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Zanza: Storia di una Milano che non c'è più
Zanza: Storia di una Milano che non c'è più
Zanza: Storia di una Milano che non c'è più
E-book529 pagine7 ore

Zanza: Storia di una Milano che non c'è più

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Info su questo ebook


Una realtà cruda e, perlopiù, amara, che descrive e racconta la malavita di serie B (gli ZANZA, appunto), attraverso gli occhi del protagonista: Dante, un ragazzo nato agli inizi degli anni '50, a Milano.
Una persona qualunque, un milanese, sottomesso e schiacciato dalla grandezza di un padre irraggiungibile, per via delle innumerevoli virtù, e tormentato dalla vergogna per una madre, frutto di un abuso sessuale, lontana e assente.
Le compagnie, gli amici più cari, l'eroina, le bische clandestine, i movimenti religiosi delle ragazze “bene”, la “roba rubata” e una passione, quella per le motociclette, che porterà il protagonista a conoscere personaggi al limite della fantasia, attraverso scenografie cupe, grigie, sfuocate dall'umidità e dallo smog di una città immortalata grazie alla minuziosa ricostruzione dei luoghi e dei fatti di cronaca più importanti.
In costante bilico tra lecito e illecito, tra l'anonimato di una vita qualunque e la fama di quelli che ce l'hanno fatta (come il suo amico Lionello Massimelli), il protagonista si esprime attraverso un linguaggio schietto ma ricercato; un groviglio di dialetti, discorsi diretti, che intrecciandosi tra di loro, descrivono, nel modo più autentico, uno spaccato di storia dai tratti infelici e disgraziati, meschini e compassionevoli, che sanno però strappare, in più di un'occasione, il sorriso.

“Roba da matti! Noi, poveri mentecatti, zanza, ladri e ignoranti, incapaci di apprezzare le cose belle della vita... stavamo discutendo con affannoso distacco la partecipazione a una festa di Capodanno organizzata solo per la famiglia Lobascio da Grazia Letizia Veronesi e Lucio Battisti in persona: cose dell'altro mondo.”
 
LinguaItaliano
EditoreSghembols7
Data di uscita21 dic 2021
ISBN9791220877954
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    Anteprima del libro

    Zanza - Matteo Colella

    Matteo Colella

    Zanza

    Storia di una Milano che non c'è più

    Realizzazione immagine copertina

    Alberto Maal Macari

    © 2021 Copyright Matteo Colella

    Tutti i diritti riservati.

    Matteo Colella, Milano

    matteocolella7.com

    UUID: 1eca2da3-0f39-4300-8268-81ebd6c00ce0

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Ringraziamenti

    A Dante. Alle nostre chiacchierate, alle nostre cene, alle tue attenzioni. Alla birra fresca che mi facevi trovare sempre di fianco al piatto. 

    Al Prosecco che compravi solo per me, accontentandoti di farmi compagnia con il vino in cartone. 

    A te che hai sempre creduto ti stessi prendendo per il culo; ho sempre avuto profondo rispetto e tanta ammirazione nei tuoi confronti. Potessi leggere questo libro te ne renderesti conto.

    Un grazie immenso va a Beatrice che mi ha aiutato a ricomporre il puzzle, la rete di parentele, di amicizie, di personaggi che compaiono nel libro: grazie anche per i consigli, per l'editing editoriale delle primissime stesure, così come per le prime correzioni bozze.

    Grazie alla Brianza, ai brianzoli e a quei nove anni d'inferno in cui ho vissuto lontano dalla mia Milano. Milano fa schifo, non ha il mare, è grigia, cupa, in costante degrado. Eppure, ci sono nato e, in qualche modo, le voglio bene.

    Grazie al gatto e la volpe, a Igor e Mav: se non mi aveste lasciato in mezzo a una strada, pugnalandomi alle spalle con viltà e codardia, non avrei mai potuto aprire gli occhi per vedere ciò che prima non vedevo. Grazie di cuore anche a voi.

    Grazie a Salvatore Brizzi, ai suoi libri, alla Quarta via, alla possibilità di Risveglio che il Cosmo, l'Universo, la Fratellanza Bianca, ci concede in ogni singolo istante della nostra esistenza.

    Infine, grazie a te caro lettore, che mi hai dato fiducia comprando questo libro; immergendoti nella lettura, spero tu possa divertirti, emozionarti, arricchirti e crescere, trovando nuovi spunti di riflessione sulla vita, l'amicizia, sull'esistenza.

    Sommario

    Ringraziamenti

    Prefazione

    La gara

    Bartali e Montemarciano

    La ringhiera

    Anquetil a Milano

    Lotta di classe

    Andrea

    L'ho salvata

    Fuga dalla caserma

    Le compagnie

    Mura, le moto e la voglia di Fruit... of the loom

    ZANZA

    Yuppie e malavitoso

    Vera, le mignotte, la promiscuità e tutti gli altri

    Vorrei poter tornare indietro

    Poesia

    Bozze, appunti, pensieri...

    Prefazione

    Mi capita spesso di fantasticare sulle vite delle persone che incrocio per la strada, in macchina, in moto, a piedi. Lo faccio soprattutto con le persone anziane, cercando di immaginare quale possa essere stato il loro passato, il loro trascorso.

    Un anziano claudicante, una vecchietta torta e ingobbita, all'apparenza innocui, potrebbero invece nascondere torbide e indicibili verità.

    Molte persone utilizzano la vecchiaia per nascondersi, per ripulire reputazione e coscienza, altri, invece, la soffrono; hanno toccato con mano il meglio e il peggio che la vita poteva loro offrire, non riuscendone tuttavia a trarne giovamento, profitto e soddisfazione.

    Fin da subito, molti anni fa, ascoltando le leggende narrate dalle mie fonti, ho pensato di tradurre in un libro tutte quelle parole, tutti quei pensieri. Volevo condividere e sottolineare differenti punti di vista rispetto a ciò che la storia o i semplici fatti di cronaca hanno raccontato.

