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Stranavita
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E-book319 pagine4 ore

Stranavita

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Info su questo ebook

Innanzitutto sgombriamo subito il campo da false idee fuorvianti: “Stranavita” non parla di vampiri né di maghetti, non parla di shopping né di cucina e nemmeno di nazisti e campi di concentramento; non è un giallo né un thriller; non ci sono gay e non ci sono scene di sesso, neanche una.

“Stranavita” parla, invece, di Concadelsole, il paese più bello del mondo, popolato da strani personaggi pronti a litigare per l'onorabilità di Lucia Mondella o a dedicare la propria vita ad una gara di biciclette. In questo paese surreale nascono Carlo e Angelo; che, ancora bambini, devono lasciare il paese per la città, dove conoscono Milo, uno bello e simpatico e affascinante ecc. ecc. Questi sono i protagonisti di questa storia e questa è la storia della loro amicizia. Questa storia comincia a Concadelsole, un paese immaginario delle montagne italiane, e finisce ancora a Concadelsole, passando per gli Stati Uniti, il Brasile, la Cina e la Cambogia. C'è un'umanità semplice e genuina, c'è uno che muore in maniera ridicola e un altro che muore in maniera tragica, c'è uno che scappa e uno che aspetta vent'anni, c'è la ricerca della verità, che alla fine irrompe e travolge e sconvolge le vite di tutti. Insomma "Stranavita" è un libro positivo, attraversato da un lieve refolo di speranza, in un panorama attuale così triste, tanto per fare un po' di sociologia spicciola.

La nuova sorprendente prova di Kam Ciai, finalista al Premio Rai "La Giara" 2012, fa ridere e commuove, emoziona e coinvolge.
LinguaItaliano
EditoreKam Ciai
Data di uscita10 ott 2013
ISBN9788868556181
Stranavita

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    Anteprima del libro

    Stranavita - Kam Ciai

    Indice

    CONCADELSOLE 3

    Parte prima: Nascita

    SINFONIA DI TROMBA E VIOLINO 4

    LA MADONNA DELLA NEBBIA 7

    IL FÙBBOL 14

    LA LEGGENDA DI COPPINO 20

    ODISSEA CONCHINA 27

    ILIADE CONCHINA 31

    IO E ANGELO 38

    LUCIO FERRO E IL COLLEGIO 41

    Parte seconda: Morte

    ADDIO CONCA! 44

    MILO RANACCI 47

    IL TENTATORE 49

    INIZIAZIONI 51

    I LAUREATI 55

    MORTE N.1 - COMMEDIA 60

    MORTE N.2 - TRAGEDIA 63

    ADDIO ANGELO 66

    ADDIO CARLO 68

    MORTE N.3 - STRANAVITA 71

    IL RITORNO DEL TENTATORE 75

    SALUTI ALLA CONCHINA 77

    Parte terza: Resurrezione

    MISS CARNEVALE E MISS TANGA 80

    TENTAZIONE FINALE 82

    SEX - MACHINE 85

    IO, MILO E... ANGELO 91

    SIGNIFICA SPERANZA 96

    CONCADELSOLE, PROVINCIA DI PHNOM PENH 98

    MORTE N.4 – LA CROCE 101

    FINALMENTE ANGELO 104

    TUTTO HA SENSO - RESURREZIONE 107

    UNO STROZZO CON GLI ANGELI 110

    APPENDICE 120

    CONCADELSOLE

    Sono nato a Concadelsole, il paese più bello del mondo.

    Il giorno che sono nato il mio babbo disse: come è stato per me e per il mio babbo, come è stato per mio nonno e per tutti i nostri avi, questo bambino è nato a Concadelsole, crescerà a Concadelsole, si farà una famiglia e avrà figli, campi e vacche a Concadelsole. Questo bambino invecchierà e morirà a Concadelsole. Certe cose un padre le sente.

    La mamma non volle essere da meno e aggiunse: questo bambino sposerà la donna più bella di Concadelsole e vivrà nella prosperità. Certe cose una mamma le sente.

    Ne avessero azzeccata una: da quando ho tredici anni vivo lontano da Concadelsole; oggi vivo addirittura dall'altra parte del mondo, sono moderatamente povero e assolutamente scapolo.

