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Tra le spine
Tra le spine
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E-book411 pagine6 ore

Tra le spine

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Info su questo ebook

Pubblicato nel 1869 dall'editore milanese Treves, "Tra le spine" è il secondo libro scritto dal romagnolo Cesare Donati. Antonio Fallini, detto Patroncio, è stato seminarista e soldato napoleonico, pizzicagnolo e vinaiolo, ma ora è soltanto l'ombra di sé stesso, un uomo in preda all'alcolismo che non controlla più il proprio comportamento. Una sera, sotto i fumi dell'alcol, aggredisce una ragazza con una neonata fra le braccia, provocando involontariamente la morte della bambina. È da questo fattaccio che prende le mosse una storia di fame e miseria, di amori intensi e ostilità risolte in violenza. Con uno stile garbato e intriso di ironia, Donati confeziona un romanzo di ambientazione umile, in cui però la speranza è sempre l'ultima a morire. Una lettura imperdibile per chiunque voglia riscoprire uno degli autori più interessanti dell'Ottocento italiano. -
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2022
ISBN9788728419502
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    Anteprima del libro

    Tra le spine - Cesare Donati

    Tra le spine

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1869, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728419502

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    ALLA SUA ANNETTA

    DI NOBILI SENSI ISPIRATRICE

    QUESTO VOLUME

    SEGNO DI AFFETTO

    CHE PER TEMPO

    NON MUTA

    NÈ PER EVENTI

    L’AUTORE OFFRE

    I.

    Antonio Patroncio e Santo Noè suo protettore.

    Se Antonio Fallini, detto Patroncio, fosse nato in terra d’infedeli, poniamo, a Medina o Bagdad, sarebbe stato forse la miglior pasta d’uomo che fosse mai, e diciamo forse perchè certezza non v’è. Venendogli diritto diritto da Dio il divieto di bever vino può darsi, ragioniamo noi, ch’ei si fosse contentato di masticare il suo oppio, di meditare sulla decadenza dei figli d’Omar, e fare di tanto in tanto il santo pellegrinaggio alla Mecca. Nato in Europa, anzi in Italia, dove, a sentir noi, la civiltà, tornò di casa avanti la creazione del mondo e non ha più sgomberato, Antonio Patroncio doventò un omaccio. Invece di pellegrinare alla Mecca per accaparrarsi un posto in paradiso, ei pellegrinava spesso e volontieri all’Osteria del Gallo d’oro, dov’era per consueto il vino migliore della città; in luogo dell’oppio che tanto giova a chi vuol vivere fra’ sogni dorati, ei masticava certo tabaccaccio delle fabbriche regie che gli faceva veder tutto in nero.

    In quanto al resto ei si conduceva in guisa da passare presso le comari del vicinato per uomo pericoloso.

    Fatto è che quando aveva bevuto doventava intrattabile; e poichè assai di sovente egli alzava il gomito, assai di sovente non era da far conto su lui. In qualche lucido intervallo, allorchè la spranghetta della sera antecedente non era subito subito ribadita da una nuova sbornia, se aveste domandata ad Antonio la camicia ei se la sarebbe levata per coprirvene; se gli aveste chiesto l’ultimo soldo per isfamarvi, ei senza esitare se ne sarebbe privato, quando anche non avesse mangiato da ventiquattr’ore.

    Questi lucidi intervalli erano ben rari, e non appartennero veramente che alla gioventù d’Antonio. Chi avesse la malinconia delle similitudini, potrebbe dire che i sentimenti gentili e delicati nacquero e crebbero in lui come fiore nella melma che dalla mattina alla sera non ne rimane traccia. Ma passi pure che Antonio avesse dimenticato da lunga pezza come si faccia per essere gentili e delicati, e affettuosi e compassionevoli. Passi pure che in certi giorni la tasca, asciutta come l’esca, gli togliesse quel salutare timore del codice penale, che in tanta gente di questo mondo tien luogo mirabilmente di tutte le virtù cardinali e teologali. Che volete? Se tutti fossero galantuomini sulla terra, non si saprebbe più come andar innanzi; e dato che birbanti vi debbano essere per fare un po’di chiaroscuro, non sarà niente di male che Antonio sia del numero. Il male piuttosto veniva da questo, che quando egli era nel parossismo dell’ubbriachezza, non c’era cristi di fargli capire ragione; non era possibile che il suo cuore si commovesse per cosa al mondo. Se io potessi credere che il mio lettore abusasse di bevande forti, sarebbe questa una felicissima occasione per dissertare intorno ai brutti scherzi che può fare il vino sulle nostre zucche e sui nostri cuori. Ma poichè io lo credo per lo meno uno dei protettori della Società di Temperanza, mi restringerò a quello che ho detto, e passerò a narrare qualche cosa della vita del nostro Antonio. La quale non ha nulla che fare con quella de’ santi e tanto meno con quella degli uomini illustri, sebbene al dì d’oggi non sia cosa più facile nel nostro paese rigenerato che diventare pezzi grossi, massime se la coscienza non sia d’inciampo.

