Il potere della disinformazione
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Società e scienze sociali - saggio (177 pagine) - Che cos’è la disinformazione? Una carrellata sulle metodologie e sulle tecniche usate da chi informa al contrario.
Che cos’è la disinformazione, quali obiettivi si prefigge e quali metodologie e tecniche sono utilizzate per fare disinformazione? Che differenza esiste fra la disinformazione programmata dai servizi di intelligence e le bufale e le fake news che troviamo in rete? E possiamo davvero difenderci da essa oppure è una battaglia persa in partenza? Una breve carrellata delle metodologie e delle tecniche usate da chi fa disinformazione e di come viene applicata in rete e quali siano le minacce che gravano sul web oggi e come possiamo fare a sventarle.
Consulente nel campo della gestione della conoscenza e del cambiamento, esperto di metodologie per la risoluzione di problemi e per l’applicazione di processi decisionali, scrittore di romanzi e racconti, saggista, laureato in fisica delle particelle, ex-ricercatore al CERN e a Stanford, Dario de Judicibus si occupa da oltre trent’anni di come le tecnologie influenzino la cultura e di come quest’ultima determini l’adozione o meno di specifiche tecnologie.
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Anteprima del libro
Il potere della disinformazione - Dario de Judicibus
A tutti coloro che amano la conoscenza
e la libera condivisione del sapere
Prefazione
Quando ero ragazzo mi ponevo continuamente domande su ogni cosa. Trovare le risposte non era tuttavia né semplice né soprattutto rapido. Le fonti erano poche e per lo più cartacee. In primis l’enciclopedia. Chi se lo poteva permettere ne aveva una, magari ereditata dai genitori. Non costava poco, infatti, ma era una presenza fondamentale nella libreria di chiunque amasse la cultura. Quindi i libri. Non parliamo ovviamente di antologie e romanzi ma di saggi: saggi di storia, di geografia, di viaggi, di economia, di sociologia e di qualsiasi altra materia sulla quale fosse stato scritto qualcosa, scientifica, artistica o umanistica. In genere, ognuno aveva solo quei volumi che riguardavano i propri interessi o la propria professione. Per tutto il resto c’erano le biblioteche pubbliche. Chiaramente, fare una ricerca non era una questione di minuti e a volte neppure di ore; spesso ci volevano giorni, bisognava andare in luoghi diversi e copiare a mano ciò che si trovava, anche perché non era sempre permesso fare fotocopie. Tutto ciò dava valore alla ricerca, perché aveva richiesto tempo e impegno; quindi si faceva attenzione alla qualità delle fonti, si incrociavano i dati, ci si prendeva tutto il tempo necessario per ragionare, per confrontare fatti e opinioni diverse. Naturalmente tutto ciò era possibile solo in quei campi nei quali si aveva una certa competenza. Per tutto il resto bisognava fidarsi di ciò che si trovava. Tenete a mente questo punto, perché è fondamentale, come vedremo nel proseguo.
Oggi lo scenario è completamente cambiato. Qualunque cosa ci venga in mente, verificarla è questione di secondi: basta avere un cellulare e fare una ricerca in rete. La capitale del Madagascar? Antananarivo. La popolazione della Guyana Francese? 294.071 persone a gennaio 2021. L’anno di morte di Lord Byron? Il 1824. Il numero atomico dell’iridio? 77. Persino brani musicali, foto e filmati possono essere trovati in pochi secondi se si sanno impostare bene i criteri di ricerca. Un sogno, se si pensa quanto tempo richiedesse anche solo venti anni fa trovare le stesse informazioni e soprattutto se si pensa che lo si può fare in qualunque momento – di giorno e di notte – e in qualunque luogo ci si trovi. Niente orari, nessun problema logistico.
Unica incognita, non sempre si sa quali siano le fonti. I motori di ricerca, infatti, si limitano a pescare in rete le informazioni, ma raramente distinguono tra una fonte affidabile e una che non lo è. In realtà vengono fatti dei distinguo ma, come vedremo, non sono basati necessariamente sugli stessi criteri di qualità che si usavano in passato. Inoltre non è sempre chiaro chi per primo abbia immesso un certo dato in rete e quindi chi sia la fonte primaria. Resta il fatto che oggi tutta questa informazione è a disposizione praticamente di tutti e non solo di chi poteva permetterselo o aveva un certo livello culturale. Sembra una bella cosa e, sotto un certo punto di vista, lo è, ma c’è il rovescio della medaglia, come vedremo, perché dati e informazioni sono una cosa, la conoscenza è un’altra.