    La visione scanzonata di una realtà cruda e, perlopiù, amara, mi ha permesso di apprezzare anche i lati più oscuri della storia, facendomi a volte divertire a volte emozionare, durante la stesura del testo. Spero sia così anche per voi.

    In ogni caso, tengo a precisare che OGNI RIFERIMENTO A PERSONE ESISTENTI (O ESISTITE), A FATTI, COSE, STORIE, AVVENIMENTI REALMENTE ACCADUTI, È PURAMENTE CASUALE E NON CORRISPONDE ALLA VERITÀ.

    Mettiamola così: la realtà può superare la fantasia, così come, la fantasia, in alcuni casi, può risultare molto simile alla realtà.

    Matteo Colella

    La gara

    Capitolo uno

    Sono teso, agitato. Le gambe sono dure, poco reattive. I venti chilometri scarsi che mi separavano dal via della gara, li ho percorsi in bici.

    «Così ti scaldi», ha gridato Otello.

    Venti chilometri appena, forse qualcosa di meno, mi hanno sfiancato. Mi hanno tolto ogni energia. La tensione gioca brutti scherzi. È la testa che fa il campione. La tenacia che forgia le gambe dei ciclisti più forti. Ma questo ancora non lo so. Nessuno mi ha detto cosa fare, come comportarmi, in che modo allenarmi, che tattica adottare. Nessuno. Neanche mio papà. Otello, sui pedali, era un campione. Sicuramente lo è ancora. Tuttavia, come ogni fuoriclasse, non è in grado di trasmettere la sua esperienza, la tecnica, le tattiche, il puro gesto atletico, semplice e disarmante, che prende vita da un talento innato. Per lui è normale che sia così. Per me no. A lui non ha detto niente nessuno. Non ce n'è stato bisogno. La classe e l'intuito del purosangue lo hanno sempre guidato nel migliore dei modi.

    Per me invece è diverso. Non ho fiducia in me stesso, nelle mie capacità. Temo il confronto. Temo il suo giudizio, la sua figura così ingombrante.

    «C'hai le caviglie grosse, da calciatore. Non sei buono per pedalare», questo il miglior incoraggiamento regalatomi fino a oggi.

    È la mia prima gara. Sono impaurito. Avverto la pressione. L'odore di olio canforato mi sta dando alla testa. Ho il cuore in gola per l'emozione. Un ronzio assordante mi isola dal resto del mondo. Non sento nulla, i rumori, le voci, neanche quella di mio fratello che sta urlando qualcosa da oltre le transenne. Vedo la sua bocca muoversi al rallentatore in un silenzio assordante, un fischio penetrante, ovattato dal mio stato d'animo.

    Lo stesso silenzio che, astruso e surreale, adesso accompagna i movimenti dei ciclisti intorno a me: il giudice di gara ha dato il via.

    Inizio a spingere sui pedali, terrorizzato, rigido, legnoso. Sono impietrito, ho paura, ma trovo il coraggio per raggiungere il punto di equilibrio, stringere con forza le cinghie in cuoio dei puntapiedi e buttarmi a capofitto nella mischia.

    Pedalo come un disperato, a testa bassa, senza pensare, senza capire. Respiro a pieni polmoni: l'odore di canfora, spalmato sulle gambe dei miei avversari da genitori e preparatori più premurosi di Otello, adesso mi provoca conati di vomito. Resisto. Sono in trance ma tiro ugualmente il manubrio con forza, come se fossi già arrivato alla volata finale. Riesco così a farmi largo tra i concorrenti e a raggiungere velocemente il gruppo di testa.

    Voglio fare bene. Devo fare bene. Voglio il risultato. Più per mio papà che per me. Voglio regalargli almeno questa soddisfazione. Ma non sono pronto. Non ho alcuna esperienza. Pedalo da poco. Troppo poco. Il mio stato di forma non è dei migliori. Probabilmente, mi ritrovo in questa situazione solo per una fortuita serie di eventi, uno strano intreccio di circostanze. Sono attratto dalle biciclette, ma ho sempre rinnegato sacrificio e sudore, necessari per ottenere risultati.

    Sono nel bel mezzo della gara. Pedalo senza essere presente. La mia testa è da tutt'altra parte. I pensieri volano troppo velocemente per concepire una seppur rudimentale tattica.

    Ecco il primo strappo: un avversario dello Sport Club Genova 1913 scatta improvvisamente, si stacca dal gruppo e tenta l'allungo; penso voglia andare in fuga. Non me lo lascio scappare. Mi alzo sui pedali e in pochi metri lo raggiungo. Lo sprint dura poco meno di due minuti, poi, veniamo risucchiati e inghiottiti dal gruppone. Ho il fiato corto, ansimo, inizio ad accusare la fatica. Sono già allo stremo.

    Stamattina ero troppo agitato per trovare la lucidità di addentare qualcosa. La tensione mi ha tolto l'appetito. Ma non ho il tempo materiale per occuparmi di probabili crisi di fame, perché il biondino che mi sta pedalando di fianco, con la maglia dell'Enal Pissarelli, tenta lo sprint.

    La scena si ripete, identica a prima: lui che scatta, in piedi sui pedali, io che lo imito inseguendolo. Poche pedalate e gli sto già succhiando la scia. Anche questa volta il tentativo di fuga si rivela un buco nell'acqua. Rientriamo nel gruppo in meno di un minuto.

    Corriamo su un anello, da percorrere tre volte, disegnato tra le vie del quartiere Comasina, a Milano. Non c'è una salita, una discesa, una variazione di pendenza. Tutta pianura. Nel gruppo di testa i ciclisti si danno spesso il cambio, per tenere un ritmo elevato e fare selezione, lasciando indietro il maggior numero di corridori in prospettiva di uno sprint finale il più tranquillo possibile. In queste condizioni è impossibile tentare la fuga.

