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La canaglia felice
La canaglia felice
La canaglia felice
E-book278 pagine3 ore

La canaglia felice

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Info su questo ebook

Pubblicato nel 1885, sotto l'influsso di Émile Zola, "La canaglia felice" rappresenta l'approdo di Carlo Righetti al romanzo sociale. In una Milano sordida, abitata da popolani miserabili e piccoli criminali di ogni sorta, la prostituta Bigietta, di stanza nel quartiere di Porta Ticinese, si ritrova contesa fra lo scaltro Tito Marogna e il conte Massimiano Sparvieri. La sua vita, però, verrà sconvolta dal subentrare di un altro personaggio, molto diverso dagli individui con cui solitamente Bigietta si trova ad avere a che fare. Carlo Rey, infatti, è un ricco ereditiere torinese, calatosi nei panni di operaio squattrinato e in cerca dell'amore. Che cosa accadrà, lo si scoprirà soltanto leggendo... -
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2022
ISBN9788728411018
La canaglia felice

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    Anteprima del libro

    La canaglia felice - Carlo Righetti

    La canaglia felice

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1885, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411018

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    INTRODUZIONE

    D edico questo studio d’una società sui generis a voi, amatissimi Gigio Perelli e Primo Levi¹, che, nel sentimento dell’amicizia, mi rappresentate due punti luminosi dei tre, che ancora mi sorridono nella vita.

    Questo mio nuovo romanzo è un seguito, o, per meglio dire, un’appendice della Scapigliatura Milanese ² .

    Ora vi dirò perché l’ho intitolato La canaglia felice.

    Ε, prima di tutto, che cosa vuol dir canaglia?

    Questa voce non è certo fra le più. gentili. Tutti la riguardano come un termine di forte disprezzo. Nei vocabolari corrisponde a gente vile ed abbietta. È un peggiorativo di popolino, di volgo, di feccia e di altre graziose parolette, colle quali coloro che hanno denari e si lavano le mani più volte al giorno, chiamano quella turba che non ha denari e non si lava le mani che il giorno del riposo festivo.

    Tempo fa i nobili muffosi chiamavano canaglia tutti quelli che non erano dei loro. Oggi non osano dirlo a tutti, ma lo pensano ancora e lo ripetono fra loro.

    Ε nondimeno di gente vile ed abbietta se ne trova anche molto in alto. Ad ogni modo quella parola non dovrebbe essere così sinistra come ne ha l’aria. Essa deriva da cane, che è, fra gli animali, il più onesto – fin troppo talvolta –, il più fedele, il più servizievole, il più intelligente.

    Εd è tanto vero che non la si dovrebbe prendere esclusivamente nel senso più vile, che oggidì gli scrittori hanno inventato parecchie sorta di canaglia. C’ la canaglia politica, la canaglia dorata, la canaglia artistica, la canaglia letteraria; le quali, tutte non si può dire che siano composte da gente vile ed abbietta, quantunque quella canaglia di Voltaire abbia lasciata scritto che quest’ultima è la peggiore di tutte.

    Nel mio studio, cercai di non trascurarne alcuna, dando, ben inteso, la preminenza alla vera canaglia, a quella, cioè, dalla quale deriva la grande preoccupazione sociale del nostro tempo.

    Qual è infatti il campo su cui oggidì si esercitano le discussioni più serie dei politici, gli studii più affannosi, dei filosofi, le paure più interessate dei gaudenti, i propositi più deliberati, degli umanitari?

    È quello della canaglia.

    Divenuta flagrante è la questione della lotta per la vita. La ingiustizia evidente, che risulta dal possesso di ricchezze esuberanti degli uni senz’alcun merito, di fronte alla spaventosa nudità degli altri senza alcuna colpa, ha suscitataa controversia, che non può terminare senza un grande esito.

    La ribellione sorda, latente, pertinace di chi sta troppo male, contro chi sta troppo bene, non può cessare, qualunque cosa avvenga. Idee codeste, sapute, risapute, ridette ed ammesse da tutti.

    Se non che, quella ingiustizia, quelle nudità, quelle miserie, in una parola quella controversia, ha talmente assorbita l’attenione di tutti: filosofi e romanzieri, politici e poeti, statisti e drammaturghi, ed ha, da qualche tempo, ispirato così esclusivamente le produzioni della letteratura e dell’arte contemporanea, da lasciare assolutamente dimenticata in un canto quella parte di canaglia che vive contenta e felice.