Tutto ciò che avviene in rete, tuttavia, non è qualcosa di completamente nuovo, ovvero, molti dei meccanismi che ogni giorno osserviamo nella rete, avvenivano anche prima della comparsa di Internet, solo che succedeva su scale molto ridotte e su tempi molto più lunghi. Il web è una sorta amplificatore e, come tutti gli amplificatori, non si pone il problema se ciò che sta amplificando sia vero o falso, giusto o sbagliato, socialmente accettabile o no. In effetti i veri amplificatori almeno si preoccupano di ridurre il rumore di fondo; la rete no, anzi, spesso è proprio quello che prende il sopravvento. Resta il fatto che mentre alcuni meccanismi sono fisiologici alle interazioni umane e in un certo senso inevitabili, altri, invece, sono il risultato cosciente di azioni da parte di individui e gruppi con interessi ben precisi. E qui entra in gioco la disinformazione.
Lo scopo di questo volumetto è appunto comprendere meglio come funzionino questi meccanismi e perché siano così efficaci e soprattutto acquisire consapevolezza di come sia tutt’altro che facile difendersi da essi, che si abbia solo la quinta elementare o si sia un premio Nobel. Anzi, spesso sono proprio le persone più competenti e preparate quelle che finiscono per cadere nella trappola della disinformazione.
Vedremo infine cosa stia succedendo in questi ultimi anni e come si stanno muovendo i grandi gruppi di interesse per sfruttare al massimo questi meccanismi e perché.
Cos’è la disinformazione?
Che cos’è quindi la disinformazione, quali obiettivi si prefigge e quali metodologie e tecniche vengono utilizzate per fare disinformazione? Viviamo in una società che ci bombarda continuamente con informazioni di ogni tipo attraverso decine di canali differenti: giornali, televisione, internet. Quante di queste informazioni sono attendibili? Come facciamo a riconoscere quelle che non lo sono e, soprattutto, perché non lo sono? Buona fede, mala fede, superficialità o vera e propria strategia? Insomma, cosa c’è davvero dietro la disinformazione? Cos’è e soprattutto: perché esiste?
La disinformazione è una branca della scienza della comunicazione che si prefigge lo scopo di manipolare l’informazione in modo da generare in un gruppo specifico di soggetti una specifica opinione modificando, rafforzando o indebolendo quelle attualmente esistenti.
Come tale, essa utilizza soprattutto due discipline: la psicologia, in particolare in relazione ai processi cognitivi, e la sociologia, soprattutto per quello che riguarda le interrelazioni sociali, la comunicazione e la diffusione della conoscenza.
Si tratta quindi di una scienza che tuttavia richiede una buona attitudine alla creatività, ovvero è in un certo senso anche un’arte.
Prima di andare avanti, è opportuno tuttavia chiarire alcuni termini, in particolare chiarire la differenza fra dato, informazione e conoscenza.
Un dato è una descrizione codificata di qualcosa. Come tale è generalmente decontestualizzato. Ad esempio, se dico 7°C sto fornendo l’indicazione di una temperatura, ma non sto dicendo a cosa quel valore si riferisca. La temperatura dell’aria? E quando? A che ora? Dove? Se dico le sette e mezza, probabilmente sto dando un orario, ma stiamo parlando di mattina o pomeriggio? E in relazione a cosa sto fornendo questa indicazione? Ecco allora che se contestualizzo un dato ho quella che si chiama informazione. Domattina, alle sette e mezza, si prevede una temperatura media di 7°C nella Capitale. Un’informazione, tuttavia, è del tutto scollegata dall’esperienza e dall’attività cognitiva, ovvero di comprensione, di un essere umano. Sarà vero o falso quello che ho detto? È ragionevole? Verosimile? È già successo? Se la Capitale in questione è Roma e siamo al 10 di agosto, magari qualche dubbio mi verrà sul fatto che la temperatura media alle 7:30 di mattina possa essere sotto i 10°C, anche se teoricamente non è impossibile. La capacità della mente umana di correlare fra loro informazioni ed esperienze pregresse produce quella che si chiama conoscenza.