    «Magari...con una squadra che lavorasse per me...», fantastico a voce alta. Sono in preda alle allucinazioni, l'unico a confondere gli scatti dei miei avversari con improbabili tentativi di fuga. Loro, gli altri ciclisti, più esperti, più preparati, più seguiti, provano solamente. Si studiano, testano la propria condizione atletica, sentono la gamba, se in giornata o meno.

    Gli scatti si susseguono a intervalli regolari. Prima uno, poi l'altro. Allungano per qualche centinaio di metri per farsi riprendere subito dopo dal gruppo. Non me ne lascio scappare neanche uno, agganciandomi alla ruota di tutti i fuggitivi.

    Sono esausto, sfiancato. Dopo l'ennesimo scatto, sento le forze abbandonarmi. Mi lascio sopraffare dallo sconforto, dalla mancanza di volontà, che non ho mai avuto, fondamentale in questo sport:

    «Ma chi cazzo me lo fa fare?!», penso tra me e me.

    La voglia di fermarmi, di lasciar perdere, è tanta, ma non lo faccio. Cambio tattica: abbasso il ritmo, per recuperare energie, e lascio allontanare il gruppo di testa.

    Pochi secondi per vedere sfilare anche il primo plotone degli inseguitori, il secondo, il terzo e così via, fino a quando, più di duecento ciclisti mi risucchiano staccandomi in breve tempo e lasciandomi completamente da solo. Succede tutto molto rapidamente; non me ne rendo conto.

    «Nulla di che!», valuto con leggerezza. Una breve pausa ad andatura moderata, per recuperare le forze, mi farà bene. Dopodiché, sono convinto, raggiungerò il gruppo di testa in pochi minuti, come loro hanno fatto con me.

    La mia ingenuità supera il talento. Che stupido.

    È l'ammiraglia dei giudici di gara, che sopraggiunge strombazzando, a offrirmi il quadro reale e concreto della situazione.

    Mi accorgo definitivamente della gravità dell'errore commesso quando, anche mio papà, che sta seguendo la gara dalle retrovie in sella al suo Garelli, mi raggiunge e mi affianca. Il suo sguardo, impassibile, severo, distaccato, mi blocca il cuore:

    «Andiamo a casa», apostrofa inclemente, fissandomi dritto negli occhi e scuotendo la testa.

    Finisce così la prima e ultima gara in bicicletta della mia vita.

    Un groppo alla gola mi impedisce di dire alcunché, mi impedisce di difendermi, di replicare, di urlare tutta la mia solitudine.

    Mi fermo, esco dal percorso, e mi avvio verso casa, nella delusione di quel momento. Sono triste.

    Musi lunghi la sera a tavola. Il silenzio di tutti dà tono e spessore a un'aria densa e pesante. Mangio con la testa bassa nel piatto. Ho il magone. Il ciclismo, ho capito, non sarà mai il mio sport. Ho deluso mio papà.

    Una domenica triste, dura da digerire, come il solito minestrone annacquato che mia madre ci ha servito anche per questa cena.

    Bartali e Montemarciano

    Capitolo due

    Mi chiamo Dante, sono nato a Milano nel '52. Sono nato in una casa di ringhiera, simbolo di una Milano che non c'è più. Una realtà che solo un osservatore acuto e attento come Dino Buzzati [1] ha saputo raccontare, descrivere, illustrare nel modo più semplice, amabile e genuino. Penso di aver vissuto gli anni più belli di questa mia Milano: una città che fa schifo, ma che, in fondo, amo profondamente. Triste, grigia, veloce e disordinata. A volte la odio, a volte no. Una Milano che ho visto rinascere, negli anni '50, gli anni della ricostruzione, che ho visto esplodere negli anni '60, quelli del boom economico, che ho visto crescere, espandersi e poi fermarsi, imbruttirsi, degradare. Nel tempo si è impoverita di quella cultura che le persone umili, ma con profondi valori, erano riuscite a donarle. Una Milano che oggi, ahimè, non esiste più.

    Sono nato in Via Matteo Maria Boiardo, una traversa di Viale Monza, a pochi metri dall'odierna fermata della metropolitana Turro, la linea Rossa.

    Viale Monza, fino ai primi anni '80, era una delle vie più importanti di Milano, forse la più importante. Una volta (prima di ridursi a sudicia e caotica vetrina per centri massaggi equivoci, sale giochi e kebabbari) era un meraviglioso viale alberato in cui sferragliavano i vecchi tram milanesi. Niente a che vedere con il degrado e la bruttura di oggi. Quella delimitata da Viale Monza e dalle vie limitrofe era considerata una delle zone più strategiche di Milano. Strategica perché portava alle grandi industrie, alla Pirelli, alla Breda, alla Falk, alla Magneti Marelli.

    Sono nato in una casa di ringhiera, in un piccolo appartamento di due sole stanze, cucina e sala, collocate all'ultimo piano di un vecchio palazzo che seppe resistere ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Pochi metri quadrati, bollenti d'estate e gelidi d'inverno, per nulla accoglienti, che dividevo insieme a mio papà Otello, mia madre Wanda e mio fratello Vittorino.

    Le condizioni igieniche nella ringhiera erano precarie, quasi inesistenti: drammatiche. La pattumiera con il buco nel muro, da piccolo, rappresentava uno dei miei passatempi preferiti. Ero sempre io a offrirmi per andare a buttare l'immondizia. All'epoca non esistevano i sacchetti di plastica in cui raccogliere la spazzatura né, tanto meno, la raccolta differenziata. I rifiuti domestici venivano ammucchiati in un secchio che, dopocena, mi divertivo a scaricare sul pianerottolo, in prossimità di un bocchettone di ferro. Lo aprivo tirando verso l'alto la maniglia di ottone, annerita dal tempo, imbullonata a una lastra di ferro arrugginita, e, aiutandomi con i piedi, buttavo il pattume sparso in terra dentro al buco. Adoravo ascoltare il fischio provocato dai rifiuti precipitare nel vuoto. Assistevo i resti della cena in caduta libera fino al tonfo finale, debole, lontano, dovuto all'impatto dell'immondizia contro il fondo del grosso bidone al piano terra, che la portinaia, la sciura [2] Seratoni, avrebbe poi svuotato.

