La Banda Bogh
Di Mario Pota
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Anteprima del libro
La Banda Bogh - Mario Pota
Angelino
Zero
Il silenzio è assordante.
Tutto intorno c’è il niente, quadro esatto di ciò che ho meticolosamente costruito nel tempo, poco, che ho avuto a disposizione.
Nonostante l’intensità del mio agire e la convinzione nei miei mezzi e nei miei obiettivi, oggi vivo un vuoto privo di interrogativi e di certezze.
L’unica domanda che ricorre e rimbomba, come il pianto inascoltato di un neonato all’interno di un lungo corridoio, è come sia stato possibile arrivare a tanto.
La mente barcolla sotto il peso frastornante e grezzo di ogni ricordo, mettere in ordine gli eventi è come carezzare il proprio bambino, appena venuto al mondo e completamente indifeso, con un guanto di carta vetrata, di quella a grana grossa intendo.
Sarò in grado di spiegare dove diavolo mi trovo ora?
Qui è vago e per quanti interrogativi io mi ponga non riesco a trovare una sola risposta plausibile da presentare al mondo.
Cerco una valida via di ragionamento ma mi muovo a vuoto, come un ciclista che si danni l’anima pedalando a tutta birra nonostante il fatto che la catena della sua bici si sia spezzata in più parti perdendosi nei primi metri di un’impervia salita: non ottengo effetto.
Dovrei spiegare, senza ancora averlo capito, qualcosa che forse avrò difficoltà ad accettare.
Talvolta temo di sbagliare le domande, non posso escludere questa evenienza.
Ma non è questo il problema.
Potrei allargare le braccia urlando al mondo intero come, mio malgrado, mi sia incamminato su un percorso obbligato, spinto da turpi pulsioni e da consigli sbagliati ma al momento mentire non ha alcun senso, strade senza alternativa ne ho incontrate, sono chiuse di dietro e sui lati, con un’unica apertura sul davanti, come un paio di jeans stretti, puoi solo camminare dritto o pisciare e non è questo il mio caso.
Io ho cercato insistentemente l’imbocco del sentiero ed è inutile che ora mi perda in ridicole manfrine che, fra l’altro, non mi sono mai appartenute.
Posso parlare del vortice nel quale mi affacciai volontariamente venendone risucchiato, come se si trattasse di un’assordante lavatrice techno rave o dell’incubo sognato per troppo tempo per sperare di non essere sveglio… di follia collettiva e paranoia omicida, anche di questo potrei parlare. Senza mai rendere davvero la dimensione dei fatti. Del morboso carosello nel quale mi sono ritrovato a girare obbligato da nessuno, consapevole che mai ad alcuno avrei chiesto aiuto.
Se anche avessi trovato un braccio teso so che non lo avrei afferrato.
Ero in balia del caso o solo di me stesso?
Le risposte più dolorose e meno tollerabili di solito sono le più evidenti, hai voglia ad allungare il giro, te le ritrovi sempre davanti. Se chiudo gli occhi ho la sensazione di avere viaggiato per ore, giorni oppure intere settimane sul sedile posteriore della vecchia auto di mio padre... forse la prima che abbia mai avuto, con i sedili in finta pelle rossa, sui quali d’estate ci si sarebbero potute cuocere le uova ma, in alternativa, ci si cuocevano culi e gambe scoperte dalle braghe corte.
Tristi domeniche d’infanzia di ritorno dai bagni dove la sabbia grigiastra m’aveva quasi spinto a odiare il mare, soffocato dal puzzo delle creme protettive e degli oli abbronzanti dolciastri, la cattiva musica dei juke-box e le urla proveniente dall’area dei flipper e dei calcio balilla, mentre gli uomini leggevano pessimi giornali di calcio e le donne ciucciavano sigarette americane con insistenza irritante.
Cibo d’ogni tipo per ogni tipo d’odore… palloni… salvagenti e pantofole poi, dunque, il ritorno.
Perpetua lingua di catrame e cemento che ripete, senza tregua, lunghe gallerie sorde e cieche prima di aprirsi su campi di grano fra le cui bionde creste si perdeva lo sguardo. Monotoni mari di spighe, abitati da milioni di cavallette la cui voce penetrante (assordante assordante assordante) tutt’oggi avverto sovente.
Sia però chiaro, non sto cercando scappatoie o giustificazioni… ero parte integrante del tutto e mi assumo le mie responsabilità.
Eppure non posso accettare che si parli di colpe.
Uno
Dice: se tutti gli uomini e le donne del pianeta decidessero di saltare contemporaneamente da una sedia sposterebbero la terra dal suo asse.
Un salto ben assestato potrebbe determinare un netto miglioramento sotto il profilo ambientale, ci sarebbero notevoli influssi positivi sul clima, si uscirebbe dalla grande nuvola di smog e potremmo assimilare nuovo ozono per tappare le falle della nostra martoriata atmosfera.
Dice…
Ma se poi continuassero a saltare?
Sei miliardi di disgraziati (perché le statistiche non sono mai troppo precise, perché credo di poter escludere i ricchi e i padroni in genere da questo numero senza travisare le cifre e perché anche loro, senza saperlo, sono dei poveri disgraziati) che salvano con un salto l’intero pianeta ma che subito dopo montano nuovamente sulle loro seggiole per lanciarsi nuovamente nel vuoto. Disposti a farlo ancora e ancora fino a portare la terra fuori dal benefico abbraccio dell’orbita astrale, assecondando il volere di un solo essere, fino alle estreme conseguenze.