Ma a cosa serve la conoscenza? Se escludiamo quei rari casi e individui che amano la conoscenza in quanto tale, lo scopo primario della conoscenza è quello di prendere decisioni. Ogni volta che noi prendiamo una decisione, che sia cosa mangiare a pranzo o se accettare una proposta di matrimonio o di lavoro, lo facciamo mettendo a confronto ciò che desideriamo, temiamo, pensiamo, con ciò che sappiamo. È la famosa battaglia della testa contro il cuore, o della ragione contro la passione.
Torniamo alla disinformazione. Un’opinione è generalmente il risultato di una serie di processi razionali e irrazionali. Parte nasce dalla logica, parte dalla fede o comunque da ciò in cui si crede o si vuole credere, ad esempio i valori che ci caratterizzano. A volte la componente razionale è solo di supporto a quella irrazionale, a volte è prevalente. In ogni caso esistono sempre entrambe. Mentre la conoscenza si dà come qualcosa di assodato, un’opinione può esistere a prescindere da riscontri oggettivi. Ad esempio, noi sappiamo che la maggior parte dei migranti sono individui che fuggono da condizioni di vita difficilissime, spesso al limite della sopravvivenza. Che siano tutti brava gente o meno, tuttavia, è materia d’opinione. Alcuni la pensano in un modo, altri nel modo opposto, ma entrambi si basano sia sui fatti che su una serie di assunti, spesso legati a una scala valoriale o a un qualche fattore culturale. Conoscenze e opinioni spesso sfumano l’una nell’altra ed è proprio su questo confine che gioca la disinformazione.
Diventa chiaro a questo punto perché esista la disinformazione. Se questa è funzionale a manipolare le opinioni e a spostare l’asticella fra ciò che noi consideriamo semplice opinione o conoscenza acquisita, e se queste servono principalmente a prendere decisioni, è chiaro che la disinformazione ha come obiettivo primario quella di orientare le decisioni di un gruppo più o meno vasto di persone. Perché? Ovviamente per trarne vantaggio.
La disinformazione può quindi focalizzarsi su un gruppo ristretto di persone le quali possono essere più o meno in grado di influenzare a loro volta altre persone; oppure colpire un segmento specifico dell’opinione pubblica, ad esempio tutti coloro che hanno una particolare fede religiosa o che vivono in una particolare nazione. Grazie al web, oggi è possibile fare disinformazione persino a livello globale, anche se in realtà l’efficacia di un’azione di disinformazione dipende fortemente da fattori ambientali e culturali e quindi difficilmente il suo effetto potrà essere uniforme se consideriamo tutta la popolazione del pianeta.
A questo punto è necessario fare subito una precisazione, prima di andare avanti, perché su questo punto si gioca molto della capacità della disinformazione di essere o meno efficace.
Molto spesso pensiamo che se uno crede in una bufala
, come vengono spesso chiamate alcune forme di disinformazione spicciola
in rete, è perché sia scarsamente intelligente, abbia un basso livello di cultura o una mentalità particolarmente ristretta. Ovviamente questi aspetti facilitano la diffusione di una notizia il cui scopo è disinformare, ma una buona azione di disinformazione è in grado di ingannare anche le persone più intelligenti, con il più alto livello di cultura e spirito critico. Basti pensare che nel campo del controspionaggio la disinformazione ha l’obiettivo di ingannare gli analisti dell’agenzia di intelligence avversaria. Se possono essere ingannati loro, allora chiunque di noi può cadere nelle maglie della disinformazione. Non dimenticatelo mai, perché la prima debolezza su cui la disinformazione gioca è la convinzione di essere immuni da questo tipo di manipolazione.
Finora abbiamo parlato di disinformazione: abbiamo detto che lo scopo che si prefigge è quello di manipolare l’informazione in modo da generare in un gruppo specifico di soggetti una determinata opinione e quindi orientarne le decisioni per trarne un qualche vantaggio.
Adesso parliamo di verità. Cos’è la verità? Esistono molte definizioni di verità. Alcuni affermano che qualcosa sia vero solo se trova una corrispondenza oggettiva nella realtà. Altri si focalizzano sul concetto di coerenza, ovvero una cosa è vera se non è in contraddizione con tutta una serie di altre cose che si considerano vere. Altri ancora parlano di consenso, ovvero un’affermazione è vera se all’interno di un certo ambito tutti sono d’accordo che è tale; di praticità, ovvero se l’applicare ciò che si crede vero porti a un risultato concreto; di relazioni sociali, ovvero è vero ciò che, chi ha potere in una società, stabilisce essere tale.