    Sul pianerottolo, tra una rampa di scale e l'altra, rimanevano, inevitabili, il sudiciume liquido, alcuni residui solidi e l'olezzo dei rifiuti domestici che con il piede non ero riuscito ad accompagnare oltre nel buco. Così, sulle scale, sporche del passaggio dei rifiuti di tutti i condomini, ristagnava quell'odore tipico che si trascinano appresso i camion della nettezza urbana: una puzza di marcio, di rancido. La sporcizia regnava ovunque.

    Il bagno era fuori, sul pianerottolo, in comune con gli altri inquilini. Una porta di legno sbilenca e cigolante nascondeva una turca ingiallita e incrostata dal tempo. La carta igienica non sapevamo neanche cosa fosse. Usavamo i fogli di giornale per pulirci; strappati ad arte con l'aiuto di un righello di legno, tutti della stessa misura, venivano infilzati in un fil di ferro posizionato vicino alla turca, a portata di mano. Ma la carta di giornale non assorbiva granché. Semplicemente, scivolava in mezzo alle natiche pulendo ben poco e spargendo, a ogni passata, i residui di escremento su una superficie sempre più vasta. Un gesto che aumentava il senso di disagio, di fastidio, soprattutto nelle giornate più rigide: insopportabile il contrasto fra l'amalgama calda e umida, impastata tra le chiappe sudicie, e il freddo di quel loculo nauseabondo.

    Non era piacevole cagare in quelle condizioni, per nulla liberatorio, accovacciato sopra a un buco che, se si aveva la sfortuna di centrarlo al primo colpo, rigurgitava schizzi di acqua lercia che inumidivano chiappe e scroto.

    Da piccolo, avevo sempre le croste al culo. Quando, però, il bruciore arrivava a livelli tali da non permettermi più di giocare, allora, solo a quel punto, interveniva mia madre che, con una pezza umida, mi ripuliva togliendo il grosso e donandomi un profondo sollievo.

    A volte, soprattutto nei lunghi pomeriggi invernali, quando ancora in età prescolare, la facevo in casa. Ero solito passare il tempo con i giochi che custodivo gelosamente nella mia scatola di legno, con una grande scritta Salumi Negroni sul coperchio. La aprivo, riversavo sul tavolo tutto il suo contenuto e mi mettevo a fantasticare. In quelle occasioni niente e nessuno avrebbe potuto distrarmi attirando la mia attenzione. Così, quando mia madre si accorgeva di come trattenessi lo stimolo con strane contorsioni di gambe e busto, per evitare il peggio, mi portava di corsa il vasino. Lo posizionava sulla sedia, mi abbassava i pantaloni e mi ci faceva sedere sopra.

    Stavo in quella posizione per ore. Interi pomeriggi con le gambe insensibili, anestetizzate dal formicolio provocato da quella scomoda seduta. La puzza dei miei escrementi, confezionati caldi e compatti, pervadeva tutta la casa.

    «Alzati! Senti come puzza!», strillava allora mia madre, fastidiosa quanto i terribili maglioni di lana intrecciati da lei; pungenti e molesti come la stessa cerniera che, partendo dalla spalla sinistra, univa i due lembi di lana fino alla cima dell'alto girocollo, tentando di pugnalarmi alla giugulare con il tirino in metallo.

    Durante la cattiva stagione uscire di casa nel pieno della notte per andare al bagno era un problema anche per i più grandi. Ogni componente della famiglia aveva il suo vaso da notte accanto al letto. L'urina rimaneva lì, di fianco al rispettivo proprietario. Nel caso di rifiuti solidi, il vaso veniva portato in quello spazio delimitato tra la porta d'entrata e la doppia porta a vetri che si apriva sulla zona giorno, dove vi era a malapena il posto per zerbino e portaombrelli. Al mattino, lo si svuotava nella turca comune.

    D'inverno, senza la boule dell'acqua calda era impegnativo anche entrare nel letto. La stufa a carbone posizionata nella zona giorno, riscaldava a fatica un solo locale. Mio papà, con un po' d'ingegno, aveva montato dei tubi per deviare parte del tepore anche in camera da letto. Una soluzione di fortuna e poco proficua, perché all'ultimo piano, il contatto diretto con il sottotetto, rendeva vita facile al freddo. Ad aggravare la situazione, il timore di Otello nei confronti del monossido di carbonio: la paura di morire per asfissia durante il sonno, lo portavano a spegnere la stufa prima di coricarsi, facilitando la discesa delle temperature.

    In ogni caso, nonostante le sue precauzioni, la stufa, anche se spinta a pieno regime, non sarebbe stata sufficiente a riscaldare quei pochi metri quadri.

    Negli anni '50 a Milano faceva davvero un freddo disumano. Ricordo i panni stesi la mattina sulla ringhiera, che mia madre riportava in casa all'imbrunire, intorno alle cinque del pomeriggio, completamente ghiacciati: i mutandoni di lana di Otello stavano in piedi da soli. Rigidi e gelati venivano appesi alle bacchette della stufa fissate intorno al tubo di sfiato.

    Freddo d'inverno e caldo d'estate: gli appartamenti dell'ultimo piano durante la bella stagione si trasformavano in forni di fusioni. L'aria si faceva irrespirabile, afosa, terribile, con livelli di umidità prossimi alla saturazione.

