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Affetti collaterali: 15 racconti semplici e qualche poesia
Affetti collaterali: 15 racconti semplici e qualche poesia
Affetti collaterali: 15 racconti semplici e qualche poesia
E-book146 pagine1 ora

Affetti collaterali: 15 racconti semplici e qualche poesia

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Info su questo ebook

Tra una storia vera e una storia inventata non c'è un confine netto, ma uno spazio attraversabile, una terra di mezzo che si chiama "narrazione", e consente di tenere insieme biografie e personaggi, luoghi geografici e luoghi del cuore. Questo libro è diviso in due sezioni, una di racconti brevi e l'altra di poesie: è come un viaggio d'andata e di ritorno tra le due terre della fantasia e della realtà. Scrivere storie brevi è infatti tutto un lavoro di immaginazione, ma qui l'autore si porta appresso ricordi veri, emozioni vive, persone amate. Fare poesie è invece un fatto di concretezza: si lasciano andare anche i più grandi castelli in aria per tornare all'essenziale dei versi e della pagina bianca. Insieme andare e venire, affastellare storie e selezionare parole: ecco i due inscindibili effetti (o affetti) collaterali di quando si vuole un po' di bene alla vita e la si vuole stringere forte.
LinguaItaliano
Data di uscita25 lug 2023
ISBN9791221488111
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    Anteprima del libro

    Affetti collaterali - Marco Bianchi

    Venghino signori, venghino!

    Qui si raccontano storie: storie vere, storie inventate, storie finite bene e storie mai nate. Luoghi della memoria, luoghi della fantasia, ricordi lontani nel tempo, ricordi che non andranno più via. Si narra di persone reali, alcune un po’ strane, altre normali; alcune immaginate ma mai banali.

    Mischiamo tutto, realtà e finzione, ricordi e immaginazione e chissà che un giorno lorsignori passino per caso da queste parti e si imbattano, lorsignori, in una storia interessante. Da leggere così, in un istante. Come un caffè ristretto, senza zucchero, che così è perfetto.

    Che tipo di storie? Storie senza rime. Finite. Con le rime è tutto più semplice; scrivi una frase, scegli una parola, ne trovi un’altra che abbia l’ultima sillaba identica o lo stesso accento, fa’ che abbia un senso, metti insieme il tutto. Più o meno, insomma. Nella realtà, invece, trovare le rime è più complicato, e a volte tocca fare i conti con rime che non piacciono: amore che fa rima con dolore e non con cuore.

    Ora, cosa c’è di interessante in tutto questo? Nulla. Nulla che non sia già stato pensato, detto e scritto. Nulla, se non fosse che un pizzico di immaginazione, un briciolo di fantasia, possono far viaggiare con il pensiero, in un tempo speciale che non ha un ieri o un domani, non ha limiti. Si parte quando si vuole, si torna quando si vuole. Pazienti il lettore e perdoni allo scrittore.

    15 racconti semplici

    1

    Camminando all’indietro

    Mi ha preso la tristezza al pensiero del lungo cammino. Non è vero, Monsieur, che questo è del tutto naturale anche quando si sa che alla fine di quel cammino c'è la felicità?

    (Michail Bulgakov,

    Il Maestro e Margherita)

    Poteva andare diversamente ma, alla fine, è andata proprio così.

    Inizio marzo. Freddo cane. Domenica mattina ore sei. Buio pesto. Sudo copiosamente mentre corro con la torcia in testa lungo la riva sinistra del Chiese e mi domando cosa ci sia di più bello al mondo. Al mio fianco l’acqua scroscia timidamente contro le sponde; sotto di me solo rumore di foglie secche e terra battuta calpestate dalle mie scarpe. Vedo a malapena a dieci metri di distanza ma corro. Corro. Dopo poco comincia la salita, la mia preferita: breve ma cattiva. Un ultimo strappo alla massima velocità possibile. Arrivo in cima, ora spiana, ora rifiato. Ultimi tre chilometri e sarò a casa, in orario giusto per una calda doccia e una colazione abbondante. Allenamento perfetto.