    Dai Miserabili di Vittor Hugo fin giù giù agli aborti pornografici di qualche realista per burla, di quelli chiamati a gettare il discredito sull’arte che pretendono professare, e che altri onora sul serio, tutti i romanzieri si credettero in dovere di esaltare le miserie del povero popolo. Santo e commovente scopo senza dubbio! Ma oramai terribilmente logorato e rifrusto.

    Certamente, che il povero popolo raramente è felice.

    Pur troppo, gli ergastoli sono affollati da uomini e da donne che la sorte fece nascere e vivere in quella categoria che si chiama la canaglia.

    Pur tuttavia sostengo esistere in essa della gente felice, la quale potrebbe porgere, a quella turba astiosa e sempre pronta alle barricate, un esempio fecondo che non è punto vero la infelicità umana derivare soltanto dalla mancanza di quattrini.

    O voi tutti adunque, uomini e donne, giovani e vecchie, maritate o zitelle, che non avete mai calzato nessun guanto né ad uno né a trentadue bottoni; voi, che, se vi capita di andar a teatro, dovete infilar una porticina di fianco e montare una lunga fila di scale segregate da quelle dei signori; voi, che, se vi piglia il ticchio di andar in carrozza non avete quasi il diritto di farla fermare o per montarvi o per discenderne; voi, che, se tiraste il conto a fin di mese di quello che vi è toccato di pagare la roba comperata a risparmio ed a spiccioli, trovereste di avere speso quasi il doppio di quello che ha speso in proporzione per essa il milionario; voi tutti insomma, che il volgo ricco, dorato, educato, azzimato, fannullone, gaudente, chiama canaglia… tenetevi sù.

    Anche voi potete essere felici!

    CLETTO ARRIGHI

    Milano, 40 gennaio 1884.

    CAPITOLO PRIMO

    Q uando a Milano si seppe che il conte Massimiano Sparvieri sposava una ricchissima genovese, la gioventù galante, che è vaga di sempre fresche comparse, si rallegrò, pensando che ai balli del carnevale avrebbe avuto una nuova contessa, colla quale far stizza alle altre belle.

    Il padre della sposa, Battista Corvetto, un armatore di Camogli, sorto dal nulla, ambiva calorosamente di imparentarsi ad un conte, chiunque si fosse. Non avendolo trovato a Genova, lo aveva cercato a Milano. All’idea di poter vedere, di quando in quando, la sua Isabella scarrozzare all’Acquasola con tanto di stemma sul landau maritale, per mostrarlo ai barcaiuoli ed ai camali³, che lo avevano conosciuto canaglia, il bravo babbo gongolava tutto, senza pensare ad altro.

    La mamma Corvetto era una buona signora e nulla più. Usciva da molto civile famiglia.; ma troppo divota di Maria Santissima, e un po’ scarsa di ingegno, non aveva autorità bastante per opporsi a suo marito.

    In quanto alla Isabella, come accade spesso, l’avevano tirata fuori dal convento del Sacro Cuore, dove stava a rinfichire dai sette anni. Una bella sera aveva conosciuto il conte Sparvieri, che le dissero essere lo sposo, prima di sapere, né bene né male, che cosa volesse dire essere sposa.

    Aveva appena compiti i diciotto, ed era piuttosto bella. Ma si sa che spesso il piuttosto, in fatto di bellezza, non conta. Ella non provò né simpatia né ripugnanza pel suo Massimiano. Non possedeva ancora gli elementi da ciò.

    Nondimeno l’idea superba di diventare contessa le lampeggiò nella fantasia per quel tanto che questa, agghiacciata dalle monache, poteva mandare dei lampeggiamenti.

    Sua madre le fece un paio di predicozzi, nei quali le disse molte cose inutili e le tacque tutte le cose necessarie. Quando le domandò se lo sposo le piaceva e se presentiva che lo avrebbe amato, Isabella rispose che le suore non le avevano mai toccato neppure per incidenza di queste cose. Le dichiarò di non riuscire nemmeno a imaginarsi da lontano in che cosa consistesse questo matrimonio, che le era capitato d’improvviso, prima d’averne avuto neanche il sospetto, ma che sentiva un vero pizzicore di provare che cosa diamine fosse.