    Le donne più anziane del palazzo cercavano un po' di refrigerio scendendo in strada. Nel tardo pomeriggio, quando il sole attenuava il suo vigore, si accomodavano nel bel mezzo del marciapiede, sulle sedie portate da casa. C'era chi tagliuzzava ortaggi per la minestra della sera, chi ricamava all'uncinetto e chi, semplicemente, si godeva qualche folata di vento, la compagnia delle vicine o, semplicemente, il viavai del traffico serale.

    Dopo cena la scena si ripeteva, con l'aggiunta di un goloso particolare: l'anguria, messa a raffreddare qualche ora prima nei due corsi d'acqua che scorrevano in Viale Monza, tra il marciapiede e la strada, attirando anche gli uomini di famiglia e noi bambini.

    Estate o inverno che fosse, ci si lavava molto di rado. Il bagno era previsto una volta sola a settimana, la domenica mattina. Dopo aver acceso il fuoco, messo a scaldare l'acqua e preparato il tinello di legno, dentro il quale versava l'acqua bollente che sarebbe servita a tutta la famiglia, mia madre usciva di casa. Un salto in edicola a comprare giornali, riviste e le famose enciclopedie a fascicoli dell'epoca, stampate con l'idea di migliorare lo stato di alfabetizzazione della popolazione, poi, di nuovo a casa.

    Ancora in affanno per le rampe di scale appena fatte, procedeva con la distribuzione: a mio papà andava la Gazzetta dello Sport, a me il fascicolo di Capire, un'enciclopedia per ragazzi, e a mio fratello Vittorino il fascicolo di un'enciclopedia dedicata allo sport, che approfondiva tecniche e metodi di allenamento. La Wanda teneva per sé Grand Hotel.

    La domenica mattina passava velocemente tra colazione, letture e pulizie personali. Mentre uno leggeva, l'altro faceva il bagno. Era mio papà ad aprire le danze. Si lavava, si profumava, si metteva in ghingheri, indossava la camicia buona e la giacca della domenica, e scendeva in strada. Quattro chiacchiere con i soliti amici, poi, tutti dentro all'osteria, proprio in faccia al portone di casa, dalla parte opposta della strada. Rincasava per l'ora di pranzo, paonazzo e rosso in viso, in evidente stato di ebrezza.

    Dopo mio papà, era il turno di mio fratello. Io ero sempre l'ultimo a entrare nel tinello. Mia madre, invece, faceva il bagno in settimana, quando sola in casa.

    La Wanda è nata nel '23, a Milano, in un vecchio palazzo in Porta Romana. Era una bella donna, dai lineamenti delicati e dal fare aristocratico, fine, elegante, nonostante l'estrazione sociale di provenienza. Sin dalla più tenera età mostrò capacità intellettive sopra la norma, ragion per cui venne fatta studiare fino al conseguimento del diploma di terza media. Purtroppo, il pregiudizio, componente ben radicata nel tessuto sociale e popolare di quegli anni, la limitò precludendole molte possibilità. Ignoranza e malignità vanno di pari passo, e il fatto di essere cresciuta senza un padre le causò non pochi problemi.

    La colpa va al nonno che, una sera, nell'osteria sotto casa, fece conoscenza con un forestiero. Tra un bicchiere di vino e l'altro i due strinsero amicizia. Quel tipo di amicizie un po' così, borderline si direbbe oggi, che corrono sul filo del rasoio.

    Quando la percentuale di alcool in corpo saliva oltre misura, di solito erano due i rapporti che si potevano instaurare tra i clienti dell'oste: grandi pacche sulle spalle, abbracci e manifestazioni di affetto, oppure, insulti e botte da orbi; non era una rarità veder spuntare coltelli a serramanico e tirapugni.

    «Cosa ci fai qui?», aveva chiesto a un certo punto il mio bisnonno.

    «Ehhh... go no de durmì» [3].

    «Vai su. Abito lì davanti. Vai su che c'è posto. Dì a mia moglie che ti mando io... io rimango qua... finisco di bere».

    Voleva essergli d'aiuto ma sottovalutò la canaglia con il quale si era ritrovato a brindare, all'apparenza, una persona a posto.

    Quello, che di cognome faceva Crippa (brianzolo D.o.c.), senza farselo ripetere due volte, salì in casa e finì direttamente nel letto di mia nonna, ancora ragazzina e illibata, consumando i suoi porci comodi, i suoi istinti non repressi, senza troppi complimenti. Un abuso vero e proprio, un crimine che, allora, purtroppo, poteva essere messo a tacere con semplici minacce:

    «L'é meji che te parlet no! Altrimenti te tiret öna curtelada. Te copi!» [4], fu l'intimidazione di quel bastardo. Morale della favola: mia nonna rimase incinta, mentre il brianzolo farabutto continuò a bazzicare impunito il quartiere per molti anni ancora, anche dopo la nascita di mia madre, senza mai riconoscere sua figlia.

    Ripudiata dalla famiglia e allontana da vicini e conoscenti, mia nonna, per mantenere la nuova arrivata, fu costretta a rimboccarsi le maniche. Venne assunta presso la Siemens di Piazza Tripoli, potendo contare sull'aiuto della sola sorella per crescere la nuova arrivata.

    Mio papà, invece, è nato a Montemarciano, in provincia di Arezzo, nel 1915. Venne alla luce durante la Grande Guerra quando mio nonno Serafino era al fronte a combattere già da diversi mesi.

    Il fatto, prontamente distorto dalle insinuazioni maliziose delle malelingue del paese, finì per instillare il dubbio anche in mio nonno. Per quel motivo, Serafino non si dimostrò mai troppo affettuoso nei confronti del figlio Otello, ai suoi occhi illegittimo e immorale; gli serbò odio e rancore per tutto l'arco della sua esistenza.

    Otello e Serafino erano come cane e gatto. Difficilmente i due andavano d'accordo. Solo cinque minuti di ritardo sui consueti orari erano sufficienti per innescare furibondi litigi: Serafino vietava anche l'ingresso in casa.

    Era mia nonna Ada che, all'imbrunire, raggiungeva di soppiatto la stalla dei conigli, con gli avanzi della cena, dove sapeva rifugiarsi mio papà.