In linea di massima tutte queste definizioni hanno una loro ragione d’essere ma, se vogliamo studiare la verità da un punto di vista concreto, ci serve una definizione operativa, con la quale si possa effettivamente lavorare in termini di logica.
Se analizziamo tutte le definizioni riportate sopra, vediamo che hanno tutte in comune una cosa: un punto di riferimento. I realisti
hanno come riferimento ciò che ci circonda mentre i coerentisti
si rifanno alla conformità a un modello; analogamente, chi si basa sulla teoria del consenso ha come riferimento le opinioni della maggioranza o di una categoria di esperti, mentre i pragmatisti
si concentrano sull’utilità. Potremmo andare avanti per ore, analizzare altre definizioni, ma alla fine la conclusione è sempre la stessa: qualunque definizione scegliamo di verità, essa nasce sempre dal confronto fra un’affermazione e qualcos’altro. Potremmo quindi dire che qualcosa è vero se si verificano una serie di condizioni definite a priori: l’essere reale, il non contraddire degli assunti, il rispettare una certa procedura, e via dicendo.
A seconda del sistema di condizioni adottato, possiamo avere verità di tipo differente: Leibniz distingueva fra verità di ragione e verità di fatto; Gödel fra verità, legata alla semantica, e dimostrabilità, legata alla sintassi; il metodo scientifico invece utilizza il principio di falsificabilità.
Troppo complicato? Forse. Proviamo a semplificare domandandoci come stabiliamo noi, se qualcosa è vero o falso. Generalmente questo avviene attraverso uno o più passaggi. In particolare possiamo identificarne tre.
Nel primo, confrontiamo la presunta verità con ciò in cui crediamo, ovvero i valori su cui basiamo la nostra esistenza. Questo è il primo passaggio quasi per tutti, anche per un ricercatore o una ricercatrice che apparentemente userebbe prima il metodo scientifico. In realtà anche lui o lei ha fatto questo passo, dato che crede in quel metodo. Infatti il metodo scientifico non è dimostrabile scientificamente ma attiene alla filosofia, tant’è che il principio di falsificabilità su cui si basa è stato inventato da un filosofo, ovvero Karl Popper, non da uno scienziato.
Nel secondo, operiamo un confronto con ciò che sappiamo o comunque riteniamo di sapere. Una cosa è vera se ci corrisponde, ovvero se è coerente con ciò che già sappiamo: la nostra conoscenza, la nostra esperienza, il nostro vissuto, così come quello che ci è stato trasmesso da chi ci sta intorno e che riteniamo affidabile. Questo aspetto è importante perché ci dice che il mondo che ci circonda non è uniforme in termini esperienziali, ovvero le nostre esperienze dirette spesso hanno un peso maggiore di quelle indirette perché studiate sui libri o apprese da altri. È un po’ quello che succede con i terrapiattisti: in fondo la nostra esperienza sensoriale diretta è che la Terra sia piatta, quindi perché dovrebbe essere rotonda? Certo, fossimo nati su una stazione spaziale in orbita, la nostra esperienza sarebbe stata del tutto differente, ma non per questo più oggettiva
. Uno spaziale
probabilmente non comprenderebbe cosa sia in effetti la gravità. Torneremo sull’argomento.
Nel terzo passaggio verifichiamo quell’affermazione con un qualche metodo o processo. Questo terzo passo richiede un certo impegno e quindi non tutti l’applicano. Mentre il primo è quasi istintivo; il secondo ci è proprio in quanto esseri dotati di ragione; il terzo necessita di una qualche motivazione in quanto implica uno sforzo, del tempo e a volte una spesa in termini economici o di risorse. In pratica, il terzo passaggio è quello della ricerca, della verifica, dell’investigazione, dell’analisi.
È chiaro quindi che il poter affermare che qualcosa sia più o meno vero dipende (1) dalle condizioni che ho scelto di adottare come banco di prova di un’affermazione, (2) dalla completezza delle informazioni che ho, ovvero dalla possibilità di verificare nel modo più completo possibile tali condizioni. Tenete bene a mente questi due aspetti, perché è proprio su questi che gioca la disinformazione.
Prima ho detto più o meno vero
. In effetti c’è un terzo aspetto da considerare. A parte affermazioni estremamente semplici e lineari, nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a qualcosa che può essere vero solo in parte. Anche questa caratteristica è molto sfruttata dalla disinformazione perché spesso una verità al 90%, diciamo, viene percepita come una verità assoluta, ovvero quel 90% rende vero
anche