria e Sant’Andrea e nella provincia. I circa 30 km che separano Sant’Andrea e Alessandria, dove vivo, furono i primi che potrei definire quelli di un viaggio. E sì, mi fece male al sedere anche quella volta, anche perché, con un rodaggio ancora da completare, li percorrevo rigorosamente lento, anzi lentissimo, con gli occhi puntati sul tachimetro. Credo sia stato proprio lì, durante quei primi chilometri, che il germe del viaggio lento entrò nel mio spirito. Quella strada la conoscevo a memoria, perché la percorrevamo più volte alla settimana per andare nella casa di campagna o per raccogliere l’uva nelle vigne di famiglia. In automobile era di una noia mortale, fra paesini, semafori, la puzza di concime e le tremende musicassette piene zeppe di canzoni d’amore che mia sorella voleva sempre ascoltare. Quel giorno, però, mi resi conto che stavo vivendo la strada in modo diverso: la puzza dei campi diventò profumo, e i noiosi muretti a secco che vedevo solitamente sfrecciare lungo la strada diventavano improvvisamente ottimi punti su cui svuotare la vescica, con un gesto di libertà che noi maschi, specialmente se adolescenti, adoriamo. Persino gli insetti che si spalmavano sulla visiera del mio casco erano meravigliosi, perché avevano il sapore della velocità, dell’indipendenza e dell’estate. Ero io, finalmente grande e libero, col mio ronzino motorizzato che mi avrebbe portato ovunque! Il Mondo era finalmente nelle mie mani!

    Vespista per caso

    In tutto questo marasma adolescenziale, fra prime cotte, primi baci, fidanzatine, musica a palla e videogiochi, all’età di 21 anni, ormai lanciato verso gli studi universitari e con la casa abbandonata dai fratelli che si erano nel frattempo sposati, mi passò per la testa di salire su una Vespa e andare. Dove, non ne avevo alcuna idea. L’idea era arrivare dove arrivavo. Era il 2004, avevo 21 anni appena compiuti, e l’estate precedente avevo lavorato un’intera stagione in villaggio come animatore: mi ero divertito, per carità, ma avevo anche faticato, visti gli orari assurdi a cui ero costretto. Di buono, però, c’era che avevo conosciuto letteralmente centinaia, anzi migliaia di persone: ero convinto che mi avrebbero ospitato e così avrei girato l’Italia, saltando di qua e di là, senza spendere i pochi soldi che avevo racimolato lavorando. C’era un solo, piccolo, insignificante problema: non avevo una Vespa e non sapevo dove trovarla. Non avevo assolutamente idea del perché stessi cercando proprio una Vespa, ma io la volevo e la volevo con tutto il mio cuore. Non volevo altro, davvero. Sì, avevo il mio Typhoon nero, catalitico e con le strozzature, ma sapevo che non sarei andato troppo lontano con un cinquantino di quel tipo. Avevo bisogno di potenza e di cavalli e la Vespa, dai ricordi che avevo io, aveva tutto questo e anche di più. Era inarrestabile, aveva la musica e andava con la miscela. Inoltre non avevo mai fatto un viaggio del genere, non sapevo cosa potesse significare, quale fosse l’attrezzatura da dover avere. Non avevo neanche idea di quanti soldi avrei avuto bisogno. Ma l’incoscienza di quell’età è potentissima: ti permette di sottovalutare con una tranquillità disarmante tutti gli interrogativi che, da adulto, è assolutamente normale porsi. Quindi, senza pensarci due volte, anzi senza pensarci neppure una volta, partii alla ricerca della mia nuova compagna di viaggio.

    È incredibile come la vita, a volte, ci metta in mano le carte vincenti e noi, di contro, siamo talmente ciechi da non accorgercene. A volte addirittura le scartiamo, convinti che non ci serviranno a nulla.