    Serafino, a parte la marcata antipatia per il figlio, era proprio matto. In paese era conosciuto da tutti con il soprannome di Burraschino (piccola burrasca), perché, ovunque andasse, trovava sempre il pretesto per alzare le mani, qualcosa o qualcuno con cui litigare. Dalla sua aveva un fisico asciutto, un fascio di nervi d'acciaio, muscoli tirati, tesi dalla fatica e dalla fame, e una forza sovrumana, fuori dal comune. Ancora oggi, a Montemarciano, sono in molti a ricordare storie e aneddoti su di lui, tramandati di generazione in generazione.

    Il più celebre racconta di un gruppo di uomini, tutti di Montemarciano, che, intorno alla fine degli anni '30, partì per la Svizzera in cerca di lavoro. Erano periodi grami, avidi. Quegli uomini mostravano i segni della malnutrizione, della miseria. Spaventosamente magri e ossuti, con il loro incedere ricurvo, dimesso e passivo cercavano di celare visi emaciati, solcati dalla disperazione.

    «Qui cerchiamo uomini forti, gente con i coglioni. Di voi non sappiamo cosa farcene», disse uno dei capicantiere interpellati, l'elvetico più sfrontato, quello più stronzo.

    «Noi sappiamo lavorare. Sappiamo costruire, ma ci possiamo accontentare anche della manovalanza, delle impalcature», replicò il portavoce del gruppo.

    «Ma dove volete andare che non vi reggete neanche in piedi: guardatevi! Tornatevene in Italia».

    «Siamo abituati a tutto. La fatica non ci spaventa. Lavoriamo sin da piccoli, fateci fare qualcosa».

    «Non ho tempo da perdere con voi... andatevene».

    «Ci metta alla prova!».

    «Mi prendi in giro? Ho detto che non ho tempo da perdere...».

    «...ci dia almeno un'occasione per dimostrarle quel che sappiamo fare... non se ne pentirà».

    «Ah ah ah! Va bene, ho capito. Volete farmi ridere. Ora vi accontento io. Vediamo un po'... dite di essere forti e robusti? Bene, allora dimostratemelo. Si faccia avanti il primo di voialtri in grado di sollevare quell'incudine lì!», sfidò il gruppo, con aria provocatoria, indicando una grossa incudine adagiata sopra un bancale di legno.

    Il portavoce del gruppo indietreggiò. Un ghigno beffardo si delineò sul viso dello svizzero:

    «Mi avete detto che siete pronti a tutto, non dovrebbe essere un problema, per nessuno di voi! Giusto? Allora, chi è il primo?».

    «Se gliela fai te, gliela fò pur'io» [5], intervenne Burraschino, che fino a quel momento era riuscito a controllare il suo impeto.

    «E tu chi sei per parlarmi così?».

    «Becero di nulla, fammi vedere come te tu l'alzi. Poi lo fo' anch'io. Secondo me un 'gliela fai!» [6].

    Al che, i lavoratori del cantiere, ascoltando le parole di Burraschino si fermarono incuriositi. Lo svizzero ora aveva gli occhi di tutti puntati addosso, non poteva più tirarsi indietro con una semplice offesa, con una battuta.

    Prese coraggio, si avvicinò al blocco d'acciaio, puntò i piedi in terra, si chinò verso l'incudine e, cingendola con le braccia e il petto, l'afferrò, cercando con tutte le sue forze di alzarla da terra.

    «Uuuggghhhhhhh...», un verso gutturale, primitivo, dovuto allo sforzo, rimbombò nella gola del capocantiere prima di echeggiare nell'aria, senza riuscire a spostare quel pesante oggetto neanche di un po'.

    Allora, la lasciò per un attimo e si girò con aria di sfida verso Burraschino che, a sua volta, tenendo le mani in tasca, lo guardava fisso negli occhi. Si tolse la giacca, sbuffò, arrotolò le maniche della camicia e, rosso in viso, si avvinghiò con ancora più convinzione all'inerme pezzo di acciaio. Lo strinse con forza e iniziò a tirare con tutta l'energia che aveva in corpo. Un urlo secco e sgraziato squarciò il silenzio di quel cantiere, accompagnando l'inutile tentativo dello svizzero che fallì clamorosamente.

    «Ah Ah Ah, ndò tu c'hai la forza? Scansati bischero, ora ti fò vede come sto secco rifinito d'un Burraschino ti s'alza il ferro» [7], esclamò mio nonno, rivolgendosi verso lo sconfitto imbufalito.

    Inutile dire come andò a finire: Serafino sollevò l'incudine, con fatica, ma la sollevò.

    «Oh nàcchero, ma chi tu credi di piglia’ pe’ i’ culo? Grullo d'un grullo, noi si va via. Tu, invece, va un pohino a pigliallo 'n culo, vai!» [8], furono le parole con cui si congedò mio nonno, seguito da tutti gli altri.

    Mio nonno faceva il birocciaio, un lavoro molto faticoso e poco remunerativo. Prendeva i sassi dalla riva del fiume, dall'Arno, li caricava sul suo carretto trainato da un solo somaro e si metteva in marcia, portando le pietre a chi le aveva richieste, generalmente muratori. Nonostante avesse un podere con un po' di terra da coltivare, conigli, pollame e qualche mucca, Serafino aveva sempre rifiutato il lavoro nei campi. Preferiva spaccarsi la schiena caricando pietre sul suo carretto. Mio papà iniziò a dargli una mano molto presto, fino al momento in cui, a quel lavoro duro e massacrante, preferì la bottega del falegname del paese. A scuola, Otello non si è mai distinto per capacità e impegno; non ci andava quasi mai. Tuttavia, pur marinandola con ammirabile frequenza, riuscì ugualmente a concludere la seconda elementare. Un risultato incoraggiante in quegli anni. Poi, incominciò subito a lavorare. Lavorava per necessità, andava in bicicletta per passione. Le corse in bicicletta erano il suo più grande amore. Si iscrisse alla prima società corse intorno ai sedici anni. Andava molto forte. Si allenava con Gino Bartali, che all'epoca era ancora un dilettante, ma già famoso per le qualità che lo avrebbero portato alla ribalta mondiale, e con Aldo Bini, conosciuto ai più con lo pseudonimo di Duca di Montemurlo, acerrimo nemico di Bartali e grandissimo talento.