    — Pizzicore! Provare! — aveva sclamato la mamma. — No, no, non dir così, Isabella. Il matrimonio, vedi, e te l’ho già detto, è una cosa gravissima; è uno dei sacramenti più importanti; e, una volta contratto, non lo si può più disfare.

    — Lo so — rispose la fanciulla. — Ma che cosa ho detto io in contrario?

    — Tu parlavi di provare, come se si trattasse di andare fuori del porto in guscio, quando c’è maretta, per vedere se si patisce mal di stomaco!

    Un giorno Sparvieri interrogò la madre sul carattere della Isabellina.

    — Caro conte, — rispose la signora Corvetto — io credo che essa sia piena di cuore, docile come un agnello, e onesta quanto me; perché anche lei, come sa, fu allevatti da quegli angioli in terra che sono le monache del Sacro Cuore. Ma ci sarà bisogno che voi la dirigiate assai, perché essa è innocente come una colomba del buon Dio. Non le lasciate la briglia sul collo, come mi hanno detto sia venuto di moda oggi a Milano. Quantunque educata nelle massime della nostra santissima religione, che non lascia mettere piede in fallo, pure non si sa mai! E soprattutto, mi raccomando, non le permettete di leggere romanzi, né francesi, né italiani.

    Il matrimonio si celebrò a Milano.

    Schierate sulla piazza della Scala, dinanzi alla facciata della gran catapecchia municipale, i fannulloni contarono trenta carrozze.

    Sul sagrato della parrocchia, dove gli sposi ricevettero la benedizione nuziale, ne contarono trentasette.

    Questo aumento di veicoli, stemmati e non stemmati, dinanzi alla chiesa, fu molto commentato nelle case per bene. C’erano dunque dei parenti dello sposo o della sposa che non riconoscevano il matrimonio civile?

    Grave importantissima questione!

    45

    Passata la luna di miele, la signora Corvetto madre tornò a Milano a far visita agli sposi. Li trovò che stavano in gran treno, nell’avito palazzo Sparvieri, ma non ebbe troppa ragione di rallegrarsi dell’umore della figliola.

    La prima cosa che essa notò fu che la Isabella si era messa disperatamente a leggere quei fatali romanzi, che lei paventava tanto.

    Ne trovò uno su ogni tavolo. Ne la sgridò.

    La Isabella le rispose che glieli aveva portati suo marito, e che il confessore glieli aveva permessi.

    Poi si avvide che Massimiano la trattava come una bambina, e non ne era punto invaghito.

    Si sarebbe detto che, se egli avesse potuto sposare le ottocentomila lire della dote e lasciare la Isabella a Genova, lo avrebbe fatto volentieri.

    La sposina lo affogava con mille domande, con mille perché, ed egli le rispondeva a fior di labbro, sfiaccolato, senza capirne la suprema importanza, proprio come si risponde dagli attempati ai ragazzi curiosi.

    Rimaste sole un giorno madre e figlia, quella domandò alla sposa:

    — Egli però ti tratta bene, non è vero? Non ti impedisce di adempiere i tuoi doveri di religione?

    — No, mamma. Egli mi lascia la mia piena libertà. Troppa libertà! Egli si cura poco di me.

    — E il suo dovere lo adempie?

    — Dovere! — sclamò Isabella. — Quale dovere?

    — Eh diamine! Quello ch’egli ha verso di te come tuo marito.

    — Ah! — fece la sposa ridendo. — Tu lo chiami dovere, mamma? Mi rammenti la scuola! Io non sapevo che fosse un dovere!

    — Ma dunque egli non ti ha istruita di nulla; egli non ti discorre di tutto ciò che va saputo nel tuo nuovo stato?

    — No, mai. Dice che sono fredda, che sono un pezzo di marmo, e che ci vorrebbe troppo tempo prima che io potessi diventare come piacerebbe a lui che io fossi. Ma poi non mi spiega come dovrei essere, e che cosa dovrei fare per piacergli. Ah mamma, tu mi raccomandi di non leggere romanzi! Ma se io non leggessi un poco, guai a me! Io credo che egli cesserebbe anche dal discorrere con me, tanto egli mi tiene per ingenua e senza malizia.

    — Ma tu che cosa provi per lui? Lo ami o non lo ami?

