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Io, Druso
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E-book392 pagine5 ore

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Fantascienza - romanzo (319 pagine) - L'universo peplumpunk del Premio Urania Davide del Popolo Riolo, con l'Urbe scampata all'invasione marziana grazie al genio di Giulio Cesare, si arricchisce di nuove e intriganti storie: quali res novae complicheranno la vita a plebei e patrizi? Che fine ha fatto Marco Antonio, il Tripodico Minore? Quali misteri si nascondono nella lontana Iperborea?

Due generazioni sono passate da quando, grazie alle invenzioni del Machinarum Magister, la minaccia aliena che incombeva sull’Urbe è stata sventata. La Repubblica ha dovuto affrontare nuove sfide e i romani, la cui curiosità è tale che, per dirla alla Tacito, che né l'Oriente né l'Occidente possono saziare, hanno cominciato a colonizzare la misteriosa Iperborea, abitata da popoli tanto bizzarri quanto affascinanti.
Terra che è lo sfondo della strana vita di Tiberio Druso Nerone Germanico eccetera eccetera (perché non voglio infastidirvi enumerando tutti i suoi nomi), per gli amici Claudio, che soprannominato l’Idiota o il Balbuziente dai propri parenti, in compagnia di un pubblicano negato per la matematica, di un inventore iperboreo, di due liberti cialtroni e di un ebreo misantropo, distillò nuovi liquori, scongiurò guerre, sottomise popoli, anche se la Repubblica ne avrebbe fatto a meno, rubò il cuore a una splendida donna, con qualche trascurabile difetto, ma chi non ne ha, e divenne l’uomo più ricco dell’Urbe.
Urbe che è lo sfondo delle imprese di Sesto Aullio, il cosiddetto filosofo pratico, del suo biografo e amico, il medico ebreo Giovanni di Tiberiade e del loro mortale nemico, l’Annibale del crimine, Lucio Massovio.
Un omaggio una delle pietre miliari della fantascienza italiana, De Bello Alieno di Davide del Popolo, autore del racconto in appendice, e un altro tassello di uno straordinario universo narrativo peplumpunk.

Alessio Brugnoli, nato nei turbolenti anni Settanta a Roma, ingegnere e giramondo, nella vita normale si occupa di cose alquanto banali come il Cloud Computing o l'Intelligenza Artificiale. Allevatore di pappagalli, in passato è stato curatore di mostre d'arte e vicepresidente di un'associazione dedita alla musica e alle danze popolari.
Attualmente si occupa di street art, prima o poi metteranno al gabbio e butteranno la chiave, e, ogni tanto, si ricorda di scrivere romanzi e racconti.
Due volte vincitore del premio Kipple, con i romanzi steampunk Il Canto Oscuro (2011) e Lithica (2015), ha pubblicato i romanzi Marciare per non marcire per Soldiershop e Navi grigie per Edizioni Scudo. Ha partecipato con i suoi racconti a numerose antologie, come Operazione Europa (Elara) o Penny Steampunk di Roberto Cera.
LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2020
ISBN9788825413830
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    Anteprima del libro

    Io, Druso - Alessio Brugnoli

    Cera.

    Dediche e Ringraziamenti

    Questo libro è dedicato ai miei nipoti, Flavio e Valerio, che da grandi possano divertirsi a leggerlo, tanto quanto io l’ho fatto nello scriverlo.

    Il mio grazie va a mia moglie Emanuela, che mi ha sopportato e mi è stata accanto in questi mesi, accettando tutte le mie paturnie, a Davide del Popolo Riolo, sia per la possibilità che mi ha dato, sia per i suoi preziosi consigli e ai miei pappagalli, che mi hanno fatto compagnia nelle serate di scrittura.

    Se René Ferretti ha il suo Boris, io ho Pippin e Grey.

    Infine, un grazie a Svetonio, Tacito, Plinio il Vecchio e Petronio Arbitro, fonti di ispirazione di questo romanzo, nella speranza che in futuro la scuola italiana li mostri per quello che sono, narratori di storie straordinarie, invece che dei vecchie e noiosi pedanti.

    Prefazione

    Quando l'amico Alessio Brugnoli mi ha anticipato la propria intenzione di scrivere un romanzo breve ambientato nell'universo del mio De Bello Alieno, chiedendomi se avessi qualcosa in contrario, confesso che ne sono rimasto sorpreso, ma anche compiaciuto.

