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Io non sono come voi
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E-book304 pagine4 ore

Io non sono come voi

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Fantascienza - romanzo (227 pagine) - Sullo sfondo corroso di una società cristallizzata nell’eterno presente della Totaldemocrazia - il regime che ci attende nei decenni a venire - la vicenda criminale di un essere diabolico e proteiforme; le amicizie, le rappresaglie, la solitudine, lo scontro col Potere.


In un futuro prossimo, in un’Italia che vive un regime pseudo-democratico e di “falso progresso”, alimentato dell’indifferenza e dalla mediocrità dei molti, sorretto non dalla costrizione di un dittatore ma dall’ignavia di “un popolo storicamente incapace di dissentire”, un uomo senza nome disprezza il mondo in cui vive e, per una catena di soprusi inflittagli da individui meschini, si ritrova stritolato in un meccanismo che ne cambia la natura: apprende l’uso della violenza e decide di usarla in un progetto di rappresaglia per colpire i colpevoli delle sue sventure.

Ma chi è realmente? Un ex professore universitario, o un ex legionario della Divisione Terza? L’acuto osservatore di un mondo narcotizzato, o il sanguinario vendicatore sociopatico e moraleggiante? Un intellettuale paleomarxista, o un adepto delle teorie del Superuomo?


Nato a Brescia nel 1962, Italo Bonera ha iniziato a scrivere nel 2004 vincendo subito, col racconto American dream, il premio Fredric Brown per racconti brevi, indetto da Delos Books. Insieme a Paolo Frusca ha scritto il romanzo ucronico Ph0xGen!, finalista al Premio Urania e pubblicato nel 2010 da Mondadori nella collana Millemondi. Il thriller Io non sono come voi, ambientato nel prossimo futuro e anch’esso finalista al premio Urania, è stato pubblicato per la prima volta da Gargoyle nel 2013. Sempre con Paolo Frusca ha pubblicato l’antologia di racconti distopici Cielo e ferro (La Ponga, 2014), mentre nel 2017 per Meridiano è uscito il romanzo Rosso noir. Un pulp italiano ambientato nella lotta armata degli anni Settanta. Nel gennaio 2023 è uscito il noir Il male che fa bene con l’editore Calibano.

Suoi racconti sono apparsi nelle antologie La cattiva strada (Delmiglio, 2015), Continuum Hopper (Della Vigna, 2016), Propulsioni d’improbabilità (Zona 42, 2017), Sarà sempre guerra (La Ponga, 2017), Oltre il confine. Storie di migrazione (Prospero, 2019), Cronache dell’Armageddon (Kipple, 2020); sulle riviste Inchiostro (2017), Inkroci (2018); nel fascicolo di dicembre 2021 di Urania (Mondadori).

Il racconto L’uomo sontuoso ha vinto il premio Stefano Di Marino 2022 ed è stato pubblicato nel fascicolo Segretissimo Special nell'agosto 2022 per Mondadori.

LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2023
ISBN9788825424126
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    Anteprima del libro

    Io non sono come voi - Italo Bonera

    Prologo

    Agosto 2059

    presente

    Vegeto

    Vegeto.

    Non so con precisione da quanti giorni. Cento, mille, non fa differenza; occupano tutti il medesimo ricordo sovrascritto, identico. Giornate uguali, indistinguibili, circolari.

    Tre visite al giorno: mattina, mezzogiorno, sera. Controllo delle funzioni vitali. Temperatura, battito cardiaco, sistolica, diastolica, frequenza respiratoria, parametri e altri parametri ancora. Cinque minuti, qualcosa meno. Io neppure ci faccio più caso. E neanche loro. Inizialmente erano scrupolosi, solerti. Adesso no, è routine. Il tempo lavora, sulle persone, sulle abitudini, sui gesti. Li rende meccanici, ripetitivi, inutili. Il vivere quotidiano si riduce al nulla da segnalare. Meglio così.

    Io, intanto, vegeto.