    II.

    Vita e miracoli.

    Antonio Patroncio (ormai lo chiameremo così) aveva cominciato per fare il cherico, poi il soldato, poi il mercante, il treccone, il maestro di casa, e finalmente il fannullone, arte che egli esercitava gloriosamente anco al tempo del nostro racconto.

    La via del sacerdozio non era quella certamente che, libero nella scelta, egli avrebbe eletto, ma la famiglia ve l’avea cacciato fin da bambino, e spinte o sponte e’ dovè passare di lì. Venute le guerre napoleoniche se ne giovò per gettar via il collarino che lo strozzava, e si andò a schierare egli pure sotto quelle aquile gloriose, che conquistando mezzo il mondo, ebbero ben poco da invidiare a quelle di Roma antica. Ho aggiunto antica per soverchia cura di non dar nell’ambiguo sebbene io mi sappia benissimo che le aquile non hanno più nulla a fare con Roma odierna.

    Tornando ad Antonio, pare che neppure il mestiere di soldato fosse la sua beva, nè che avesse tanto spirito marziale da trovarsi bene in mezzo a sì grande eroismo; sicchè, alla prima guerra grossa che venne, non so bene se a Marengo o a Austerlitz, mentre i suoi compagni si facevano valorosamente sbuzzare, per servire alla ambizione di un uomo solo, ei pensò bene di serbare la pancia ai fichi e disertò.

    Io non saprei come ciò gli riuscisse: ma so che disertò bravamente stando acquattato finchè durò la mischia. Non fidandosi di tornare nel bel mezzo del suo paese, andò ronzandovi intorno, protetto pare da qualcuno che lo tenne nascosto. In quel tempo la vita d’un uomo non era la cosa più preziosa di questo mondo, e si prendeva in digrosso il conto de’ morti e dei vivi; sicchè non era poi tanto difficile sfuggire alla vigilanza. Non si sa bene dove egli si rifuggisse, nè quel che facesse, finchè Napoleone fece ballare su un quattrino i re e gli imperatori. Ma quando le armi posarono, e il grande uomo fu incatenato allo scoglio inospitale di Sant’Elena, il nostro Antonio sbucò fuori dal covo, e arrivò a casa sua onusto di allori che non aveva guadagnati, e ancora intirizzito dai ghiacci di Russia che non conosceva se non per udita.

    E arrivò in buon punto, quando cioè un suo zio materno che era l’unico de’ suoi parenti che avesse accumulato un po’ di ben di Dio, stava tirando le calze.

    Prima d’andarsene benedisse il nipote amatissimo, e lo lasciò padrone dispotico di tutto il suo, a condizione che gli facesse cantare non so quante messe in suffragio dell’anima. Il buon Antonio pianse…. per la gioia di sì inaspettata fortuna, e volendo conservare ed accrescere il patrimonio avito, si diede a continuare il commercio dello zio, che faceva il pizzicagnolo e il vinaio ad un tempo. L’occasione fa l’uomo ladro, dice un proverbio, che leggermente variato può calzare a capello al caso del nostro Antonio. Perchè entrato nella bottega che lo zio aveva lasciata ampiamente fornita di salami e di fiaschi, ei non resistè alla tentazione di dare sfogo alla sua passione predominante che era quella di mangiare e di bere. Ma come l’uomo non vive di solo pane, così non può vivere di solo salame. Una volta che la ghiottoneria s’era impadronita di Antonio, non v’era ribotta che si facesse fra persone di sua relazione alla quale egli non prendesse parte. Anzi spesso spesso avveniva che egli, per aver occasione di mangiare e di bere più del consueto, bandiva convito, e si faceva mangiare le costole dagli amici suoi. Di questo andare l’entrata ben presto non fu sufficiente alle spese, e le frequenti libazioni lo tolsero da attendere alle sue faccende. Inoltre agli avventori non andava a versi di trovarsi spesso a tu per tu con un uomo che aveva molto vino in corpo, e molti coltelli affilati sul banco, sicchè preferivano altre botteghe dove provvedersi. In un lucido intervallo, nel quale potè scorgere il precipizio in cui stava per piombare, Antonio si persuase che cosi non la poteva durare, e pensò di raccogliere il poco che gli rimaneva ancora di vivo. Vendette la bottega, vendette la cantina, vendette una casetta: pagò i debiti, e risparmiata una certa somma, questa pose a frutto. Non era gran cosa, nondimeno bastava per dargli tanto da vivere, come potrebbe vivere un galantuomo.