    Sul fatto che i genitori abbiano un sesto senso, io, per quanto mi riguarda, inizio ad avere qualche dubbio.

    Su una cosa, però, il babbo e la mamma avevano ragione: nascere in un paese è una cosa speciale. E soltanto chi è nato in un paese può afferrare il senso delle mie parole e, ne sono sicuro, essere d’accordo con me; chi è nato in città, no. Chi è nato in città non può capire la magia di un paese, lo squarcio che si apre nel cuore della persona che vi è nata e cresciuta, lo sguardo annebbiato dalla commozione. Perché il cittadino ha troppe strade da non attraversare, troppe piazze e troppe osterie da non frequentare, troppe case da non strusciare e, se anche le strusciasse, troppi proprietari di case da non conoscere, troppi volti anonimi da non salutare, troppi scorci che non evocano nulla.

    Chi, invece, è nato in un paese sa benissimo che il suo sangue ha il colore dei prati in cui ha giocato con quei bambini, che ora, cresciuti e con molti capelli in meno, siedono con lui attorno ad un tavolo dell’unica osteria dell’unica piazza, scannandosi per un asso mal giocato. Chi è nato in un paese odora dell’odore dei suoi compaesani, parla con il loro stesso linguaggio anche se vuole dire cose diverse, pensa con i pensieri dei suoi compaesani anche se non li condivide, si muove con i loro movimenti anche se vuole andare da un’altra parte. Come un unico organismo il paese vive e si riproduce, respira e cammina, si agita e si calma, corre, lavora, si ammala e guarisce, riposa, mangia, dorme, beve, si rallegra e si rabbuia, si commuove, prega ed implora.

    Il paese non è una famiglia, è molto di più di questo: è una tribù, è un clan. Puoi anche andare a vivere a migliaia di chilometri di distanza, come è capitato a me, ma dal clan non ci esci mai, neanche se lo vuoi. È come il colore degli occhi o un tatuaggio indelebile.

    Concadelsole è il colore dei miei occhi, il clan che è stato tatuato sul mio cuore. E, onestamente, – fatemelo dire – è  il tatuaggio più bello che abbia mai visto in vita mia.

    A giustificazione delle previsioni sballate del babbo e della mamma, tuttavia, bisogna anche ammettere che non era mica tanto facile azzeccarle, le previsioni. Anche perché, a memoria d'uomo, nessuno se n'era mai andato da Concadelsole e i suoi abitanti erano davvero tutti contadini: lo erano state tutte le generazioni che mi avevano preceduto e lo erano tutti i miei parenti, come, d'altra parte, chiunque altro, esclusi prete, medico e maestro. Anche il postino era contadino, e pure il proprietario dell’unica osteria/trattoria era contadino. Non avere campi e bestie, per un conchino, era considerato un disonore. Dunque anche il babbo aveva i suoi campi e le sue bestie; vacche, ovviamente.

    Anch'io sarei dovuto essere contadino e avere le mie belle vacche, se le cose fossero andate diversamente.

    SINFONIA DI TROMBA E VIOLINO

    La vita a Concadelsole, come avrete già capito, seguiva i ritmi della natura e i discorsi all’osteria giravano inevitabilmente attorno alla semina, al raccolto, ai mangimi, a quelle cose lì, insomma; ma soprattutto gli argomenti principali e, vorrei dire, fondamentali per i quali i conchini perdevano il loro tempo e per i quali arrivavano anche a contendersi la ragione a colpi di sberloni ben assestati, erano: le vacche, il ciclismo e la letteratura.

    Che adesso immagino vi stiate facendo le vostre belle risate, perché starete dicendo: vabbe' le vacche, d’accordo su quelle, d’altronde dei montanari contadini di cosa vuoi che parlino; vabbe' anche il ciclismo, in fondo ognuno c’ha un po’ le sue passioni sportive, mica si può discutere se a me piace il calcio e a te il pugilato e ai conchini il ciclismo; ma la letteratura, quella non ci crediamo, non s’è mai visto due contadini darsele di santa ragione per il Pascoli o il Carducci.

    Già, avete ragione.