    Non è raro, tutto sommato, che i mondi creati da un autore attraggano l'immaginazione di altri scrittori, che ne continuano la storia: penso a Wells o a Lovecraft, ad Asimov o a Dick.

    Ma si tratta di Grandi, e di defunti. Io sicuramente non appartengo alla prima categoria e, per fortuna, per ora neanche alla seconda, e dunque la sua proposta mi è sembrata un grande onore e in effetti lo è.

    Anche perché De Bello Alieno ha un posto speciale nel mio cuore. È il mio primo romanzo pubblicato, quello che ha avuto più successo, che ha vinto Premio Odissea e Premio Vegetti… Se i romanzi e i racconti che ho scritto sono un po' tutti come miei figli, DBA è il primogenito e forse il prediletto, e spero che gli altri non si ingelosiscano troppo!

    Ho spesso pensato e progettato di scriverne un seguito, ma mi hanno frenato la paura di deludere i lettori e l'impressione di avere, tutto sommato, detto quello che avevo da dire, quindi non mi ci sono mai messo.

    L'anno scorso però, nel corso di una vacanza romana, in un pomeriggio caldo e assolato in cui vagavano per le bellezze della sua città, io e Alessio abbiamo cominciato a fantasticare su possibili prosecuzioni, divertendoci a chi le inventava più grosse e inverosimili.

    Sono felice che lui abbia preso sul serio quel divertimento e si sia impegnato a concretizzarlo, perché possiede secondo me le due caratteristiche necessarie per farlo magnificamente: un grande amore per l'antichità classica, che conosce anche meglio di me, e quella sana sfacciataggine che consente di scrivere follie mantenendosi con il volto serio.

    Gli ho quindi dato con entusiasmo la mia benedizione, augurandogli un buon lavoro, e quando mi ha fatto leggere quello che la sua fantasia – assai più sfrenata della mia – ha partorito sono rimasto tanto sorpreso quanto compiaciuto, perché è giunto dove io non avrei mai osato arrivare.

    Per cui a voi lettori dico: godetevi le pazze avventure di Claudio in Iperborea, vi divertirete!

    E che Giove Ottimo Massimo sia sempre al tuo fianco, Alessio, amico mio!

    Davide del Popolo Riolo

    Prologo

    Chiamatemi Ulisse, esule, vagabondo. Qualche anno fa – non importa ch'io vi dica quanti – avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m'interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare per un po', e di vedere così la parte acquea del mondo. Faccio in questo modo, io, per cacciar la malinconia e regolare la circolazione. Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull'anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi al letto funebre preparato dai libitinarii¹ o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l'umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall'andare per le vie col deliberato e metodico proposito di strappare la toga alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo al suicidio. Con un ghirigoro filosofico Catone si getta sulla spada; io, quietamente, mi imbarco. Non c'è niente di straordinario in questo. Basterebbe che lo conoscessero appena un poco, e quasi tutti gli uomini, una volta o l'altra, ciascuno a suo modo, si accorgerebbero di nutrire per l'oceano su per giù gli stessi sentimenti miei.

    È una frase che ascoltai una volta da un mio liberto, uno di quelli seri, ben diverso dai cialtroni che rendono la mia vita confusa e disordinata, simile a una banchina del porto di Ostia. Lo sentii mugugnare così prima che si imbarcasse sulla nave di mio nipote Gaio, per accompagnarlo nella sua ossessiva lotta contro i leviatani che abitano gli abissi del grande Oceano.

    Gaio cominciò da ragazzo a dedicarsi a tale follia, sulle coste atlantiche della Tarraconense,² quando si imbarcò sulle lunghe barche dei Vasconi³ per macellare le balene, che compivano l’errore di avvicinarsi troppo alla riva. Nelle pause tra una caccia e l’altra, vinceva la noia raccogliendo conchiglie, di cui catalogava ogni minuzia. Ciò è alla base della sua fama, spero non transitoria come la mia, tra gli eruditi e coloro il cui ozio è dedicato allo studio dell’historia naturalis.⁴

    Quando mi raggiunse qui in Iperborea, la sua passione divenne prima una febbre incurabile, poi rabbia e vendetta. Durante una spedizione di caccia, una sua vedetta avvistò in alto mare un gigantesco capodoglio albino.