    Ma Antonio era un galantuomo che per vivere aveva bisogno di bever molto e di spendere fin che ce n’era. Sicchè dopo un mese di vita stentatamente regolata, tornò al vezzo antico, e divorò in un anno quanto doveva bastargli fino alla morte. Ridotto al verde, senza volontà di lavorare, e col fermo proposito di non rinunziare a’ suoi vizi, Antonio dovette cercar modo di soddisfarli. Quando gli veniva fatto di scroccare da Tizio o da Sempronio, ci si accomodava alla meglio; quando l’occasione onesta mancava, ei non rifuggi mai di ricorrere ad altri mezzi, perchè sia detto in lode del vero se non di lui, la coscienza non fu mai quella che lo impedì.

    Del resto essendo egli buon tempone, e discretamente arguto e pieno di lazzi buffoneschi, specialmente nel primo grado di ebbrezza, non gli fu difficile trovare chi gli facesse le spese.

    Una delle cagioni principali della sua rovina, vuolsi attribuire all’essere stato solo nel mondo, senza una famiglia per vivere ordinato, senza una donna che gli facesse godere di quella pace che è sempre un balsamo per l’animo più travagliato. Antonio infatti, senza provare avversione allo stato matrimoniale, non aveva mai preso moglie. Da cherico non poteva, e sarebbe stato anco troppo presto; da soldato non era neppure da pensarci; ramingo e senza la croce d’un quattrino nessuno l’avrebbe voluto; tornato a casa egli non avrebbe sposato se non una buona cuciniera, e per fatalità non la trovò.

    III.

    Singolare effetto del lume di luna.

    Era una sera di dicembre, e splendeva la luna; la quale se in quella sera si fosse tappata in casa avrebbe fatto un mondo di bene, inclusive quello d’impedire ad Antonio di scambiarla con un fiume. Se il lettore vuol sapere come ciò avvenisse, io sono qui pronto prontissimo per soddisfare la sua curiosità.

    Antonio era stato a festeggiare la nascita di un erede in casa di un suo compare. Non si trattava di un primogenito, chè il buon uomo ne aveva messo assieme ben otto o nove avanti questo, ma soltanto di avere un’occasione per pappare.

    Così Dio mi salvi, com’io credo che il compare anfitrione, e Antonio, e gli altri convitati, che erano tutti di una risma, si sarebbero seduti a tavola con lo stesso appetito, se le campane della chiesa anzichè a battesimo avessero suonato a funerale. Checchè ne sia è fatto incontrastabile che Antonio in quella sera superò se stesso, mangiando e bevendo come un lanzo fino ad ora assai tarda.

    Uscito all’aperto, e separatosi dai compagni, ei si avviò alla meglio verso casa. Veramente lo stato suo non avrebbe comportato che egli andasse solo; se non che coloro che avrebbero dovuto servirgli di scorta, ne erano essi stessi più che mai bisognosi. Disegnando ghirigori colle gambe che mal reggevano il peso del corpo, battendo la spalla di tanto in tanto allo stipite di qualche uscio, e i fianchi a qualche piolo, riuscì finalmente a sboccare sulla piazza degli Innocenti.