    Ma solo perché non siete mai stati all’unica osteria di Concadelsole, che di nome faceva Osteria Del Sole. L'osteria  era gestita da generazioni e generazioni dalla famiglia Guglielmotti, i cui componenti era chiamati tutti Barile, ma non così semplicemente, bensì alla maniera classica: dunque esisteva un Barile I, un Barile II, un Barile il Vecchio, un Barile il Giovane, un Grande Barile, da non confondere con Barile il Grande, figlio di Barile il Piccolo ecc. Da quello che ne so io, nella lunga genealogia dei Guglielmotti / Barile soltanto uno non si fregiò del soprannome di famiglia: Coso. La mamma di Coso, che era originaria di San Piovoso, dove alla gente piace fare gli originali e i moderni e così danno nomi strampalati ai loro figli, insistette perché il nascituro si chiamasse Wilmer. Proprio così: Wilmer, un nome che sembrava un coltello, mica un cristiano. Il suo babbo, Barile il Pallido, benché debole di carattere, le tentò tutte per farle cambiare idea, consapevole dei danni che un nome simile avrebbe recato al suo figliolo; ma lei fu irremovibile. Quel bambino si sarebbe chiamato Wilmer, punto e basta, se siete un paese di antichi, affari vostri gli disse.

    Ma... Wilmer con la V o con la W? si arrese il marito.

    Stabilito che si sarebbe scritto con la W e pronunciato Uilmer, il bambino crebbe fra gli sberleffi dei suoi coetanei e lo sguardo perplesso degli adulti. Dopo vari tentativi di ricordarne il nome, che veniva inesorabilmente storpiato in Willer (Tex riscuoteva un indubbio successo fra i conchini), in Ville, in Uimme e in cento altri modi, per semplificare la pratica, Wilmer divenne per tutti: Coso. E pertanto la genealogia dei Barile da quel momento procedette con quell'inciampo: Barile il Rosso, padre di Barile Storto, padre di Barile il Pallido, padre di Coso, padre di Barile Nuovo ecc.

    Non suonava affatto bene, ma quando ci si mettono di mezzo quelli di San Piovoso, non c'è da aspettarsi niente di buono.

    Dunque, a Concadelsole l'osteria era il vero centro del paese: bastava entrarci una volta, all'Osteria Del Sole, e ti si spalancava davanti un mondo davvero inaspettato. Se per caso ti capitava di passarci una qualsiasi sera della settimana, ci avresti trovato tutti gli uomini – inteso proprio come maschi – del borgo, intenti a discutere dei loro argomenti preferiti. I sigari, e in particolare toscani e toscanelli, a queste latitudini prendevano il nome di strozzi e di strozzi se ne vedevano molti pendere fieri agli angoli delle bocche. Immersi in una fitta coltre di fumo, e seduti quasi tutti con la sedia all’incontrario, cioè con lo schienale davanti, avresti visto una parte dei presenti attorno ad un mazzo di carte, sparando a mitraglia, in un linguaggio incomprensibile agli estranei, parole che, tradotte, significavano polla e settebello e scopa e robe così; un’altra parte, invece, l'avresti trovata intenta ad urlare attorno ad una bottiglia di quello buono, argomentando con passione circa la tal vacca della tal famiglia e subito dopo del grande Orlando a Gerusalemme.

    La cosa più appassionante era entrare nel ritmo della serata, per cui senza soluzione di continuità passavi dal tavolo della briscola alla discussione sulla vacca olandese per ritrovarti poi nel bel mezzo della guerra di Troia e poi impercettibilmente di nuovo nella stalla del tuo interlocutore.

    Una capacità di sintesi pazzesca, mi pare di poter dire senza paura di essere contraddetto. Lo stream of consciousness a noi ci fa un baffo e Joyce mi sa che era passato da queste parti prima di buttar giù i suoi libri.

    Eri capace di uscirne ubriaco. A dir il vero non solo di parole, però. Perché, in questo tourbillon senza sosta, la tua mano era costantemente impegnata con un bicchiere, che, misteri dell’Osteria Del Sole, era sempre pieno, nonostante tu fossi sicuro di averlo svuotato già molte volte.

    Capitava spesso – ve lo posso giurare, perché ne ho viste coi miei occhi – che la discussione si animasse per davvero, fino addirittura al punto di darsele con la rincorsa.