    Gaio, accecato dal Fato, invece di onorare i numi per tale portento, decise, affamato di gloria e desideroso di superare se stesso, di cacciare il signore dell’abisso e diede ordine di calare le lance. Fu il primo a prendere l’arpione, nella speranza che il Fato, come Meleagro nella caccia del cinghiale di Calidone,⁵ lo favorisse, permettendogli di scagliare il colpo mortale contro quel portento della Natura. Se ci fosse riuscito, non avrebbe sezionato e venduto la preda, ma dedicato la sua spolia opima⁶ a Nettuno, a Iside protettrice dei naviganti e a Giove Statore.

    Nel corso dell’inseguimento, mio nipote intravide il suo gladio da sagola, lama utilizzata quando la balena sta per fare partire la gomena o bisogna fermare l'ammainata, e provò a colpire il leviatano con quell'arma, per poi finirlo con l’arpione, ma l’abominio ruotò su stesso.

    Così Gaio si ritrovò con la gamba appoggiata sulla bocca del gigantesco cetaceo. Mentre vibrò la pugnalata, la balena bianca gli mozzò la gamba tra le fauci e s'immerse nelle profondità del mare. In seguito a quell'incidente, che gli costò quasi la vita, mio nipote si fece costruire da un falegname una gamba artificiale, utilizzando una mascella di capodoglio, in luogo del solito legno.

    Da quel giorno in poi, Gaio si dedicò anima e corpo alla sua caccia, trascinando decine di uomini nella sua follia. E ogni volta che vedo uscire la sua nave dalla quiete del porto, una liburna⁷ vecchia e inusitata, piuttosto piccola, stagionata e tinta dalle intemperie di Padre Oceano, che si orna delle ossa cesellate dei suoi nemici, mi chiedo se sia l’ultima.

    A ogni buon conto, se condivido con mio nipote e con tutti i membri della gens Claudia ciò che gli uomini banali e vuoti chiamano follia e mi accumuna l’inquietudine con il mio liberto, non ho certo la loro facondia nel parlare e nello scrivere.

    Quanto avrei voluto avere la stessa idea, per dare un giusto inizio al mio narrare! Purtroppo, per i limiti della mia immaginazione, non posso fare nulla più che raccontare i fatti, senza accompagnarli con orazioni moraleggianti e tirate filosofiche, che tanto fanno piacere ai vecchi barbosi e alle matrone romane. Gli dei non mi hanno certo modellato nella stessa creta di quell’ipocrita di Seneca, abile nel riempirsi sia la bocca della parola virtù, sia la borsa di sesterzi!

    Per cui, lettore che stai dando uno sguardo ai miei Commentari, ti chiedo di avere pazienza per lo stile di un uomo dalle molte letture, ma zoppo e balbuziente, e concentrarti sulle vicende che descrivo. Poiché se Gaio impegnò la vita nella caccia di un grande cetaceo dal colore della Morte, io forse la sprecai, in modo altrettanto inutile, nella ricerca di Marco Antonio, mio nonno, il Tripodico Minore, luogotenente del grande Cesare, il Machinarum Magister.


    ¹. I corrispondenti nell’antica Roma degli impresari delle pompe funebri

    ². Provincia della Spagna Romana, comprendente la Catalogna, l’Aragona, i Paesi Baschi e le Asturie

    ³. Nome latino dei Baschi

    ⁴. L’insieme delle discipline di Scienze Naturali

    ⁵. Mito assai diffuso ai tempi dell’antica Roma, tanto da apparire rappresentato in numerosi sarcofaghi.

    ⁶. In latino, bottino abbondante: si riferisce all'armatura, alle armi e agli altri effetti che un generale romano aveva tratto come trofeo dal corpo del comandante nemico ucciso in singolar tenzone, e che dovevano essere offerte nel tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio

    ⁷. Nave romana, stretta e veloce

    Capitolo I: Ab origine

    Io, Tiberio Claudio Druso, nacqui a Lugdunum,⁸ nella Gallia Comata, il primo agosto del settecento quarantaquattresimo anno da quando Romolo fondò l’Urbe; fui il terzo figlio di Nerone Claudio Druso e Antonia minore, dopo Germanico e Livilla.