    Quella piazza, chi non lo sapesse, era detta degli Innocenti perchè ivi era situato l’ospizio dei trovatelli; grandioso edifizio, decorato di svelte arcate, per quanto era lunga la facciata, che andavano a finire in una parete bianca. In essa parete, all’altezza di due braccia dal suolo, si vedeva un’apertura nella quale una specie di nicchia di legno, fissata sopra un pernio, ora mostrava la parte concava, or la convessa, secondo che fosse girata da chi era fuori, o dentro dell’ospizio. Accanto alla finestra era stato messo un campanello che corrispondeva all’interno, col quale si avvisava quando c’era qualche cosa da levare.

    Il povero ebbro giunto sulla piazza si trovò al punto più scabroso della sua corsa, mancandogli a un tratto ogni appoggio per sostenersi. Essere in mezzo a quella piazza, senza un bastone per appoggiarsi, una muraglia contro cui dar del capo, era lo stesso per lui che trovarsi in un deserto senza oasi.

    La luna in quel momento irradiava di tutta la sua luce la piazza da un lato, mentre l’altro lasciava nell’ombra. Arrivato barcollando all’ultimo confine di questa, Antonio si arrestò in secco come chi si trovi inaspettatamente all’orlo di un precipizio. Alla sua mente travolta lo spazio bianco illuminato dalla luna gli prese sembianza delle acque di un fiume. L’ostacolo nuovo gli sembrò insormontabile: colle braccia penzoloni, col capo grave inclinato sovra una spalla ei si pose a contemplare le onde che gli scorrevano sotto i piedi.

    — Gua’ gua’, esclamò con un suono gutturale, pronunziando a spizzico e colla lingua grossa, gua’…… l’acqua… bella l’acqua… ma bisogna passare sull’acqua. Marameo! Non voglio bagnarmi i piedi, io.. Non mi piace l’acqua… vino vuol essere… vi-i-i-ino. L’acqua fa male e il vino fa ca-antare. Sicuro. Beppe, Pasquale… o dove diavolo vi siete cacciati, birbaccioni?… Ah, siete lì, a vuotar le bottiglie voi altri, e lasciate qui me in mezzo all’acqua ad affogare. Se fossi un pesce, tanto, meno male… ma ci rivedremo; non ho paura io dell’acqua… so nuotare, sapete… Si pena poco quando si sa nuotare.

    E sì dicendo il povero diavolo cominciò da dovvero ad accingersi a transitare al di là della piazza; si levò il cappello, il vestito, il panciotto, gli stivali, tirò su i calzoni fino al ginocchio, il tutto con quello stento che può fare un ubbriaco. Poi, caricatosi ogni cosa sulle spalle, meno gli stivali che tenne stretti sotto le ascelle come due vesciche, si provò a stendere una gamba al di là del segno che per lui era il limite della terra ferma.

    — Ahi, come è fredda! esclamò ritirando subitamente il piede; com’è fredda!

    Dopo prove e riprove, dopo un vano agitare di gambe e di braccia, prese l’a ire; ma in luogo di seguire la linea retta che gli avrebbe fatto imbroccare la via per condursi a casa, seguì invece una diagonale che lo portò verso i gradini dell’ospizio il quale prendeva tutto un lato della piazza. Quivi i panni che fln allora eran rimasti al loro posto, caddero a’ suoi piedi, sicchè Antonio inciampandovi dentro, non potè più reggersi ritto, e cascò quant’era lungo fra i gradini e l’ultimo arco dell’edifizio, proprio sotto alla finestrella dov’era la ruota.

    L’ora era tarda, e nessuno, per quello che si vedeva, aveva assistito al passaggio di questo singolare Rubicone. La caduta, il freddo furono peraltro aiuti potenti per richiamare in se l’ubbriaco, il quale, dopo essere rimasto alquanto per terra, quasi tramortito, apri gli occhi, come chi si desta dal sonno, e brancicando qua e là per ricuperare i panni sparsi, gli riuscì a fatica di rimettersi in gambe.

    IV.

    Quando il diavolo ci mette la coda!

    Pareva a prima vista non fosse alcuno nella piazza mentre Antonio la traversava in modo cosi singolare; nondimeno qualcuno v’era. Qualcuno a cui l’avvicinarsi di lui fu una stretta al cuore, la sua caduta un colpo di fulmine.