    — Oh io l’amerei volentieri, l’amerei forse alla follia, se egli cercasse di farsi amare da me. Io sento una specie d’attrazione verso di lui; ma egli invece non fa nulla, nulla per attaccarmi a sé, né per esaudire le mie curiosità flagranti, né per farmi capire che cos’è il vero amore, che pur io trovo così bene descritto nei libri che leggo. Non mi sgrida mai, non mi ha mai dato nemmeno il più piccolo sgrugno…

    La madre guardò esterrefatta la educanda del Sacro Cuore.

    — Che cosa diamine dici, di grazia? Sei tu dunque la contessa Sparvieri che parla? Come mai t’è cascata in mente l’idea degli sgrugni?

    — Non è cascata in mente a me. Io conosco una signora, che è maritata da due anni, la quale, in gran confidenza, mi disse che suo marito la picchia, perché ne è gelosissirno, e che essa ne è felice, perché lo ama.

    Ma tu conosci forse qualche moglie di camalo?

    — No, no, tutt’altro. E una baronessa!

    — E la si lascia battere?

    — Come! Ella dice che è una gran prova di amore.

    — Vergine benedetta! — sclamò la buona signora alzando gli occhi al cielo. — Oh che tempi, che tempi!

    — Eppure, mamma, è proprio così.

    — Credimi, Isabella, questa tua baronessa sarà forse uscita dalla feccia del volgo. Una donna per bene non dice di queste cose… e sopratutto non le soffre.

    — Sarà benissimo! Ma ora non si parla di convenienze più o meno aristocratiche. Si parla di amore. Massimiano invece con me è tutto al rovescio del marito della baronessa. È buono, ma indifferente. E poi, che ti dirò? non ha riguardi, non è niente affatto poetico, mangia troppo, mette pancia, e qualche volta, dopo tavola, oh mammà, anche lui, come il babbo… La Isabella non disse la brutta parola, ma fece colla mano un piccolo gesto eloquentissimo.

    — Eh via! — disse la madre. — Queste le son cose da nulla. E tuo padre dunque? Faceva di peggio! A queste inezie ci si passa sopra, quando c’ l’affezione e la stima reciproca. In principio anch’io, da sposa, certe cose mi facevano un effetto orrendo; ma poi mi ci avvezzai e ne ridevo. Ciò che non mi torna è di sapere che tuo marito non si dà cura di… di spaniarti il cervello sui pericoli che potresti correre colla tua testolina…

    — Quali pericoli, in nome di Dio? — domandò la contessa.

    — Eh, cara mia… di tutte le sorta… — E tacque.

    — Ecco, — sclamò la Isabella, — anche tu precisamente come lui. Mi buttate là delle frasi a mezzo, e io resto continuamente all’oscuro. Tutto è ancora un mistero per me. Io ho qui nella testa una miriade di curiosità insistenti, urgenti, angosciose, e nessuno mi aiuta a rischiararle. Vedo e sento in società certe cose che mi gettano in un continuo stupore. Ah quelle mie suore erano pure le stupide creature! Massimiano è gentile con me, non dico, ma io ho capito che noi due viviamo di una vita assolutamente diversa. Lui capisce forse troppo me, e io non capisco lui. Egli non sa farsi amare, ed io, mamma, provo uno sterminato bisogno di amare…

    — Ahimé! ahimé! — gemette la matrona dimenando il capo.

    Stette un po’ sopra pensiero, poi domandò a sua figlia:

    — Non ti saresti accorta per caso, che egli…non saprei, non ti sei accorta di nulla?

    — Di nulla in che senso? — domandò la contessa ben lontana dall’idea di sua madre.

    — Via! Che egli potesse avere, per caso, una qualche coda di relazione… pel mondo… un qualche resto di attacco… sai bene… gli uomini!

    — Ah no, poi! — rispose con molta vivacità la Isabella. — Questo non mi è neanche passato pel capo. Guai a lui! Perché mi avrebbe pigliata me se dovesse aver un attacco a qualche altra donna?

    La madre si guardò bene dal rispondere alla sua Isabella la ragione sovrana della dote.

    Del resto su questo punto ella non sentiva rimorsi. Di ricambio non aveva lui portata a sua figlia una corona di contessa?

    Erano patti e pagati.