    Mi fu dato, per ironia del Fato, lo stesso nome di mio nonno, uomo aspro e orgoglioso, che mai volle conoscere la mia stirpe. Mio padre, infatti, era figlio di Tiberio Claudio Nerone e di Livia Drusilla, ma era nato tre mesi dopo il chiacchierato matrimonio tra Livia e Ottavio Taurino, il più intrigante tra gli eredi del Machinarum Magister. Così mio padre, che per tutta la vita tentò di essere un emulo di Catone il Censore, il vero specchio delle virtù antiche, non certo l’ipocrita che in tempi recenti ne usurpò nome e fama, suo malgrado, con la sua nascita, riuscì ad alimentare un pettegolezzo sulla sua origine, che circolò di bocca in bocca tra la plebe di Roma, la quale ne parlava con sorrisetti maliziosi e con tanto di gomitata compiacente.

    Pettegolezzo che è durato sino ad oggi, anche per mia responsabilità: spesso, da ragazzo, per nascondere i miei difetti, mi vantavo di appartenere alla stirpe del grande Cesare. Altro cruccio di mio padre e fonte della sua malinconia, era il fatto che lui, pieno di sogni sul trascorrere la vita guidando in battaglia legioni e disputando nel Senato, mantenuto da centinaia di schiavi che coltivavano i suoi latifondi, secondo il mos maiorum,⁹ doveva invece il suo rango e la sua ricchezza alle macchine che tanto disprezzava.

    Quante volte, da bambino, l’ho visto maledire gli Dei e il Fato avverso, come un eroe delle tragedie di Pacuvio e Accio, dinanzi all’eolipile che alimentavano i telai meccanici delle nostre fabbriche. Poi, dopo avere pianto come Scipione sulle rovine di Cartagine, se ne tornava nel suo studio, a contare monete d’oro e a ingegnarsi su come aumentare il loro numero.

    Sì, lo rispettavo, come giusto che un figlio faccia con un padre, ma non lo amavo. Lui non capiva me e io non capivo lui. Non perdonerò mai il fatto che si vergognasse di me, ritenendo le mie malattie non un problema da gestire al meglio, ma una colpa di cui vergognarsi. Solo gli anni, con il disincanto e l’esperienza, mi hanno portato a comprenderlo e a scoprire le sue angosce: troppo spesso, nelle notti insonni, mi interrogo, senza alcuna risposta, se al suo posto, fossi riuscito a fare di meglio.

    Per tutta l'infanzia e la giovinezza fui tenuto lontano dalla vista del popolo; i membri della mia famiglia ritenevano come la mia salute cagionevole, il mio sbavare e la mia balbuzie fossero un sintomo di debolezza mentale.

    Mia madre mi definiva un

    mostro d'uomo, non compiuto, ma solo abbozzato dalla natura

    e quando voleva accusare qualcuno di stupidità ribadiva come fosse

    più scemo di suo figlio Druso

    Così passai i miei anni sul Palatino nelle stanze fredde della domus di Ottavio Taurino,¹⁰ con i loro affreschi pacchiani, che rappresentavano scene teatrali, quell’uomo amava così tanto le fabule atellane, e santuari agresti. Ottavio era tanto parco di denaro, quanto privo di qualsiasi gusto artistico, difetti assai comuni, tra coloro che si erano arricchiti grazie alle Res Novae.

    La sua casa, appartenuta al consolare e oratore Quinto Ortensio Ortalo, non era di certo tra le più ampie del Palatino e non primeggiava nel lusso, dato che le colonne dei suoi portici, alquanto basse, non erano di porfido egizio, come va di moda tra i ricchi senatori, ma dell’assai più economica pietra del monte Albano; le stanze, poi, non erano decorate né con marmo asiatico, né con mosaici greci.

    Solo dopo anni, cedendo alle continue insistenze di mia nonna, il cui brontolare potrebbe essere usato da Plutone come tormento per le anime del Tartaro, si decise a ristrutturare e ampliare la domus, secondo la moda di Delo e di Rodi, comprando una dimora vicina, dopo tante esitazioni, a un prezzo di favore.

    Il merito fu del cieco Fato: il procedente proprietario, Quinto Fulvio Nobiliore, si dilettava a mischiare sostanze chimiche a caso, nella speranza di trovare un modo per mutare il piombo in oro. Così, una mattina, erano idi di marzo, anche se ero un bimbo di sei anni, lo ricordo come se fosse ieri, Roma fu svegliata da lampi e da boati, che non si sentivano dai giorni del bellus alienus.