    Antonio inciampando aveva dovuto fare due o tre passi quasi carponi. Sicchè quando fu per terra si trovò sdraiato di traverso in guisa da formare una specie di triangolo coi due lati della parete dell’ultima arcata. Nel vano interno lasciato da questo triangolo, che in geometria si chiamerebbe isoscele, v’era qualche cosa di raggomitolato, di rattrappito, che senza una buona vista si sarebbe scambiato con un sacco di cenci, abbandonato lì da qualche ladroncello timoroso di cadere per esso nelle granfie di madonna polizia. Avvezzando lo sguardo all’oscurità del luogo si sarebbe scorto invece in quell’ammasso di roba, i contorni di un corpo umano ripiegato in se stesso. Era il corpo di una donna seduta per terra, colle ginocchia portate a livello del mento, e con la testa nascosta fra le ginocchia. Era una donna, anzi una giovanetta di poco più che tre lustri, la quale, non potendo involarsi avanti che Antonio le impedisse il cammino, si era ridotta in quell’angolo e nell’atteggiamento in che. l’abbiamo trovata.

    Il lettore si meraviglierà forse come la giovanetta fosse in quel luogo e a quell’ora, e più tardi gliene daremo la spiegazione. Antonio peraltro parve non si meravigliasse gran fatto, perchè non appena si potè accorgere che la pallottola che aveva quasi sotto la mano era un essere vivente, e per giunta un essere femminino, le si fece accanto senza complimenti, e con l’accento particolare degli ubbriachi, le disse:

    — Ohe, comarina… avete fatto proprio bene ad aspettarmi. Già io veniva di sicuro; vi par’ egli! non ho mai mancato con le signore, io! Gli è vero che la testa mi gira un pochino; ma alle volte fa bene che la giri… Ohe, comarina, date retta: i’ dico a voi, i’ dico!

    La povera fanciulla tremava come foglia ad ogni parola di Antonio; ma stava ferma al suo posto, nè diceà motto. Solo sin dal principio dell’apostrofe aveva alzato vivamente il capo per tener d’occhio colui che sì la spaventava. Nel far ciò non aveva lasciato di stendere sulle ginocchia i lembi del meschino scialle che le scendeva sul petto, come chi vuol coprire qualche cosa che desideri tener celata.

    Intanto l’ubbriaco, non udendo alcuna risposta alle sue cortesie, aveva ripreso:

    — Donnina, che siete sorda? O la non vi par’ ella occasione abbastanza buona a quest’ore bruciate? Con la brezza che tira non vi dovrebbe parer vero di trovare chi v’offra di core una stanzina calda, e una bottiglia di quello buono…. E nulla! Vuol far la preziosa, la signorina; l’aspetti allora ch’io mi metta guanti, e che le venga innanzi col cappello in mano…. appunto, dove s’è egli cacciato il mi’ cappello; e’ mi pareva d’essere uscito con qualcosa in capo…. ve’! dove gli è ito! Chi diavolo me l’ha cacciato fin lì?

    Il cappello per mala sorte era rotolato ai piedi della fanciulla, e si distingueva abbastanza perchè Antonio potesse vederlo. Sebbene mal si reggesse in gambe, ei si avvicinò per prenderlo, non cessando di volgere espressioni triviali alla fanciulla, la quale in quell’istante avrebbe voluto che la terra si aprisse per ingoiarla.

    Chiunque avesse assistito a quella scena avrebbe per certo messa la fanciulla in un mazzo con le tante perdute che si abbandonano alle avventure notturne, e non avrebbe forse riprovato Antonio della molestia che le recava. I giudizi degli uomini sono sempre sfavorevoli a priori per la miseria, e le apparenze servono ognora di fondamento per trinciare a dritta e a sinistra a carico di questo o di quello.

    Antonio raccattato il cappello, e fermatolo in capo con un pugno sul cocuzzolo che lo fe’ piegar tutto da una parte, indirizzò un’ultima parola alla fanciulla, avanti di passare a’ fatti.

    — Orbè? Che si fa egli dunque? Vuoi venire con me, si o no? Ah, non rispondi? Vuoi proprio che la mi monti? Vuoi proprio che ne faccia una delle mie, brutta sgualdrina, che non se’ altro?