Io non ho esitato, certo ho sentito il fiato venire meno, ma per un solo istante, poi l’ossigeno mi ha gonfiato i polmoni, irrorando il sangue per giungere sparato fino al cervello, facendomi trasalire per un solo e unico istante. Un’inezia, quindi sono salito sulla mia seggiola di tubi e legno, ho preso fiato, tutto orgoglioso, e ho iniziato ad urlare: tutti…TUTTI!
, i miei compagni si sono guardati fugacemente, dunque sono montati sulle loro rispettive seggioline, sempre di tubi e legno, senza esitazione e hanno seguito il mio esempio: TUTTI! TUTTI!
L’edificio, dapprima immoto, come Lazzaro richiamato dal Cristo, ha iniziato a scricchiolare… pianissimo, quindi in un modo più particolare, ritmato.
TUTTI…TUTTI! L’intera città si è messa a urlare, ma non è un urlo selvaggio, no, è qualcosa di più, una preghiera che risuona come un ordine, una invocazione basata su di una ferrea convinzione: questa è la cosa giusta da fare. Che si faccia allora!
TUTTI…TUTTI!
L’onda si propaga, vibrante e inarrestabile, il mondo sale su seggiole di tubi metallici e scadente legname e urla al suo vicino e questi a sua volta verso chiunque gli sia prossimo.
Oltre Gibilterra, ignorando orizzonti e confini, investendo Oriente e sbaragliando Occidente…
TUTTI!
Al mio cinque… AL MIO CINQUE!
Scandisco deciso affinché i cerchi si propaghino veloci in tutto lo stagno.
UNO
I polmoni sono gonfi di uno. Riuscite a immaginare 12 miliardi di polmoni gonfi di uno?
DUE
I vetri degli edifici esplodono come se fossero granelli di sabbia spazzati dal vento…
TRE
Un’onda nel cielo cancella le nubi e frantuma uno Sciattol in fase di lancio.
QUATTRO
Gli uccelli prendono a migrare nonostante non sia la loro stagione. Folli e caotici si perdono nel cielo immenso, incapaci di ritrovare la rotta seguita per secoli da intere generazioni prima di loro.
Ci siamo.
I polmoni si preparano per lo sforzo finale, mentre occhi si cercano per comunicarsi sogni e paure all’alba di una nuova era.
CINQUE
Chiusi gli occhi sono saltato nel nulla senza alcun timore, senza ombra di protezione, cuore libero e forte, mente in fiamme e poche lacrime di gioia.
DUE
Il mondo non si è spostato…
L’edificio non si è spostato.
Sputa quella gomma!
L’aula non si è spostata… un paio di banchi sbilenchi hanno vibrato a stento.
Sputala ho detto!
La pressione aumenta sensibilmente ma io non mi lascio intimorire… mi chiedo cosa sia andato di traverso. Perché non c’è che dire: qualcosa è andato storto.
Sono meravigliato, avevo letto e sentito diverse cose in proposito.
Forse dovevamo saltare da un’altezza maggiore oppure le urla non hanno coperto ogni angolo del pianeta.
Lui mi guarda in cagnesco e continua a sbraitare, quindi batte due dita grassocce sul mio petto tutto sommato ancora gracile, mi indica con sguardo infame ma il suo è un indice che non sa minacciare, gesticola forte, mi richiama all’ordine, a qualche dio e ai regolamenti interni.
Io resto immobile seppur tentato dall’idea di allungare una mano per carezzarmi il dolente orecchio sicuramente tinto di un rossore ingiusto.
La mia aguzzina starnazza, ocabastarda, enunciando le mie responsabilità nella condizione dell’umano dolore.
Vuoi sputarla?
Evidentemente la risposta è no e il ciccione grigiopanciotto eleva più in alto le urla alzando le braccia al cielo, spettinandosi e maledicendo il mondo. Mi chiedo se faccia sul serio.
Le vene del collo si gonfiano e ancora lui sbraita e sbuffa, eccolo, ora diviene paonazzo mentre io mastico molle una doppia pasticca al mentolo. Buttando sguardi perplessi al di là del mondo finestra.
Sbadiglio, che è pur sempre un segnale di vita, dunque mi sveglio, smosso nell’asse da un sonoro quanto vibrante ceffone giunto, inatteso, da un punto dell’universo a me ostile.
Scotta ora la guancia che pulsa rossastra mentre l’orecchio ancora avverte l’eco umiliante di ingiustificate botte. È davvero una sberla da film, di quelle che fanno baccano, ma ora la guancia ribolle, merda!
Non capisco da dove sia giunta ma, una volta ripreso il controllo, vedo bene l’ossuta cozza risistemarsi un anello di culo di birra all’anulare della mano mancina. Nel mentre l’omone che si crede potente ancora mi punta e non smette di urlare roteando due dita in direzione del sole, annunciando sciagure e distruzione, il mio gesto avrebbe potuto procurare annientamento e macerie, le fiamme avrebbero accompagnato il lento scivolare del mondo conosciuto verso la più tremenda implosione. Sprofondando tutto e tutti nel cosmico niente.
Un Puff… e tutto sparisce.
Ma io non la vedo così, manco per niente.
Però non ho voglia di starne a parlare e non ho neanche voglia di continuare ad ascoltare, ne ho le palle piene a dirla tutta, quindi affondo lo sguardo in quegli occhi troppo stretti per l’incontrollabile collera, incapaci di vedere e di capire, mentre io ancora fisso la punta di quel grasso dito che ricomincia a insinuare, poi scatto, l’afferro e me lo porto al centro della fronte, lo sento, si solidifica in ruvido e freddo metallo: Spara! Spara!
ora sono stanco e anche se solo per un attimo gli faccio capire che non ho paura di urlare: ruggisco!
Digrigno, sbavo e ancora una volta carico i polmoni per poi scaricarli