    A mezzogiorno mi nutrono. Un sondino nasogastrico attraversa l’esofago. L’addetto del turno lo collega a una sacca trasparente. Spreme nello stomaco un materiale poltiglioso. Toglie la sacca. Se ne va. Qualche volta non lo ripulisce nemmeno più, il sondino. Così i residui si incrostano e il giorno successivo il collega impreca perché lo deve estrarre, lavare e reinfilare. Non è facile restare immobile mentre qualcuno ti spinge nelle vie respiratorie superiori un affare di plastica che scende giù fino allo stomaco. Ma finora ho resistito, senza muovere un muscolo, senza un tremito, senza un mugolio. Non mi sono tradito. Sono bravo, ce la posso fare.

    Resto immobile, sul lettino di contenzione antidecubito, gli occhi socchiusi rivolti in alto, al soffitto, ricoperti da un sottile velo lacrimale che sfoca ogni cosa.

    Il soffitto. Non ci si pensa mai al soffitto, ma bisognerebbe dargli più importanza, una maggiore dignità. Che si finisca in un ospedale, in casa propria o in un vecchio capannone da rave, sarà quella, il soffitto, l’ultima cosa che guarderemo prima che gli occhi si spengano per sempre. Il fotogramma finale della nostra vita sarà un intonaco scrostato, un angolo avvolto nelle ragnatele, un tubo antincendio: lo squallore. Meglio, molto meglio una morte violenta, ma sotto l’azzurro del cielo o il verde di una foresta.

    Dovremmo pensarci di più al soffitto.

    Su quello che sto fissando ora intravedo un segno marrone, tra le ombre dei condotti tecnologici; è una macchia d’umidità, per me indistinta. Mi ricorda la forma del continente africano.

    Ci sono stato, in Africa, due volte.

    La prima, nella Confederazione Subsahariana, al cratere dove anni fa sorgeva Mogadiscio; doveva essere un semplice avvicendamento di routine per la difesa dell’avamposto Afrofor, una missione ben pagata e di soli sette giorni, perché neppure a noi forzati della Divisione Terza era consentita un’esposizione prolungata al sito nuclearizzato. Quel che non sapevo era che ai margini del cratere sopravvivevano centinaia di Lesionati, disorganizzati e male armati, ma con la ferocia di chi non ha nulla da perdere. E noi eravamo i fottuti mercenari pagati dai loro nemici. Alla base rientrammo in nove, su dodici.

    Il secondo appalto africano, in confronto, è stato una passeggiata: Kenya, Unione Centrafricana, per la demolizione controllata di un’installazione tecnologica che dava noia a qualcuno lassù, a Londra. Con poche azioni mirate bonificammo il sito e nei giorni successivi, con tutta calma, piazzammo duecentocinquanta chili di esplosivo Magma®. Infine marciammo fino a un rilievo a distanza di sicurezza, confermammo l’esito al Comando operativo e il satellite lanciò l’impulso che accese il fuoco d’artificio.

    Memorie di vita operativa.

    Oggi, invece, vegeto.

    Ogni tanto muovo le palpebre, ma poco, e per qualche istante la realtà sbuca dalla nebbia per tornare a sprofondarvi nel giro di qualche secondo. Annuso l’odore del disinfettante a buon mercato, da vecchio ospedale delle suore. Me ne sto qua fermo e legato. Non so come riesco a resistere in questa finzione. Respiro piano. Posso farcela.

    Immagino di essere una mente senza corpo, sospesa a mezz’aria nella stanza semibuia, dal centro della quale guardo e compatisco la mia goffa materialità.

    Mi impongo un’esistenza minima, ridotto a puro sistema limbico, al controllo basilare delle funzioni vitali: battito cardiaco, respirazione, peristalsi.

    Insomma, vegeto.