    Come quella volta che Tromba (Adalberto Vacconi, detto Tromba per le sue mirabolanti doti di russatore, per altro rinomate in tutta la valle) e Violino (Franco Vaccarella, detto Violino perché ad ogni sagra intratteneva i compaesani con il suo strumento, la fisarmonica. Una confusione semantica che, tra le tante cose, causò anche un incidente diplomatico di un certo rilievo in occasione della prima sfida storica contro il paese rivale di San Piovoso. Ma di questo parlerò più avanti), ebbene Tromba e Violino iniziarono una normale chiacchierata attorno ai Promessi Sposi e finirono col non rivolgersi più la parola per molti mesi.

    I presenti affermano che si stava oziosamente discettando sul povero Renzo, che doveva proprio essere innamorato per passarne così tante per sposarsi con la Lucia, che poi l’era stato fortunato a trovare quel frate lì che l’era proprio un bravo frate, cose tranquille così, quando Tromba se ne uscì con qualche apprezzamento di troppo sulla Lucia, la quale – ne riporto esattamente le parole, come confermato dai testimoni – secondo il mio modestissimo parere l’era anca brutta e spaccaballe, par me. Non l’avesse mai detto! Violino non poteva accettarla una affermazione del genere.

    C’è da dire che Violino da giovane s’era preso una specie di cotta per la Lucia, cioè proprio come se fosse una morosa vera, di carne e ossa: era arrivato perfino a scriverle alcune lettere, che aveva anche consegnato al postino, nonostante i suoi rifiuti (più che altro motivati dal fatto che le lettere non riportavano l’esatto indirizzo del destinatario). Non ricevette mai risposta e la cosa lo segnò nel profondo, ma nello stesso tempo lo aiutò anche a superare questo innamoramento perlomeno complicato – diciamo così. Potete quindi capire che per Violino, benché il suo innamoramento fosse ormai cosa vecchia e passata, un’offesa alla Lucia era qualcosa di inaccettabile.

    Avvenne allora che la discussione tra Tromba e Violino si alzò sempre più di tono e che nessuno dei due volesse chiuderla con una bella bevuta, come si usava dalle nostre parti. I due allora trascorsero la notte all’osteria, mentre tutti gli altri avventori se ne ritornavano alle loro case, compreso l’oste, che consegnò le chiavi del locale e si raccomandò di chiudere con tre giri, quando si fossero messi finalmente d’accordo sulle qualità della Lucia.

    Però, all’alba del giorno successivo, tornato per la normale apertura del locale, li ritrovò esattamente nello stesso punto in cui li aveva lasciati la notte precedente, con Violino che, occhio destro leggermente tumefatto, puntando i pugni su un tavolo, urlava sdegnato: tu, certe cose della Lucia, non le devi dire, la devi lasciare stare, hai capito? e Tromba che, vestiti laceri, puntando a sua volta i pugni sul tavolo, ma dall’altro lato, rispondeva con una certa tracotanza: allora tu ritiri quello che hai detto della suora, che zoccola a lei non ce lo dici, va bene?.

    Si riferiva alla Monaca di Monza, per la quale Tromba, da quando la sua unica sorella Maria aveva lasciato la famiglia per entrare in convento e vestire gli abiti religiosi, nutriva un sentimento come di difesa ostinata, misto ad un certo senso di rabbia per i comportamenti di cui si era macchiata e che per osmosi gli pareva macchiassero tutta la categoria delle suore.

    Gugliero Guglielmotti, Barile Pacifico, non fece una piega, sistemò i tavoli e le sedie, diede una pulitina in giro; alla fine si decise a ricordare ai due che le vacche nelle loro stalle aspettavano di essere munte. I due, all'espressione vacche da mungere, si zittirono di colpo e si avviarono verso l’uscita. Sull’uscio, però, la discussione riprese sullo stesso tono di prima e proseguì poi lungo tutta la via principale del paese. Per fortuna la stalla di uno era a nord e l’altra a sud, cosicché, pur continuando ciascuno a far valere le proprie ragioni e aumentando il volume della voce perché l’altro sentisse, le loro strade si divisero e la discussione ebbe, per il momento, fine. Eggià, perché poi Tromba e Violino per mesi proseguirono la loro personale sinfonia, scontrandosi ogni qualvolta le loro strade si incrociassero. A Concadelsole sappiamo essere ostinati e testardi, se vogliamo.