    Eppure quel giorno, un giorno come tanti altri, talmente comune che non mi ricordo assolutamente che giorno fosse (diciamo che era un lunedì, per rendere tutto più credibile, anzi diciamo che era un anonimo martedì), dicevo quel martedì mi sono state servite cinque carte e quattro di queste erano assi. Scopro infatti, chiacchierando con mia mamma, che mio zio, il calciatore, ha una Vespa ferma in garage. In realtà la Vespa è intestata a sua moglie, la zia Daniela, ma in una famiglia operaia come quella di mia mamma, tutto è un po’ sempre di tutti. Lo chiamo e gli propongo il mio patto: zio, la metto a posto prima di partire, la sistemo al ritorno e te la restituisco, come nuova, promesso. Mio zio, che è una persona dal cuore grande, accetta senza riserve e senza fare troppe domande. Inoltre mi dice che l’ha fatta revisionare da poco e, quindi, posso prenderla e guidarla da subito, senza problemi. Mi fiondo a Piacenza ai mille all’ora. Appena la vedo, però, non mi piace, anzi mi fa davvero schifo, al punto che sono portato a pensare di lasciarla lì. Sta riparata sotto una coperta marrone di lana infeltrita e impolverata, è verniciata malamente di nero e ha il parabrezza, alto, di quel tipo che ti fa venire in mente immediatamente un nonno alla guida. Mi sembra piccola, vecchia, goffa, brutta, malfunzionante. Questa mi lascia a piedi appena giro l’angolo di casa, penso fra me e me. E poi quella non è la Vespa che ho in mente: io avevo in mente un vespone, di quelli che vedevo per strada ad Alessandria, come quella di mia sorella, che aveva anche la radio. Quella, per me, di Vespa ha solo la scritta, per giunta mezza staccata. Per non parlare di quella terribile targhetta nera con una scritta ET3 in arancione. Non so assolutamente cosa voglia dire e non mi piace, proprio per nulla. Secondo me è una Vespa tarocca, rimugino. Ho idea che sia un modello economico, di seconda scelta: ecco perché me la vuole prestare. Ero un giovane impertinente e incontentabile, questo senza dubbio. Tuttavia si trattava dell’unica Vespa che ero riuscito a raccattare, per giunta senza sborsare neanche un centesimo e pronta per essere portata via. Ci salgo sopra, l’accendo e si mette in moto subito. Meno male - mi dico - almeno è partita. Faccio un giro dell’isolato, l’Infrangibile - chiamato così perché era sede di una fabbrica di vetro infrangibile, appunto - per provarla: mi sento basso, col sedere a terra, rispetto a come sto sul mio scooter. Mia mamma mi indica come cambiare le marce, manco fosse una vespista nata, e parto un po’ a stento, imballando un paio di volte. Dopo aver preso confidenza con l’acceleratore, le marce e la frizione, provo subito i freni, per capire se posso stare tranquillo: sono provvisori a dir poco, lentissimi nella risposta. Il rumore del motore, come se non bastasse, è insopportabile, fastidioso, assordante. Però, almeno non si è spenta da sola. Dopo qualche giro, eccomi di nuovo sotto casa. Sono abbattuto e demoralizzato, ma non ho scelta. Ok, grazie zio

    E così, qualche giorno dopo, eccomi partire un po’ deluso con la mia ET3 nera (senza parabrezza, quello mi rifiutai di tenerlo) da Piacenza, in direzione Alessandria.

    In questi primi chilometri iniziamo a conoscerci e prendo confidenza coi freni, anche se, a volte, mi viene da mettere giù i piedi da quanto frena malamente. Frena così male che, ad un certo punto, bum: tocco leggermente un’automobile davanti a me, ferma allo stop di un incrocio. Il proprietario, fortunatamente, non scende neanche a guardare, anche se penso che non se ne sia neanche accorto. Danni non ne aveva, per carità. Mi guarda dallo specchietto retrovisore e gli faccio cenno di andare, tanto era tutto ok. Me la sono cavata. I km scorrono abbastanza tranquillamente, inizio anche a godermi un po’ il viaggio, ora che sento di controllare un po’ meglio il mezzo. Però mi accorgo che non c’è neanche la spia del livello della benzina. E adesso? Devo far rifornimento o no? Boh, come si fa?. Mi fermo e mi rendo conto di non aver chiesto neanche come si dovesse fare il pieno o a quale percentuale dovessi fare la miscela. Alzo la sella, ecco il tappo del serbatoio. Lo apro e butto un’occhiata. Non vedo nulla, non riesco a capire se sia a secco o meno. Inizio a essere stufo di queste difficoltà continue, di tutti questi problemi. Sono convinto di aver preso un pacco, un ferro vecchio con cui non sarei andato troppo lontano. E infatti, alla fine, dopo qualche ora di viaggio, eccomi fermo in mezzo ad una rotonda ad Alessandria: ero rimasto senza carburante, giusto per non farmi mancare nulla. Spingendo per gli ultimi 3 chilometri, arrivo a casa. Ho scoperto poi dopo che c’era la leva per la riserva, maledizione.