    A questa brusca tirata la poveretta si diede a piangere dirottamente. Senza quello sfogo sarebbe per certo svenuta. Ma Antonio non era in grado d’intenerirsi per così poco, sicchè non pose mente a quelle lagrime, e stesa la mano, afferrò la fanciulla e la tirò brutalmente a se uscendo a precipizio di sotto l’arco. L’infelice mandò un grido: era un grido di dolore, di spavento, di terrore, che straziava l’anima. Ma neppure quel grido bastò ad arrestare il suo persecutore; il quale anco volendo non avrebbe potuto, tra per la rabbia che la resistenza passiva della donna gli aveva messo addosso, e lo stato delle gambe che non avrebbero ubbidito alla volontà del padrone. D’altra parte la fanciulla trascinata in tal modo, e mezzo tramortita dal freddo, dallo spavento, dalla sofferenza, non poteva opporre ostacolo valido alla corsa precipitosa; tanto più che tenendo ella stretto al seno con singolare tenacità l’involto nascosto sotto lo scialle era più che mai impacciata ne’ suoi movimenti.

    A mezzo la piazza Antonio si fermò, o per dir meglio le sue gambe non procedettero oltre, senza che perciò ei lasciasse la presa. La fanciulla approfittò di questo istante di tregua, e

    — Pietà, signore, esclamò fra le lagrime, pietà d’un’ infelice creatura!

    Non si sa bene se quest’esclamazione fosse volta al signore Antonio, o al signore di lassù: fatto è che Antonio la prese per se, e

    — Che pietà e non pietà! rispose. Chi t’ha insegnato, brutta strega, a far tante moine con un galantuomo che si vuol giovare di questi avanzi? Ci vuol di molto a rispondere: mi volete? sono con voi; senza tante smorfie, e senza farmi sudare una camicia per tirarmela dietro. Animo, soggiunse poscia, vien via, senz’ altri discorsi.

    — No, mai! esclamava la poveretta. La mi lasci andare ch’io non ho nulla a che fare con lei.

    — Vieni…

    — No.

    — Vieni, o giuro a… che ti farò veder io… se… quando dico…

    Queste parole uscivano tronche dalle labbra avvinazzate di Antonio, per effetto dello sforzo che egli faceva nel tirarsi dietro la fanciulla. La quale raccogliendo tutte le sue povere forze, si era di nuovo accosciata per terra, e resisteva al più possibile. La resistenza nuova inasprì più che mai Antonio, acciecato ornai dal vino e dalla libidine. Non potendo indurla alle sue voglie, egli stava per trarne vendetta col percuoterla.

    Già le bestemmie da una parte e le lagrime dall’altra preludevano a questo fine, quando dai due punti estremi della piazza venivano due aiuti inaspettati, e forse non egualmente desiderati. Una carrozza, traversando la piazza diagonalmente, doveva necessariamente passare dal punto dov’erano Antonio e la sua vittima; le guardie della polizia, attirate forse dal chiasso, si indirizzavano anch’ esse a quella volta.

    Ma intanto l’infelice aveva fatto l’estremo di sua possa; resistere un minuto di più le fu assolutamente impossile. Ella perdette i sensi, e cadde riversa al suolo. Nella caduta abbandonò l’involto tenuto fino a quel punto con tanta cura stretto al seno. In quel momento la sventurata perdeva tutto ciò che ricordandole le gioie passate, formava ad un tempo la sua delizia ed il suo tormento. In quanto ad Antonio non si accorse di nulla, e solo allorchè vide la fanciulla svenuta, che stava per cadere, lasciò il braccio che teneva stretto come in una morsa, stanco forse anch’ egli di lottare più oltre.

    V.

    Aiuto inaspettato

    Fosse per volontà di chi era dentro, o per moto spontaneo del cocchiere, la carrozza si fermò proprio davanti ad Antonio e alla donna svenuta. Lo sportello fu aperto vivamente, e un vecchio alto della persona, dalla fronte calva e spaziosa, dai capelli lisci e canuti scese e si pose per un istante a contemplare or la donna, or Antonio. Aveva il capo scoperto e un lungo soprabito nero abbottonato fino al mento. Un raggio di luna illuminava quel volto sul quale l’energia, la severità, e la dolcezza si contemperavano a vicenda. L’impronta dell’età senile, non era bastata a distruggere del tutto la freschezza della gioventù, sicchè, dei sessanta anni che aveva, a mala pena gliene avreste dati cinquanta.