    Quando, però, anche il paese iniziò a dividersi tra Luciani e Monachini, a sostegno dell’una e dell’altra parte, allora si decise di radunare il consiglio degli uomini: succedeva che, se le questioni assumevano una dimensione di un certo rilievo, tutti gli uomini venivano convocati all’osteria per mettere le vacche in stalla (che qui le vacche non c'entrano, ma era un modo di dire per significare che bisognava sistemare le cose, ma forse si era già capito).

    Entrambi i contendenti esposero le loro ragioni, l’uno in difesa dell’onorabilità di Lucia, l’altro della Monaca di Monza. Dopo circa quattro ore di consiglio, si convenne che entrambe le signore meritavano rispetto, se non altro per il semplice fatto di essere femmine. Si stabilì, dunque, che i due contendenti ponessero fine alla loro discussione, chiedendo scusa all’avversario e alla rispettiva femmina da lui difesa.

    Prese allora la parola Tromba, che tra i due era da ritenersi effettivamente il più coraggioso; strozzo all’angolo destro della bocca, un poco impacciato, come un bambino messo in castigo, disse: allora, mi rincresce di averci detto quelle brutte cose alla signorina Lucia Promessa Sposa e anche al signor Dottor Manzoni Alessandro, che il suo libro vorrei dirci che mi piace anche molto, per altro. Io credo anche che la signorina Lucia l’era buona e secondo me sapeva mungere molto bene. Ci vorrei anche chiedere scusa a Violino e vorrei offrirci uno strozzo speciale, che c’ho da parte nel cassettone. E ci chiedo scusa anche per lo sganassone all’occhio, ma m’era preso il nervoso.

    Violino se ne stava lì davanti tutto impettito e, strozzo spento all’angolo sinistro della bocca, si sforzava di mostrarsi ancora piuttosto indignato. Quando, però, venne il suo turno, disse: perciò, voglio subito dire che accetto le scuse di Tromba, che spero che ha capito che la Lucia è una femmina speciale e non è giusto dirci certe cose e qui iniziò a sciogliersi e anche a commuoversi un po’, perché Violino era di animo sensibile e soprattutto perché c’aveva ‘sta vecchia storia d’amore con la Lucia, che ancora lo tormentava.

    Schiaritosi la voce, proseguì: e però anche io ho esagerato un poco, che la signora suora Monaca di Monza già solo che è suora bisogna darci rispetto, e poi alla fine anche lei ci dispiaceva delle corbellerie che aveva fatto. E poi anche io chiedo scusa al signor Dottor – qui forse esagerò un po’ – Commendator Manzoni Alessandro, che l’ho letto almeno due volte il suo bel libro. Finendo ci chiedo scusa anche a Tromba e chiedo a Barile di versarci un bicchiere di vino della Madonna (da non intendersi come imprecazione, dal momento che le bestemmie a Conca erano di fatto sconosciute; si trattava invece del vino delle grandi occasioni, di solito versato solo in occasione della festa della Madonna della Nebbia).

    La chiusura del consiglio spettava all'Ultimo, una specie di Sindaco, tanto per intenderci, che si chiamava così perché toccava a lui parlare per ultimo. Nel silenzio generale, in mezzo a centinaia di colonne di fumo che uscivano dagli strozzi infilati nelle bocche dei presenti, si levò la sua sentenza: bon, allora l’è a posto!.

    Si scatenò un fragoroso applauso e pacche sulle spalle di Violino e Tromba, che nel frattempo si era avvicinati l’uno all’altro e si davano a loro volta maschi colpi sugli omeri in segno di pace ritrovata.

    L’Ultimo volle anche che si dichiarasse in via ufficiale che il villaggio contadino di Concadelsole ha il massimo rispetto di tutte le femmine del villaggio e anche le femmine di tutto il mondo intiero. Codesto villaggio c’ha, inoltre, massima stima delle signorine Lucia Mondella e Monaca di Monza, nonché tutti qui hanno letto almeno una volta il capolavoro dell’Illustrissimo signor Dottor Manzoni Alessandro che si intitola I Promessi Sposi e quasi tutti dicono che ci è pure piaciuto molto, tranne quell'ignorante di Peracotta, che però non bisogna farci caso.