    Dopo mezza clessidra, trascorsa nel terrore e nell’incertezza, mio padre e Ottavio Taurino uscirono di casa, armati di tutto in punto, pronti ad affrontare il ritorno degli invasori provenienti dallo spazio. Invece, rimasero a bocca aperta, come i tonni che si pescano nelle acque tra Rhegion e Zancle,¹¹ trovando, al posto della domus di Fulvio, polvere e macerie.

    In ricordo dell’infausto destino del nostro vicino di casa, vittima del suo improvvido amore per le Res Novae, Ottavio Taurini istituì un premio alla sua memoria, attribuito ogni anni ai romani che si erano distinti nei diversi campi dello scibile, apportando i maggiori benefici alla Repubblica, per le loro ricerche, scoperte e invenzioni e per l'opera letteraria.

    Benché i lavori di ristrutturazione avessero dotato la domus di un ampio e confortevole cubiculum,¹² Ottavio Taurino continuò a dormire nella stessa camera per più di quarant'anni, anche d'inverno, sebbene considerasse poco adatto alla sua salute il clima invernale di Roma. Appena gli chiedevo il perché di tale scelta, in silenzio indicava, senza farsi notare, mia nonna.

    Di lui, nonostante i suoi intrighi e infiniti difetti, che faranno la fortuna di generazioni di storici futuri, ho un buon ricordo. A modo suo, mi voleva bene: anche se mia nonna lo riteneva tempo sprecato, mi insegnò l’amore per lettere e il senso degli affari. Di questo, gliene sono grato e non potrò mai saldare il mio debito.

    Quando desiderava lavorare in solitudine, si recava in uno studiolo al piano superiore che chiamava la sua Siracusa o il suo ufficio tecnico, dove odiava essere disturbato. Io ero uno dei pochi che ne aveva accesso. Quando lo andavo a trovare, di rado, poiché le scale erano assai ripide, lo trovavo circondato di lettere e rapporti, con i capelli scarmigliati e gli occhi rossi.

    Appena si accorgeva della mia presenza, interrompeva il suo lavoro, per sorridermi e offrirmi dolci al miele; poi tornava a tuffarsi a capofitto tra i suoi conti e le sue riflessioni, spesso parlando ad alta voce a se stesso. Capitava anche che si alzasse all’improvviso, per camminare avanti e indietro per la stanza, simile a una belva nell’arena dell’Anfiteatro di Capua.

    Dopo qualche centinaio di passi, si fermava all’improvviso, respirava a fondo, si girava verso di me e cominciava a farmi domande: qualunque fosse stata la mia risposta annuiva, per poi ritornare al suo supplizio di Sisifo.

    Un’infanzia noiosa e vuota, come la mia, non può che lasciare ben pochi ricordi. Eppure, questi sono simili a opali della lontana India, che si dice brillino di una luce propria.

    Avevo poco più di quattro anni. Era il primo giorno di primavera, poco prima che si scatenassero i torbidi causati dall’ambizione della regina d’Egitto. Ricordo, come se fosse un sogno lontano, l’inaspettato tepore del sole, il gracchiare dei corvi e il profumo dei fiori. Mi colava il naso e starnutivo di continuo.

    Mio nonno Antonio era in piedi sotto la gondola della sua aeronave, la Venus Genitrix Secunda, così chiamata in onore del dirigibile su cui Publio Licinio Crasso si sacrificò, per fermare l’avanzata dei nemici che erano discesi dalla profondità del Cosmo.

    Nonostante l’età avanzata e i capelli bianchi, la sua figura mi appariva imponente, simile a una delle statue di Ercole sparse a decorare il Foro, con il petto in fuori e i muscoli oliati con lo strigile. Mi stupì il fatto che, a differenza di mio padre, non avesse un filo di barba. Forse da questo ho preso l’abitudine di radermi ogni giorno.

    Antonio era vestito con la tunica cinta all'anca e un mantello di panno ruvido; al fianco aveva un fucile dalle canne mozze, con il calcio in avorio, su cui era inciso il motto

    Et in Arcadia Ego

    Alzò il braccio destro e cadde il silenzio. Mio nonno inspirò e poi, con voce tonante, cominciò il suo discorso

    – Amici, romani, concittadini!

    Non sono venuto a ricordare i torti da me, l’uomo che per primo si gettò nella mischia per affrontare i Tripodi, subiti. Non sono venuto a lamentarmi della gloria che mi fu rubata, per darla a quell’imbelle e inutile Pompeo, che si pavoneggiava del titolo di Tripodico Magno, mentre era buono soltanto a nascondersi dietro a uno scudo.