    Rientro in casa mentre tutti dormono ancora. Beh, non proprio tutti: Gilda scende le scale di corsa dal piano superiore e mi viene incontro come se non mi vedesse da una vita. «Sono io, stupida!» dico a bassa voce per non farmi sentire. «Ci siamo visti un'ora fa!», parlo al cane come se parlassi a una persona, mi sto rincoglionendo. Tanto lei, evidentemente, non ha capito, perché continua imperterrita a farmi le feste. Vabbè, due carezze non si negano a nessuno: se le prende e si stende sul divano soddisfatta del risultato ottenuto. Mi spoglio, mi faccio una doccia caldissima, faccio una ricchissima colazione con indosso ancora l’accappatoio (trasgressione alla regola settimanale) mentre do un’occhiata allo smartphone.

    Nonostante corra da più di vent’anni, trovo sempre maledettamente appagante il momento della colazione dopo l’allenamento e cerco di godermelo con tutta la calma possibile. Mando un messaggio a Carlo:

    «Buongiorno! Già rientrato dall’allenamento? Sei pronto per il Grande Giorno?» In attesa della risposta spalmo qualche fetta biscottata con del burro di arachidi… 

    «Ciao, sono appena rientrato. Pronto… è ancora presto per dirlo. Diciamo che ci sto dando dentro con gli allenamenti.»

    «Bravo. Stamattina io sono andato alla grande ma se penso alla salita che ci dovremo sorbire mi sento già stanco solo a pensarci».

    «Già. Da milleduecentoventi metri di quota a duemilasettecentocinquantotto, senza mai mollare un metro! Te l’ho scritto in lettere così capisci quanto sarà faticoso!».

    «Non farmici pensare! Però son sicuro che sarà un’esperienza bellissima.»

    «Certamente, non ne ho dubbio.»

    «Bene, buona domenica. Ciao.»

    «Altrettanto a te. Ciao.»

    Tra qualche mese mi cimenterò per la prima volta in una mezza maratona tutta in salita, ventuno chilometri da Bormio al Passo dello Stelvio. Per queste gare gli allenamenti devono essere frequenti e soprattutto in salita. I quadricipiti devono trovarsi pronti il giorno della gara a sostenere quella sollecitazione costante. Decido quindi che martedì mattina, all'alba come al solito, prima di andare al lavoro, mi inoltrerò nella pineta di Carzago, ricca di saliscendi e pertanto particolarmente adatta al mio scopo. 

    Arriva martedì. Esco da casa intorno alle sei e trenta e inizio a correre lentamente per riscaldare i muscoli. L’aria è gelida e già si intravedono i primi chiarori mattutini. Dopo una decina di minuti comincio a carburare e a prendere un ritmo più deciso; affronto con determinazione le prime due salite dalle quali ricavo che sto facendo un buon lavoro. Alla prossima spingiamo un po’ di più, tanto poi ci sarà la discesa per rifiatare. Accelero. Inforco la terza salita e spingo più che posso: dai che è quasi finita. Finalmente scollino e lascio che le gambe se ne vadano giù molli per la discesa. Dopo qualche secondo, sento una fitta tremenda al petto, faccio una smorfia di dolore e cado ruzzoloni per qualche metro.

    Talvolta succede che rientri a casa dagli allenamenti dopo che mia moglie è andata al lavoro; perciò, quella mattina, lei si sveglia e si prepara come tutte le mattine e, senza preoccuparsi della mia assenza, esce da casa al solito orario, chiude la porta e se ne va. Verso mezzogiorno, un signore sulla settantina che sta passeggiando nel bosco, con due fitti baffi a manubrio e un bastone di legno intagliato a mano, mi trova proprio lì, nel punto in cui il mio ruzzolone è terminato, su quel sentiero bellissimo, tra tigli e castagni. Morto. Non so perché sia successo. Ormai il più era fatto, poi quella tremenda fitta e poi… poi più nulla. The end, game over, el tèrmino. Quindi, ça va sans dire, la storia finisce qui. O meglio. La proseguo da un posto diverso, dove ogni storia può nascondere sorprese inaspettate. 