    Rispose:

    — Bene, sappi fare, e manda via tutte quelle diavolerie che mi dici di aver in testa. Confida sopratutto nella protezione di Maria Santissima e consulta spesso il tuo confessore. Nel matrimonio, vedi, l’amore è cosa superflua, una cosa perfettamente inutile.

    — Oh mamma! È ciò possibile?

    — Ma sicuro, credilo a me. Basta la reciproca stima, basta la tranquillità d’animo, il buon accordo…

    La contessa si fece pensierosa.

    — A che cosa mediti ora?

    — Ma dunque l’amore non esisterà che fuori del matrimonio? — sclamò la contessa colla logica di un cuore ingenuo, ma già avviato alla china fatale. — È dunque vero che il matrimonio è la tomba dell’amore?

    — Via, via non facciamo discussioni ora. Quanti anni ha tuo marito, che non me ne rammento?

    — Trent’otto.

    — Vent’anni di differenza, è proprio quel che ci vuole. Egli è nel fiore dell’uomo. Se saprai fare e se ti conserverai devota e col santo timor di Dio vedrai che sarai felice, non dubitare.

    La buona donna parlava, pur troppo, come si parla dalla massima parte delle madri italiane: a frasi fatte.

    Ciò che ella aveva in mente di più opportuno, di più efficace, di più carnale, non lo voleva dire; e ciò che avrebbe potuto dire di più serio, di più buono, di più profondo, non l’aveva in mente.

    Stette pochi giorni a Milano, poi fece ritorno a Genova, lasciando la Isabella desolata per la sua partenza.

    CAPITOLO SECONDO

    Massimiano Sparvieri era un gentiluomo in tutta la portata del termine. Discendeva da antica prosapia, e nello stemma teneva inquartati un levriere in campo d’oro e la biscia viscontea in campo azzurro.

    Il capostipite infatti, il fondatore della contea, nel secolo dećimoquarto era stato nominato guardiano dei molossi di Barnabò Visconti e aveva, a quel che pare, dimostrato uno zelo così sopraffino nell’esercizio delle sue funzioni cagnesche, che quell’eccellente creatura di Barnabò lo aveva creato conte e feudatario di un villaggio del basso milanese.

    La cronaca pretende che, insieme alla ferocia, avesse contribuito a procacciargli il feudo e il permesso di inquartare la biscia nello stemma, la presentazione, da lui fatta al buon Duca, di una sua nipote formosissima, la quale era diventata per qualche tempo la favorita, e aveva finito come tante altre in un pozzo irto di punte e di lame taglienti.

    Liberale coi poveri, uomo di studio, ma non indifferente per il bel sesso, Massimiano aveva speso, dopo la morte di suo padre, assai più di quello che le sue rendite comportassero.

    Una cosa strana si notava in lui. Aveva tre passioni che non sono avvezze a trovarsi unite insieme. Era bibliofilo, grande amatore di cavalli, e tirava discretamente alle gonnelle.

    All’infuori di queste, si mostrava assai sgloriato. Gli avevano proposta più volte la carica di consigliere municipale e di deputato e aveva sempre risposto un no reciso.

    Nondimeno fra gli azionisti della Perseveranza⁴ egli era sempre stato il più pronto a versare le rate, finché il giornale ebbe bisogno di versamenti.

    Il suo nome non mancava mai dinanzi a egregie somme, quando si trattava di sottoscrizioni pel bene publico; ma soleva dire di non aver cognizioni bastanti per servire degnamente il paese.

    Né ci teneva a passare per un uomo serio. Da giovinetto aveva corso anche lui una famosa cavallina, e s’era compromesso discretamente colle etere che non l’avevano mai preso sul serio. Possedeva una biblioteca di incunabuli e una raccolta di cimeli e di stampe antiche e moderne, fra le migliori di Milano. E la comparsa sul Corso di un tiraquattro perfetto era per lui una questione molto importante che la caduta o l’avvenimento di un ministero.

    Questi, pensava lui, poco su poco giù sono sempre uguali e sono sopratutto indispensabili, mentre un tiraquattro perfetto non lo si vede che « ad ogni morte di vescovo ». Egli ambiva di far dire che nessuno sapeva attaccare come lui, e che nessun altri teneva a cassetta un cocchiere più inglese e un palafreniere più bello de’ suoi.

    Erano state quelle tre passioni, pur così disformi, che gli avevano data una scossa nel cumquibus, e che l’avevano spinto ad ammogliarsi.

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