    No, non è questo il mio scopo. Io vengo per lodare Cesare, il Machinarum Magister, alle cui invenzioni tutti noi dobbiamo prosperità e potere. Il male che un uomo fa, gli sopravvive, il bene, spesso, resta sepolto con le sue ossa. E così sia di Cesare.

    Le sue armi portarono un gran numero di prigionieri in Patria, a Roma, che empirono col prezzo del riscatto le casse dell’erario e salvarono l’Urbe, con il mio aiuto e sacrificio, quando prossima pareva la disfatta. Le sue invenzioni ci hanno reso ricchi e permesso di percorrere distanze che sembravano inaudite.

    Nonostante subisse dal Senato torti ben più gravi dei miei, mai ebbe parole d’odio nei confronti della sacra assemblea dei padri coscritti. Fu sempre ligio e fedele alle decisioni dei Comizi, anche quando andarono contro i suoi privati interessi. Eppure, gli dissero che era ambizioso, stessa accusa formulata al sottoscritto. Quando vedeva piangere un pezzente, Cesare lacrimava: sembrerebbe, l’ambizione, di ben più dura scorza.

    Ma non sono qui per rivangare i torti del passato. Tutti lo amaste un tempo; e non senza motivo. Quale motivo vi impedisce oggi di onorarlo? O senno, tu sei fuggito tra le bestie brute e gli uomini hanno perduto il bene dell’intelletto!

    Io, ultimo degli amici di Cesare, ho deciso, prima di scendere nei campi dell’Ade, da cui nessuno torna, di onorarlo con un’ultima impresa, per coprire di gloria il mio e il suo nome. Con questo prodigio della tecnica, frutto del suo ingegno, con cui violò i domini di Giove, andrò verso Ponente, per traversare l’Oceano e raggiungere la Serica lontana, per i commerci e la gloria della Repubblica.

    Tra scroscianti applausi, Antonio salì sulla gondola, accese i motori, diede ordine di tagliare le cime e prese quota. Dopo qualche giorno, se ne persero le tracce.

    Gli anni passarono, senza avvenimenti di sorta: persino l'assunzione della toga virilis, avvenne in tono dimesso; mentre era consuetudine che, giunta l'età adulta, ciascun ragazzo romano fosse accompagnato in pompa magna al Campidoglio dal padre o dal tutore, io vi fui portato di nascosto, in lettiga, a mezzanotte e senza accompagnamento solenne.

    Per di più, dato che la mia famiglia riteneva che la mia condizione non dipendesse dalla carente salute, ma da una mancanza di volontà, fui tenuto sotto la tutela di un precettore ben oltre la maggiore età, come avveniva per le donne; senza alcun rispetto, questo compito fu assegnato a un barbaro, un ex-ispettore delle stalle, il cui compito non era di insegnare, ma di impartirmi una dura disciplina, a forza di digiuni e di frustate.

    Le poche volte che i miei parenti erano costretti a invitarmi a qualche banchetto, non mi facevano neppure accomodare, lasciandomi in piedi. Se ero stanco, mi sedevo accanto ai servi, addormentandomi dopo aver mangiato, mentre gli altri commensali si divertivano a tirarmi addosso noccioli di datteri e di olive, oppure se russavo, cosa assai frequente, mi infilavano scarpe da donna alle mani in modo che, svegliatomi all’improvviso, le sfregassi sul viso.

    A salvarmi da tale infausto destino, fu sempre Ottavio Taurino. Anche se non era tenuto a farlo, quando morì, mi lasciò in eredità ottocentomila sesterzi, accompagnati da un biglietto, con sopra scritto

    Ognuno è fabbro della sua Fortuna

    Lo presi in parola. Dopo qualche giorno, travestito da istrione, fuggii dalla dimora del Palatino e, zoppicando, mi recai alla Statio Iulia, per prendere il primo treno per Ostia. Lì, mi imbarcai sulla prima pironave, diretta verso l’Iperborea.

    Un mese dopo, quando i miei parenti si accorsero della mia scomparsa, tirarono un sospiro di sollievo, sacrificando un gallo a Esculapio, per poi organizzare, così mi riferirono, un grande banchetto, che durò un giorno e una notte.