    Al suo apparire, Antonio, il quale un momento prima non avrebbe distinto il diavolo dalla croce, tornò in se quasi per incanto; indietreggiò di alcuni passi in segno di rispetto, portò la mano al cappello come sogliono i soldati, poi chinò il capo, con la trepidanza del fanciullo colto in fallo che aspetta dal maestro la sua condanna. E veramente non ebbe ad aspettare lunga pezza, dappoichè l’incognito, quasi indovinando tutto quello che era passato, così l’apostrofò:

    — Ebbene, disgraziato, che hai fatto di questa donna?

    — Ma… mormorò Antonio, tutto confuso,… io non so veramente,… perdoni…. l’ho trovata qui…. e se la volesse sapere…..

    — Silenzio!

    Antonio non se lo fece ripetere due volte, e si tacque.

    Intanto la fanciulla si era alquanto riavuta e aperti gli occhi guardava liso con inesplicabile soddisfazione colui che le stava dinanzi. Pareva che al vedere quell’aspetto venerando, ella si fosse dimenticata i suoi dolori antichi e i recenti; pareva che la presenza di quell’uomo non le facesse più temere non che di Antonio, ma di nessun’altra cosa di questo mondo.

    Il cuore alle volte ci fa giudicare degli uomini e dei casi della vita assai meglio del raziocinio. Come questo avvenga non si potrebbe dire, perchè anco il cuore ha i suoi misteri, ma è fatto incontrastabile che non di rado il cuore di una donnicciuola sente più rettamente delle cose che non giudichi il più consumato filosofo.

    All’incognito non isfuggì l’effetto che la sua presenza aveva prodotto nell’animo della fanciulla, e colla penetrazione ond’era dotato seppe anco leggere su quel volto macerato dai patimenti che quella fanciulla non apparteneva alla schiera pur troppo numerosa delle donne perdute. Persuaso che fu di ciò, ei non esitò un istante a darsi tutto ad assisterla, e, considerato che lo stato di lei richiedeva davvero un’assistenza immediata, si chinò, la prese dolcemente sotto le ascelle, la sollevò con la stessa facilità che se fosse stata un’alga, e messala in carrozza, entrò esso pure, ordinando al cocchiere di andare a casa.

    S’egli non avesse veduto spuntare dall’altro lato della piazza i caschetti di due guardie forse non avrebbe lasciato d’interrogare la fanciulla, d’interrogare Antonio. Ma poichè pareva egli non amasse gran fatto di mettersi a tu per tu con gli uomini del buon governo, si era determinato a prendere quella risoluzione, riserbandosi cammin facendo, di dare nuove disposizioni secondo le risposte che dalla ragazza avrebbe potuto avere.

    Antonio intanto era rimasto sbalordito fra i vapori del vino, e la comparsa improvvisa dell’unica persona per la quale sentiva, anco ubbriaco, il maggiore rispetto di questo mondo. Mentr’ egli era lì guardando cogli occhi sbarrati la carrozza che svoltava il canto della via a gran trotto, una mano pesante gli si posò sur una spalla.

    — Che si fa qui?

    Antonio si volse alla brusca interrogazione, e vedendo di essere preso in mezzo fra due guardie, e non sapendo lì per lì rendersi ragione della cosa, seguì macchinalmente il primo impulso dell’animo, che fu quello di liberarsi dalla brutta compagnia. In luogo di rispondere diede una scossa con la persona in guisa da allontanare un poco colui che l’aveva interrogato, e tentò di fuggire.

    Siffatto tentativo sarebbe stato malagevole per chi fosse stato padrone delle sue gambe; per Antonio era impossibil cosa. Sicchè non aveva ancor fatto due passi, che in luogo di una aveva addosso tutt’e due le guardie, le quali, vedendo in questa sua voglia di fuggire assai più male di quello che veramente non vi fosse, lo presero bravamente una per un braccio, l’altra per l’altro e rinnovarono l’interrogatorio.

    — Ah, la vuol scappare lei? Ben pensata davvero. Ma non si scappa, no; e badi, veh! se non ha giudizio glielo metteremo noi.

    — Sicuro; glielo metteremo noi, ripetè il compagno. Che fai qui?!

    — Sono un galantuomo.

    — Sarà, ma intanto vogliamo sapere che facevi quì, a quest’ora?

    — Guardavo la luna. Non si può guardare la luna?

    — Dite un po’, galantuomo, se non ci rispondete a dovere, vi manderemo in luogo dove la vedrete a scacchi.

    — Ma mi lascino andare.

    — Come vi chiamate?