    «Il 1933 è stata la stagione in cui è esplosa clamorosamente la rivalità con Bini. Finì che io facevo la corsa su Aldo e lui su di me senza curarsi degli altri. Nel Campionato Italiano a Padova, ad esempio, fui secondo battuto da Boffo. Per me, però, fu più importante battere in volata Aldo Bini, terzo all’arrivo», aveva ammesso Bartali, in una delle tante interviste dell'epoca, a testimonianza dell'innegabile rivalità con il Duca di Montemurlo.

    Otello si allenava anche con Adalino Mealli [9], il vecchio, il capostipite della famiglia Mealli.

    Corse con i più grandi ma, per uno strano scherzo del destino, non riuscì mai a raggiungere i risultati che si sarebbe meritato, a ottenere quello che altri, magari meno dotati di lui, furono in grado di conquistare. Non riuscì a fare di una passione un lavoro, pur avendo tutte le carte in regola.

    Era duro, coriaceo, instancabile, dotato di una fibra muscolare straordinaria, forte come quella del padre, dal quale l'aveva ereditata. Correva e si allenava senza regalare niente a nessuno.

    Una testa matta, esattamente come il padre. Se avesse corso in quel modo al giorno d'oggi, con l'approccio alle gare, scientifico e calcolato, che caratterizza il ciclismo moderno, probabilmente avrebbe ottenuto ancor meno di quanto fatto all'epoca, rimediando crisi muscolari una via l'altra. Ma su quelle salite là, dove si allenavano i più grandi, dove a prevalere non erano le tattiche di gara, il controllo della frequenza cardiaca o gli aiuti della chimica, bensì il cuore, le gambe e l'ardore del singolo, non ce n'era per nessuno: andava forte per davvero.

    Sin dal debutto, sin dalle primissime gare, ovunque andasse era sua abitudine guadagnarsi il podio, arrivando costantemente tra i primi tre. Doveva. Era costretto a vincere: l'unico modo per ottenere la diaria. Quei pochi spiccioli, a gara conclusa, gli avrebbero permesso di mangiare qualche cosa ripagandosi anche le piccole spese sostenute per la trasferta.

    Copriva le distanze che lo separavano dal via della corsa in bicicletta, l'unico mezzo a disposizione. Quaranta, a volte cinquanta e più chilometri, prima di raggiungere il luogo della partenza che lui sfruttava per scaldarsi. Correva, vinceva e poi si rimetteva in viaggio verso casa, pedalando per altrettanti chilometri.

    Gare toste, d'altri tempi, mai semplici e scontate, fatte di salite spaccagambe, di continue variazioni altimetriche, il suo pane quotidiano.

    Il vantaggio sugli avversari era tale da permettergli di assecondare anche i morsi della fame, un problema reale in quegli anni, obbligato a effettuare brevi soste alla ricerca di qualcosa da mettere sotto ai denti: noci, castagne, frutta di stagione e tutto quello che poteva raccogliere lungo la strada, durante la corsa.

    Erano gli anni del ciclismo nazionalpopolare, lo sport per eccellenza, più seguito del calcio. Tifo e attaccamento alla maglia erano viscerali, sentiti, e la rivalità forte, accesa. Quando andava a correre, sconfinando dalla provincia di Arezzo a quella di Firenze, di Siena o, peggio ancora, di Grosseto, era costretto a prestare molta attenzione, oltre alla corsa, anche ai possibili agguati da parte dei tifosi più irascibili e rissosi. Doveva difendersi dai tifosi dei campioncini locali, Hooligans fatti e finiti, che molto spesso prendevano nel modo sbagliato le sconfitte dei propri idoli sfogandosi sul colpevole. E allora erano botte da orbi. Ma Otello era capace di difendersi, sia da loro, sia dai simpatizzanti politici, più subdoli e meschini.

    La Toscana di quegli anni era tutta nera. Il fascismo toscano, sopratutto a Firenze, fu caratterizzato da toni particolarmente violenti e brutali. Accanto agli intellettuali, protagonisti dell'attivismo culturale del movimento, vi erano squadristi e militanti reclutati anche dai bassifondi. Non essere iscritto al fascio comportava una serie di rischi, tra i quali la solita strigliata fatta di insulti e legnate, somministrata dai militanti più esagitati. Si rischiavano le bastonate e mio papà, che iniziava a essere conosciuto, sia per il talento che dimostrava sui pedali sia per le vicende famigliari, risultava un bersaglio facile da individuare anche in terra straniera.

    Lo consideravano una testa calda, un attaccabrighe come il padre Burraschino, un tipo sostanzialmente da evitare. Una persona strana, difficile da contestualizzare, da omologare, perché non schierata.

    Mio papà era un compagno, rosso fino al midollo, un comunista ma senza la tessera del partito. Conosceva i giochi di potere in cui sguazzava la politica e non li accettava. Lui era duro e puro, provava nausea e ribrezzo per i vertici del partito. «Vigliacchi senza palle», li chiamava.

    «Quello lì è Otello. Quello di Montemarciano che va forte in bicicletta. Sì, però, è uno un po' così. Uno strambo. Un po' matto», sussurravano i più, alla moglie, al figlio, all'amico, quando lo incrociavano per strada.

    «Quello è il figlio di Burraschino. Dice di essere un compagno, ma non è iscritto al partito», ripeteva la gente.