    ⁸. Lione

    ⁹. I costumi dei padri

    ¹⁰. Il nostro Ottaviano Augusto

    ¹¹. Reggio Calabria e Messina

    ¹². Stanza da letto degli antichi romani

    Capitolo II: Misenus Novus

    Dopo un lungo viaggio, in cui scoprii di essere assai soggetto al mal di mare, sbarcai a Misenus Novus, all’epoca ben diverso dalla metropoli attuale, ricca d’oro e di marmi, che vorrebbe rivaleggiare con la stessa Roma.

    Ricordo il molo maltenuto, in cui erano ormeggiate quattro o cinque barche e in cui si rischiava di inciampare nelle reti aggrovigliate. Alla sua destra, vi erano due tettoie di tronchi, dove giacevano, abbandonati a se stessi, gli attrezzi di un maestro d’ascia. A sinistra, invece, partiva la strada che conduceva al vicus¹³ e poi raggiungeva la scogliera, dove era stato costruito, alla male e peggio, un castellum¹⁴ .

    La sua guarnigione era costituita dalla cohors I Frisiavonum quingenaria;¹⁵ gli ausiliari frisoni, dopo essersi coperti di gloria nella guerra contro la regina egizia, contavano i giorni che li separavano dal congedo e dall’acquisizione della cittadinanza romana.

    Il castellum, che dal mio itinerarium¹⁶ sembrava avere il nome di Maia, con le mura in pietra che si ergevano su un ripido dirupo, appariva assai più imponente di quanto fosse in realtà; mi accorsi presto di come le sue torri fossero carenti di manutenzione e di come le artiglierie poste a loro difesa, risalenti alla guerra contro i Tripodi, avessero visto giorni migliori.

    Ma, in quella sera di fine inverno, avevo solo voglia di un pasto caldo e di un letto comodo: mi fermai al vicus, una cinquantina di baracche in legno, distribuite lungo il cardo e il decumano, nei quali, come isole nel mare, faceva capolino qualche sasso, tra il fango e i cumuli di neve.

    Al centro del villaggio, vi era un’ampia capanna di legno, alla quale era stato dato il nome di Capitolium, nella speranza, più o meno fondata, di una futura promozione a municipium optimo iure,¹⁷ con tutti i diritti e i doveri di una città; davanti al suo ingresso, a ostruirne il passaggio, era abbandonato un vecchio carro a vapore dalla caldaia arrugginita, che, a seconda delle stagioni, poteva essere utilizzato per spostare le merci al molo o per trascinare un aratro nei campi.

    L’unico edificio di pietra, strano a dirsi, era quello che mi pareva essere una caupona.¹⁸ Avvicinandomi, mi accorsi dell’insegna, dove lessi, consumato dalle intemperie, il suo nome, Reatinus Gaudens,¹⁹ che pareva di buon auspicio. Tirando un sospiro di sollievo, mi pulii le calighe, come indicato da un graffito, alquanto imperioso, posto di fianco dell’uscio, ed entrai.

    Accennai un sorriso, godendomi il tepore: in qualunque parte dell’orbe terraqueo, dalla Persia all’Iperborea, dalla Germania Magna alla Tebaide, le caupone erano in fondo sempre uguali: una grande sala, con un bancone in muratura nei pressi dell’ingresso, decorato con pannelli di legno, su cui erano dipinte le cibarie in vendita, a uso degli analfabeti.

    Nel bancone erano incassate alcune giare, mentre le pareti mi parevano quasi nascoste dalle scaffalature, utilizzate per conservare prosciutti, formaggi e vasi, che, a giudicare dalla puzza, erano pieni di garum.²⁰ Devo essere onesto, con te, caro lettore: senza dubbio mi giudicherai un barbaro privo di gusto, ma io il garum, a differenza dei tutti i quiriti, non sono mai riuscito ad apprezzarlo e, soprattutto, a digerirlo!

    La stanza, come in parecchie caupone presenti a Roma, specie in quelle poste ai primi piani delle insule di nuova costruzione presso l’ex Campus Esquilinus,²¹ detto fra noi, costeranno anche poco, ma io in un ex cimitero non ci abiterei mai, non era riscaldata da fumosi bracieri, ma da un particolare camino, inventato da Ottavio Taurino; benché lui non avesse il genio del Machinarum Magister, si dedicava, più per diletto e per sfuggire alle chiacchiere di mia nonna, che per effettiva utilità, alle Res Novae.