    Tutto sommato quel viaggio, nonostante le mille difficoltà, mi era piaciuto: gli imprevisti che lì per lì mi avevano spaventato o stufato, qualche giorno dopo, erano diventati delle avventure divertenti da raccontare. Finché agli amici, che ridevano sguaiatamente del mezzo scassato che avevo raccattato chissà dove, confessai la mia idea. Molti mi diedero per pazzo, anzi direi tutti. Tutti tranne uno, Alberto detto Pede, a cui non solo piacque l’idea di fare un viaggio del genere, ma ebbe anche la fortuna di trovare e acquistare una Vespa, una PX 125 blu, che a me piaceva da impazzire, apposta per l’occasione, visto che una Vespa non l’aveva neppure lui.

    E così, con al mio fianco un grande amico, giovedì 22 luglio 2004, 5 giorni dopo il mio compleanno, senza meta, senza tempo, senza pianificazioni e senza che i miei genitori lo sapessero fino poco prima della partenza, nella piena libertà dei 20 anni, partimmo.

    Fu un viaggio indimenticabile. E, forse, come tutti i viaggi indimenticabili, le tracce che sono rimaste sono praticamente inesistenti. Erano anni in cui, per scattare una foto, bisognava avere una macchina fotografica con rullino da far sviluppare. Per chiamare, sì, c’erano i cellulari, ma i costi erano proibitivi e quindi si andava nelle cabine telefoniche. Navigatori satellitari: fantascienza. Insomma era un altro mondo rispetto a oggi, anche se le Torri Gemelle erano già crollate. 

    Ho l’abitudine, però, di tenere le cose a cui sono affezionato in una scatola di cartone. A volte sono scontrini di una bella cena, un autografo, un biglietto d’auguri o una cartolina, magari di quelle volgarissime, inviate da un amico durante l’estate. Butto lì le cose e poi, ogni tanto, mi rituffo nei ricordi andando a scavare e a cercare di ricostruire il significato di quei residui storici. Spesso mi faccio delle grasse risate. Caso vuole che, in quella scatola, ci siano finite alcune tracce di quel viaggio e qualche rara, rarissima, fotografia. Alcune sono perse per sempre, ma sono vivide nella mia memoria. 

    Ad esempio, non ricordo precisamente come convinsi il Pede ad aggregarsi a questa pazzia. A pensarci bene, questo viaggio fu una cosa completamente senza senso, davvero. Nessuno dei due aveva un mezzo e, soprattutto, nessuno dei due aveva la benché minima idea di come funzionasse una Vespa.

    Qualche giorno prima della partenza ci incontrammo a casa del Pede per fare qualche prova generale. La nostra vera preoccupazione, in realtà, è la tenda. Provammo a montarla nel giardino di casa, anche solo per capire se ci fossero ancora tutti i pezzi. Riuscimmo abbastanza bene: d’altronde avevamo già fatto qualche vacanza in campeggio negli anni passati. La tenda, manco a dirlo, ce la prestò mio fratello Cesare: visto che era ormai adulto, in campeggio non andava più. Era una bella, ma pesantissima, Ferrino. In ogni caso, relativamente alle Vespe non avevamo troppi timori che potesse succedere qualcosa. Eravamo in quello stato di incoscienza profonda in cui si vive a quell’età, è ovvio. Sapevamo a malapena gonfiare le gomme e, cercando di capire come cambiarle, svitammo i dadi del cerchione. Un’operazione che, non so bene per quale ragione, fa esplodere la camera d’aria in mille pezzi. Insomma, eravamo due completi imbranati, ma con uno spasmodico desiderio d’avventura!

    Partiamo molto presto da Alessandria e l’emozione che ho provato poco fa, quando sono sceso nel garage e ho trovato la Vespa pronta, visto che il bagaglio l’ho caricato ieri sera assicurandolo al portapacchi con un paio di lacci elastici, non accenna a sparire. Il mio bagaglio è un piccolo trolley caricato sul portapacchi posteriore, anche perché è l’unico che ho montato. I miei genitori, tutto sommato, non sono preoccupati e non mi hanno detto granché: questa è pur sempre una delle fortune di essere l’ultimo arrivato in casa.

    Gli amici? Beh gli amici ci danno per spacciati. Ciccio, uno dei miei amici più cari, continua a ripetere che ci verrà a recuperare a Spinetta Marengo, un sobborgo, appena fuori dalla città. Gli ho sempre ripetuto che si sarebbe ricreduto e che noi saremmo riusciti ad arrivare ovunque con i nostri potentissimi mezzi, staremo a vedere.

    Contro ogni pronostico, alla fine ci incontriamo davvero: è mattina presto e, sul retro dell’unico McDonald’s della città, due Vespe sono

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