    Qualcuno propose di inviare anche una missiva alle suddette signorine, ma venne sommerso dagli sberleffi degli altri, visto che ormai entrambe erano belle che morte da un pezzo. Tromba, a questo punto, corse a casa a prendere dal cassettone lo strozzo della pace, che poi accese a Violino, il quale a sua volta versò a Tromba un bicchiere del vino della Madonna.

    La serata continuò in un clima di sagra, con Barile che svuotò almeno metà della cantina e con i conchini che fecero ritorno alle loro case quasi tutti ubriachi.

    Perché, certe volte, una bella ciocca è d'uopo.

    LA MADONNA DELLA NEBBIA

    La festa della Madonna della Nebbia era veramente il momento clou della vita del paese.

    Tutto aveva avuto inizio molti e molti anni fa, a seguito degli eventi che riguardarono Piccolino, suo figlio Antonio e la vacca Speranza.

    A quei tempi la vita a Concadelsole non era molto diversa da quella dei lustri a venire: campi, vacche, osteria, chiesa, strozzi, stracchino e salame, uomini coi baffi e donne coi bambini. Anche Piccolino aveva la sua famiglia, il suo piccolo campo, la sua piccola stalla con tre piccole vacche. Egli era in realtà un uomo dalla grossa corporatura, alto sopra la media, spalle larghe, gambe forti e lunghissime braccia che gli penzolavano giù fino quasi alle ginocchia.

    Per l'anagrafe era Gino, Piccolino lo era diventato nel momento in cui ci si accorse che, nonostante i sedici anni ormai compiuti, per chissà quale strano motivo o malattia, pareva non essere cresciuto adeguatatamente, tanto da sembrare ancora un bambino di dieci anni. Il padre Antonino detto Tò e la madre Maria Franca le avevano provate tutte per sbloccare la situazione. Per mesi, per esempio, avevano nutrito il loro unico figlio maschio con quantità smisurate di cibi iper-nutrienti: montagne di uova, zucchero, carne rossa, pane.  E lardo, pasta, zabaione, trippa e molto altro. Alla fine dei tre mesi Piccolino era esattamente come prima; e se all'inizio della cura, anziché un adolescente, sembrava un bambino, ora semplicemente sembrava un bambino grasso.

    Non mi pare che il sistema funzioni. E poi non abbiamo più vacche da macellare ammise il padre,

    già costatò la madre, e nemmeno vestiti che gli vadano bene.

    Si decise allora di tentare l'allungamento forzato: Piccolino trascorse così altri tre mesi con le braccia legate al trave portante della stalla, a penzoloni fra le poche vacche che erano rimaste al padre. Ogni giorno il padre, cercando di celare alla meglio gli occhi umidi, dopo averlo accarezzato, gli legava i polsi e lo appendeva lì in mezzo. A mezzogiorno lo faceva scendere per prendere un magro pasto – per recuperare il peso forma perso con la precedente cura – e poi, dopo averlo di nuovo accarezzato, lo risollevava. La sera veniva calato e misurato sempre allo stesso pilastro: ma ogni giorno l'altezza rimaneva inchiodata alla medesima tacca, soltanto le braccia si allungavano a vista d'occhio.

    In compenso, durante le sue interminabili giornate a livello del tetto, Piccolino imparò il silenzio: conobbe il piacere di osservare le persone e le bestie a distanza. Oltreché il piacere del bagno quotidiano, per eliminare l'odore di sterco – cosa piuttosto rara da quelle parti. Quando le braccia raggiunsero una lunghezza non più accettabile, il padre ammise il fallimento dell'ennesimo esperimento: non è più un cristiano...è un salame a forma di mulino,

    un salame andato a male, però volle sottolineare la madre, che quell'odore di vacca, di cui il figlio era impregnato, ormai non lo sopportava più.