    Trovò il tempo di inventare gli occhiali con lenti bifocali, di costruire il primo catetere elastico prodotto a Roma, alcuni viaggiatori mi hanno infatti riferito come tale cannula sia già diffusa da tempo immemorabile in India e in Serica, di studiare i fulmini, perfezionando quello strumento, concepito da Cesare, utile a proteggere le alte torri dall’ira di Giove e, con temerario coraggio, di pubblicare sui suoi giornali romani alcune tra le prime previsioni del tempo. Dopo anni, posso confessarlo!

    L’incarico di compilare tale previsioni era stato affidato a mio fratello Nerone Claudio Druso Germanico, il quale, spesso e volentieri, non sapendo cosa scrivere, prendeva un brano a caso delle poesie greche di Arato, traducendolo in fretta e furia. Il fatto che indovinasse il verificarsi della pioggia e del sereno, è una riprova della grande benevolenza che gli dei hanno sempre avuto nei suoi confronti.

    Infine, con un mio modesto contributo, Ottavio Taurino si dedicò a riflettere sulle cause ed i rimedi relativi al fumo spillato dai bracieri e dai camini. Dopo tante osservazioni ed esperimenti, il secondo marito di mia nonna fu il primo a cogliere, in un’epoca in cui nessuno sapeva molto su ciò che gli attuali filosofi naturali chiamano fluido calorico, come il fumo fosse in realtà più pesante dell’aria, e che non potesse mai risalire una canna fumaria senza l’apporto di un misterioso elemento.

    Resosi conto di come la colonna di fumo in uscita dalla canna fumaria creasse un debito d’aria nell’ambiente dove bruciava la fiamma, Ottavio Taurino dedusse, applicando la logica aristotelica, che un apporto di aria fresca dovesse essere in qualche modo assicurato alla stanza, per evitare il soffocamento delle persone che vi sostavano. Per garantire tale afflusso, propose varie soluzioni: quella che ebbe maggiore successo, per la sua semplicità, fu l’introduzione di una presa d’aria posta nel focolare e collegata all’esterno.

    Un’altra sua intuizione fondamentale, frutto dell’esperienza empirica e non del calcolo geometrico o del sillogismo deduttivo, fu il principio della proporzione tra bocca del camino e altezza della canna fumaria, oggi considerato ovvio. La speculazione sui rimedi fisici contro il fumo dei camini condusse Ottavio Taurino a suggerire soluzioni pratiche come la rimozione dei nidi di uccelli sui comignoli e ad alzare i fumaioli oltre il colmo del tetto.

    Il risultato pratico dei suoi studi fu il cosiddetto caminus luculentus²² realizzato in metallo. Un vecchio modello, ben tenuto e tirato a lucido, senza neppure un filo di fuliggine sui pannelli, sulle valvole e sui tubi, dominava il salone della caupona.

    Mi stupirono assai gli abiti degli avventori: a differenza del sottoscritto, tutti i clienti non indossavano la toga, ma erano vestiti come Galli e Britanni, con tuniche di ogni colore e lunghe braghe. I più freddolosi vi portavano sopra sai rigati di stoffa, a pelo lungo, stretti sul collo da fibule di bronzo o da spilloni d’osso.

    Se fossi Seneca o uno dei suoi barbosi discepoli, scriverei una noiosa digressione su come i climi ostili e luoghi selvaggi riducano alla barbarie anche gli uomini che in altri contesti sarebbero stati un modello di cortesia e garbo, ma debbo essere onesto: superato il primo sconcerto, condiviso anche da chi mi vide entrare nell’unica caupona di Misenus Novus come se mi pavoneggiassi nella Basilica Opimia,²³ li adottai anche io, apprezzandone la comodità.

    Mi avvicinai zoppicando al tavolo; non feci in tempo a sedermi, che spuntò dalla cucina un uomo di mezza età, dalla corporatura tarchiata, con membra robuste e ferme e il volto quasi contratto nello sforzo di sembrare pacato e pensoso. I suoi capelli erano acconciati con frangia cortissima, che soprastava con timidezza la fronte alta, nel tentativo, malriuscito, di nascondere una calvizie incipiente. L’uomo avrebbe fatto meglio a porsi sul capo una corona d’alloro, per nascondere l’evidente alopecia, seguendo la moda lanciata dal Machinarum

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