    Perciò, proseguiamo.

    Tre giorni dopo mi fecero un bel funerale, con tanta gente accorsa perché, fortunatamente, di amici ne avevo tanti. C'erano tutti; la chiesa era gremita. Mia moglie, i miei figli, i miei familiari, piansero lacrime di disperazione chiedendosi come fosse stato possibile. Qualcuno disse qualche parola di commiato. Subito prima di iniziare la celebrazione, quattro anonimi becchini in grisaglia da grande magazzino, avevano trasportato sulle spalle la bara dal carro funebre, una lussuosa Mercedes che nessun morto ha mai apprezzato, su per i sette gradini del sagrato fin dentro la chiesa, ai piedi dell’altare. In disparte per tutta la celebrazione, ritti e muti come platani padani, alieni da ogni rito, estranei ad ogni lacrima. Le loro facce troppo serie, l'attenzione al sincronismo dei movimenti e il completo mutismo non facevano che confermare la routine di quei gesti: grigi e spenti come i loro abiti, pesanti e superflui come massi ai margini di una pietraia. Al termine della funzione liturgica, seguendo un rodato copione, fecero il percorso inverso in direzione della fiammante stationwagon. Fu al primo gradino, scendendo il sagrato, che uno di loro inciampò obbligando gli altri ad un ulteriore sforzo per sostenere la bara, che barcollò pericolosamente; nessuno di loro si scompose, nessuna smorfia sul viso mentre molti intorno levavano un timido ooh!, temendo il peggio, e altri accennavano un istintivo e imbarazzato sorriso. 

    E io persi tutte le cose meravigliose o tremende – ma vita - che la vita mi avrebbe ancora dato: un bacio appassionato alla donna che amo da trent'anni; una risata con gli amici davanti a un fumante risotto; un tramonto sul mare che, per quanto banale, rimane pur sempre uno spettacolo della natura. Un figlio che ti fa piangere di gioia o un altro che ti fa piangere per la preoccupazione. Nulla di questo potei più provare, nulla.

    Giunti al cimitero, con la medesima inutile professionalità, i quattro avevano deposto il feretro ai piedi del loculo assegnato e se ne erano andati quasi senza che ce ne accorgessimo. Il loro lavoro era finito. Altrettanto inutilmente, ma consapevole di avere molti occhi puntati addosso, aveva fatto un buon lavoro l'operaio del cimitero. Cemento e calce erano stati ben amalgamati e quella crema grigia era stata messa con cura, con gesti calmi e ripetitivi, negli spazi intorno al coperchio di pietra. Mi colpiscono sempre questi particolari ai funerali e li notai anche al mio. Anche la tomba, quindi, stava per essere sigillata, così come lo era stata la bara il giorno prima. A pochi metri di distanza, quasi a voler marcare una differenza tra dolore e lavoro, stavano gli altri, i vivi, tutti a contemplare con mestizia il lavoro in corso. L'operaio terminò e se ne andò. Restò un nutrito gruppetto di persone per i saluti, le frasi di rito, gli abbracci, i ricordi.

    Siamo generati per un continuo divenire, tuttavia costruiamo il Poi nella memoria di ciò che è appena stato, del Prima appena trascorso.

    Nessuno lo scoprì ma il mio cuore aveva un difetto, anzi due. Un’insufficienza alla valvola mitralica e un’altra, più grave, alla valvola aortica. Non ne ero a conoscenza, ovviamente, e gli anni di attività podistica ne aggravarono la situazione. Ha pompato sangue nelle mie vene spingendomi su per mille salite, illudendomi di poter resistere a sfide durissime invece, alla fine, era fragile come la maggior parte delle cose preziose della vita. E non ha retto. Se avessi potuto custodire, se avessi saputo rinunciare… Non ne sono stato capace. D'altronde, per la crescita umana valgono tre regole fondamentali: l’istinto di sopravvivenza, il senso del dovere, e lo spirito d’iniziativa. Delle tre, confesso di aver tralasciato spesso

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