    Ci fu, dunque, un summit tra genitori, medico e parroco: radunati attorno al figlio disteso nel suo letto, le autorità scientifiche ed intellettuali del paese sentenziarono che il caso destava molta curiosità e che non si palesava nessuna soluzione, concludendo in modo alquanto vago e fatalista:

    la Natura fa strani scherzi, a volte disse il dottor Vaccasana.

    Siamo nelle mani del buon Dio, in simili casi disse monsignor Vaccasanta.

    I genitori di Piccolino congedarono i luminari consegnando l'obolo dovuto ad entrambi. Una volta usciti, fu Maria Franca a rompere il silenzio pensoso che si era creato: tu c'hai capito qualcosa?

    Antonino detto Tò rispose: quasi niente

    secondo te lo guariscono?

    mi sa di no

    ah beh, allora...

    già.

    Ci fu ancora un lungo momento di silenzio, di nuovo rotto da Maria Franca: ma allora cosa serve studiare così tanto?

    a vestirsi bene e trovare le parole, quando c'è niente da dire.

    Passarono i giorni e il problema rimaneva tale e quale, finché, guardandosi negli occhi, si dissero l'un l'altra: ci rimane solo quello.

    Dire quello, muovendo quasi impercettibilmente la testa verso la montagna, era sufficiente dalle nostre parti per intendersi: era venuto il momento di di strappare al Cielo la grazia desiderata, recandosi in ginocchio sul monte Misericordia, dove sorgeva una piccola edicola dedicata all’Immacolata.

    Così, una mattina di settembre, Maria Franca e Antonino detto Tò si avviarono di buonora lungo il sentiero sassoso che conduceva al sacello. Fu una vera impresa, che costò fatica e – letteralmente, potete ben immaginare – sangue, alle ginocchia. Giunsero in cima stremati, ma sereni: il grande sforzo pareva pesare sul corpo e non sull’anima. Recitarono un’intera corona del rosario e fecero, quindi, ritorno a casa.

    Giunti ormai a destinazione, Maria Franca disse al marito: Tò, non sentivi una strana pace su alla cappellina?

    effettivamente l'aveva sentita: eh già disse Antonino detto Tò,

    e non la sentivi anche scendendo dal monte?

    effettivamente l'aveva sentita anche scendendo dal monte: eh già disse Antonino detto Tò,

    e non ti è sembrato che ci fosse come una voce nel cuore che ci diceva di avere fiducia?

    effettivamente gli sembrava anche a lui di aver sentito quella voce nel cuore: eh già disse Antonino detto Tò,

    e le ginocchia non facevano neanche più male, vero?

    Antonino detto Tò pensò che, scendendo, lui aveva provato un male alle ginocchia che a momenti si metteva a piangere, allora disse: ciascheduno c'ha le sue sensibilità diverse e sperò che il dolore provato non fosse ostacolo al miracolo.

    Entrati in casa, corsero da Piccolino, che ritrovarono esattamente come lo avevano lasciato, e cioè – potremmo dire – nelle stesse dimensioni.

    Che facciamo adesso? chiese la madre,

    aspettiamo rispose il padre.

    Così si misero in attesa: nei giorni seguenti la fiducia nella Grazia non perse di intensità. E l'attesa non fu vana: un bel giorno si accorsero che i pantaloni di Piccolino cominciavano ad essere corti e le camicie strette. Non osavano dirselo, ma qualcosa stava accadendo. Fu così che, giorno dopo giorno, Piccolino cominciò a metter su centimetri in altezza e in larghezza. Nel giro di qualche mese aveva ormai raggiunto le dimensioni adeguate alla sua età. Soltanto le braccia rimanevano più lunghe del normale, ma di fronte al miracolo non si può essere meschini e pretendere il superfluo.

    Troppa grazia, Madonnina cominciarono a dire in segno di ringraziamento alla fine del rosario quotidiano.

    Pareva, tuttavia, che Piccolino non si fermasse più, come se il ritardo stesse ora esplodendo e sprigionando l'energia accumulata nell'attesa. I genitori lo videro diventare alto come il padre, poi sorpassarlo, poi far fatica a passare dalle porte e non stare più nel letto...

    Davvero troppa, 'sta grazia, Madonnina dissero una sera.

    Si decisero

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