    Approdato a Milano, qualche anno prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, trovò impiego come manutentore, prima presso l'Hotel Gallia, successivamente, al Continental, due strutture alberghiere d'eccellenza, appartenenti alla medesima proprietà. Aggiustava le tapparelle in legno e restaurava i mobili antichi, di valore, pezzi pregiati che arredavano le camere e le suite più sontuose. Fu l'insistenza dello zio Dante, anche lui trasferitosi a Milano dalla Toscana, a convincerlo di lasciare quell'occupazione per dedicare anima e corpo alla bottega di famiglia, in Via delle Leghe. Io mi chiamo Dante proprio in onore di quello zio.

    Poi arrivò la guerra, brutto periodo per tutti. Mio papà dovette abbandonare il lavoro e partire di fretta e furia, richiamato alle armi, in fanteria, lasciando la bottega, le commesse iniziate e mai portate a termine.

    Prima in Piemonte, sul fronte occidentale, poi in Veneto e infine a Civitavecchia, dove venne costituito il reggimento da inviare in Albania, destinazione Tirana. Da lì, il fronte e lo scontro diretto con il nemico.

    Ma non gli ci volle molto per capire come funzionavano le cose: gli italiani scappavano, indietreggiavano, per nulla convinti di combattere per l'onore e per la patria. Volevano solo salvare la pelle e, fondamentalmente, non gliene fregava proprio un cazzo della madrepatria.

    «Non sarò io l'unico grullo che ci 'asca!» [10]. Mio papà, come la maggior parte dei suoi commilitoni, cercò gli stratagemmi più terribili per evitare il fronte.

    L'espediente più efficace, più utilizzato dai soldati, era il congelamento degli arti inferiori, dei piedi.

    Dovevano far davvero paura le brutture e le atrocità di quella guerra, per avere il coraggio di togliersi scarpe e calze doppie e appoggiare i piedi, già tormentati dal freddo, vicino al fuoco acceso prima di immergerli nella neve e cercare così il congelamento. Quei piedi neri, cianotici, diventavano il lasciapassare per l'infermeria presidiaria di Durazzo. Una tregua momentanea dall'inferno del fronte. Lì, Otello ebbe la fortuna di incontrare un capitano che, venuto a conoscenza della sua professione da civile, lo portò con se al comando per prendersi cura dello scarno arredo del primo posto. Incominciò a riparare tavoli, sedie ma, con l'arrivo dei tedeschi, fu costretto a costruire anche le casse da morto per gli ufficiali caduti in guerra.

    «Un periodo terribile», raccontava spesso mio papà. «Ero sempre sul chi va là, sempre con la paura di poter essere ucciso da un momento all'altro... quando uno di loro moriva, era una tragedia. Urlavano parole incomprensibili, piangevano, si disperavano. Nelle cerimonie funebri salutavano il defunto con rabbia, con odio. Il desiderio di vendetta si poteva toccare. Avrebbero anche potuto spararmi in testa, a bruciapelo, mentre richiudevo una delle loro bare...».

    I tedeschi consideravano gli italiani dei traditori, degli idioti senza onore, incapaci di contenere gli attacchi nemici sul fronte albanese.

    In fondo, non fossero arrivati a dar manforte, l'Italia avrebbe oggi un altro nome, un'altra storia.

    Come mi raccontò per anni Otello, i caduti in guerra, non furono eroi disposti a sacrificare la propria vita per la patria; più semplicemente, erano soldati impauriti, indeboliti dai decenni di crisi e miseria che seguirono la fine della Grande Guerra, che cercavano solo di sopravvivere. Uomini che non avevano nessuna intenzione di combattere, di sacrificarsi, consci del loro stato di salute, uno stato psicofisico precario e debilitato, consapevoli dell'inadeguatezza dei propri equipaggiamenti. Persone, figli, mariti, padri di famiglia, che cercarono la salvezza retrocedendo, scappando, senza intenzione alcuna di misurarsi e di lottare con il nemico. Soldati che si ritiravano, che venivano presi prigionieri e poi uccisi, ma in tutt'altra maniera rispetto a ciò che i libri di storia raccontano; pochi i morti in battaglia veri o, comunque, molti meno di quanto si possa credere.

    Da Durazzo venne poi trasferito in Calabria, a Villa San Giovanni e lì vi rimase fino a quando non gli giunse voce che a Pisa erano alla ricerca di militari da formare per il corpo dei paracadutisti. Pisa, in Toscana, vicino a casa. Non ci pensò due volte. Fece domanda, fu accolta, e venne trasferito ma, concluso il periodo di addestramento arrivò di nuovo la chiamata per il fronte. Messo alle strette, con la scusa di violenti dolori alle gambe trovò il modo per farsi ricoverare presso l'ospedale militare della città, dove fu operato alle vene varicose.

    Era ancora in degenza quando, l'8 settembre del 1943, il maresciallo Pietro Badoglio, Capo del Governo e maresciallo d'Italia, dai microfoni dell'EIAR [11] annunciò l'armistizio, firmato segretamente con gli alleati angloamericani cinque giorni prima, dando inizio al periodo di resistenza contro i tedeschi che occuparono l’Italia centrosettentrionale liberando Mussolini.

    Mio papà, dimesso dall'ospedale e ancora convalescente, scappò a Montemarciano per poi tentare di raggiungere Milano in qualche modo. La Resistenza fu il periodo più terribile di tutta la seconda guerra mondiale. I tedeschi andavano a caccia di italiani, erano affamati di vendetta. I partigiani, a loro volta, si vendicarono uccidendo fascisti e collaborazionisti, o presunti tali.

    Alle porte di Milano, che stava raggiungendo a piedi confuso tra gli altri civili, incappò in un posto di blocco. Una squadra di cinque soldati tedeschi con il fucile in mano scrutava il flusso di uomini feriti dalla guerra e dalla miseria, donne consumate dalla paura e bambini tristi, sporchi, affamati, infreddoliti e tremanti,

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