    — Come mi chiamo? Ma se son più conosciuto della bettonica.

    — Non serve.

    — Che serve? non ho serve io; quella donna che se n’è ita in carrozza non era la mi’ serva. Io l’ho trovata sotto le arcate; non so altro io!

    — Che donna, e che serva? Rispondete a tono alla pubblica forza, se no sarà peggio per voi.

    — E ch’ ho a dire?

    — Chi siete.

    — Antonio Patroncio, che quando trova del vino buono lo beve senza complimenti; ecco chi sono; e lor signori chi son eglino, se è lecita la domanda?

    A questa scappata le guardie si guardarono in viso, come per consultarsi a vicenda, non senza sorridere, alquanto. Ambedue erano persuase Antonio non essere altro che un ubbriaco, ma non così fradicio da render necessario di farlo dormire per la notte a spese dello stato. Del resto l’esteriore di Antonio non era tale da destare sospetti, e sebbene il suo vestire non fosse d’uomo agiato, era pur sempre modestamente decente.

    Dopo questo esame, e queste considerazioni le guardie stavano per lasciare Antonio con un ammonimento, e con l’ordine di andarsene a casa senza voltarsi indietro, quando una di esse vide l’involto per terra a pochi passi da lui.

    — Aspetta, disse al compagno, dentro quell’involto dovrebb’ essere il morto. L’espressione della guardia non voleva dir altro che in quel fagotto doveva esserci tanto da scoprire in Antonio qualche cosa più che la ubbriachezza. La voce morto in questo caso non aveva altro significato. Ora lascio al lettore giudicare quale non fosse la meraviglia delle guardie, e diciamolo subito di Antonio stesso, quando aperto l’involto si venne a scoprire quello che effettivamente vi era dentro. Le guardie si mirarono nuovamente in viso, contente come pasque di aver trovato di che fare un rapporto al loro superiore e si strinsero vieppiù ad Antonio per assicurarsi che non fuggisse. Ma questi a cui le cose strane che avvenivano sotto i suoi occhi avevano fatto sparire in gran parte la ubbriachezza, era in quel momento a tutto altro disposto che a fuggire. La meraviglia sua al vedere dall’involto uscire un morticino, era ben maggiore di quella delle guardie, le quali a senso loro avevano in mano tutte le fila del negozio. Per esse non era da porre in dubbio che Antonio non fosse lì per mettere alla ruota il bambino; che nel tenerlo sotto il braccio non l’avesse schiacciato, o che sorpreso dalle guardie l’avesse gettato per terra mentre era ancora in vita. In tutti questi casi Antonio doveva essere condotto davanti la polizia: era il loro dovere, e nessuno al mondo avrebbe potuto dargli torto; sebbene in verità la cosa andasse altramente.

    Sicchè, rimesso il cadaverino nei suoi cenci, presero in mezzo Antonio che non sapeva più in che mondo si fosse, e si avviarono tranquillamente alla delegazione.

    VI.

    Ricerche.

    Intanto che Antonio era condotto all’ombra a smaltire il vino bevuto, la carrozza andava di buon trotto. Il vecchio seduto accanto alla fanciulla, si volgeva di tratto in tratto a contemplarla in silenzio, e si sentiva tutto commuovere in vedendo tanta gioventù e bellezza fatte ludibrio della miseria, e forse della corruzione.

    Nell’accogliere la fanciulla nella sua carrozza egli non si era proposto se non di toglierla dai pericoli che poteva correre con Antonio, che ei conosceva da lungo tempo, e vedeva in quello stato nel quale era assai difficile ripromettersi da lui alcun che di bene. Allontanatosi dalla piazza, pensò che forse sarìa stato buon consiglio ricondurla subito alla sua abitazione, dai suoi parenti, i quali, per avventura, potevano essere inquieti dalla sua prolungata assenza.

    Sapere in quel momento da lei il nome della strada, il numero della casa, non era peraltro la cosa più facile di questo mondo. Ella non aveva mai cessato di singhiozzare e di disperarsi. Il freddo, l’agitazione, la lotta, e più di tutto la vergogna, come le avevano dapprima fatto smarrire i sensi, così la tenevano ora in un parossismo febbrile, che assai si avvicinava alla frenesia. Era un accesso al cervello, era un grado di pazzia, era insomma quello stato di orgasmo doloroso che non di rado succede allo sforzo fatto per

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