    Ricordo bene l’arrivo qui, al settore Vargas della Correctional System Ltd. Gli addetti che mi perquisiscono. Gli odori di rancido, di stantio, di trascuratezza, di sudore e secrezioni corporee. La luce degli EcoLed a bassa emissione, bianca come la morte. La distribuzione vestiario. I centoquindici reclusi del raggio 11-F. La cella 460PB. La branda. Il fetido pasto serale nei piatti di ecopolimero sinterizzato. Le prime parole sospese tra compagni di cella. Poi le presentazioni, i frettolosi racconti di ognuno. Appena in tempo perché le luci al soffitto si spegnessero con uno sfrigolio elettrico. E poi, il buio inquieto dei padiglioni. Il chiarore spettrale delle luci blu puntiformi nelle pareti dei corridoi a una spanna da terra. I rumori. I ronzii.

    La prima notte, tutta da sveglio, a pensare.

    Che fare, mi chiedevo.

    Sapevo di avere una risorsa dentro di me, e attorno a quella ideai il piano.

    Quando venni arruolato forzatamente nella Divisione Terza non ci misi molto a capire che la mia vita era appesa a un filo. Così, seguendo l’esempio dei pochi camerati anziani, trasformai la metafora in realtà. Un filo di nylon unimolecolare agganciato a un molare inferiore, al quale era appesa una capsula ermetica, scendeva nel tubo digerente fin dentro allo stomaco. Nella capsula, un grumo di Polialcaloide Viola. Lo ingoiavo ogni mattina per rigurgitarlo ogni sera. Non sapevo ancora come e quando, ma ero sicuro che prima o poi mi sarebbe servito. Rappresentava la mia assicurazione sulla vita.

    È tempo di riscuoterla, mi dissi.

    Al momento dell’arresto nessuno aveva controllato né la bocca né altri orifizi. Sì, certo, lo sapevo che non sarei stato perquisito se non dopo il giudizio del Tribunale, dopo la condanna definitiva, in occasione della traduzione in carcere, come da prassi legale. Lo sapevo, perché in tre anni nella Divisione Terza se ne conosce di gente, e tutti sono ex qualcosa: avvocati, medici, scrittori, bioinformatici, giornalisti, carcerati. E tutti vogliono raccontare una storia che si faccia ricordare. Perché, anche se alla vita nella Terza ci fai l’abitudine, come a ogni altra, te la senti sempre precaria, lì dentro, la tua esistenza, come un racconto scritto su di un foglio di carta fradicio, naufragato sulla sabbia della battigia, pronto a stracciarsi con un niente, a frantumarsi senza lasciare traccia, a diventare cibo per plancton. Ogni Terziario sa che il domani è un’ipotesi incerta e nessuno vuole tenersi dentro nulla.

    Quando venne il momento dell’ispezione corporale avevo già reinghiottito la capsula dopo averla staccata dal filo: era ormai oltre lo stomaco, lungo il percorso gastrointestinale al termine del quale avrei potuto recuperarla.

    E infatti, due giorni dopo, era di nuovo nelle mie mani.

    Il tentativo era azzardato, ma che mi restava da fare? Aveva detto bene quel pezzo di merda di Quattroemme: La prossima volta sarà detenzione vera. Infatti il giudice ci era andato giù pesante. Fine pena: mai. Che mi restava, se non scommettere il tutto per tutto?

    Decisi di agire il prima possibile.

    Avevo sostanza sufficiente per cinque sovradosaggi.

    La sera stessa ritirai il pasto per tutti i compagni di cella e chiacchierando distrattamente li servii uno a uno sul tavolaccio comune. Dopo l’ultima cena, poche parole, il tempo di una partita a carte e tutti in branda. Era stato facile infilare di nascosto qualche grano di Polialcaloide nel cibo di ciascuno.

    L’overdose di Polialcaloide provoca abulia, paralisi molle, incoscienza, e dura settimane. Il decesso sopraggiunge per inedia, cachessia, infezione delle piaghe da decubito. Il soggetto è incosciente ma, se qualcuno gli vuole davvero male, anziché abbandonarlo misericordiosamente al suo destino, lo collega a quella macchina cuore-polmoni incrociata con un fegato artificiale che tratta il sangue con una neurotossina antagonista. Dopo un giorno di terapia si ritrova sveglio, cinghiato stretto, a urlare atrocemente. Perché è l’esperienza fisica più dolorosa che possa capitare.

    Quando riaprii gli occhi, diverse ore dopo la cena al Polialcaloide, nella cella filtrava un leggero pallore che preannunciava il giorno. Alla debole luminescenza mattutina riuscii a scrutare i compagni, immobili, supini, occhi semiaperti fissi all’insù, come statue di carne plasmate da un artista splatter. Il sovradosaggio da PV aveva avuto effetto.

    È stato in quel momento che ho iniziato a fingere la stessa patologia dei miei compagni.

    Un bel putiferio, quando i gendarmi hanno scoperto che mancavano sei detenuti all’appello. Sono accorsi in massa. Hanno trascinato fuori dalla cella un paio di compagni di cella, ma non hanno ottenuto alcuna reazione. I corpi inerti si afflosciavano sul pavimento. Malgrado urla e pugni. Anch’io ho preso la mia dose, ma mi è andata bene. Sono riuscito a non reagire. Non ho risposto ai richiami dei compagni incuriositi, che mi guardavano scuotendo la testa. Non ho emesso un suono alle urla degli addetti. Non ho dato segni di coscienza neanche quando, a calci e bastonate, in cinque hanno cercato di rianimarmi. Occhi fissi, sguardo vuoto, bocca semiaperta. Non sapevo di essere tanto bravo a estraniarmi, a evadere dal mio corpo come un vagabondo delle stelle. Non so come sia possibile, non lo so spiegare. Posso solo raccontarlo. Ci ho provato e mi è riuscito.

    È vero, sono stato fortunato: non credo che avrei resistito a un colpo ben assestato in sede epatica. Ma gli addetti della Correctional System Ltd. pestano a casaccio, senza cognizione. L’addestramento costa, e questi sono solo ragazzotti forzuti delle subperiferie a cui hanno dato un manganello e un incarico di merda.

    Comunque sia, è così che ho iniziato la commedia.

    Servirà. Con un po’ di fortuna accadrà qualcosa.

    Ecco perché sono qui disteso.

    E vegeto.

    * * *

    Le carceri private sono una gran cosa. Quando il Direttorato della Giustizia le ha istituite sembravano un metodo per aumentare le occasioni di corruzione politica, ma oggi ho cambiato idea. Lo Stato risparmia soldi e il cittadino è contento. Le imprese ne traggono vantaggio, sia quelle che gestiscono le galere, sia quelle che affittano i prigionieri come manovalanza a buon mercato. I detenuti no, non sono felici. Tranne alcuni, e cioè quelli che intuiscono le debolezze della struttura, i pochi che sanno sfruttare le contraddizioni di un sistema fragilizzato dal contenimento dei costi, gli eletti che individuano l’ingranaggio nel quale far scivolare il sabot che farà grippare il meccanismo.

    La Correctional System Ltd. percepisce una quota giornaliera fissa per ogni carcerato. Come in tutte le corporation, sottratti costi e investimenti, dal bilancio deve uscire il dividendo agli azionisti. Quindi si parla di riduzione della spesa, personale ai minimi tecnici, servizi di sorveglianza all’osso, massimo sfruttamento delle risorse interne, risparmio su quanto non è strettamente indispensabile. Che gran vantaggio le società anonime. Nessuno spreco, massimizzazione dei profitti, ottime occasioni per tutti.

    Certo, ne risentono dettagli come pulizia, igiene, cure sanitarie; le celle sono sovraffollate, ma non si può avere tutto. Chissà se un carcere statale funzionerebbe meglio. Di sicuro non mi sarei ritrovato in una situazione come questa, che posso sfruttare a mio vantaggio. O forse sì. Da uno Stato gestito come una multinazionale chissà cosa ci si potrebbe aspettare.

    Nel mare di questo sistema di ristrettezze e ottimizzazioni, la cosa interessante è che l’analisi per il Polialcaloide richiede settimane di procedure e costa cinquemila EuroBuck a provetta. Quante cose si imparano nella Terza, vero? E nessuna amministrazione carceraria privata vuole spendere trentamila pezzi per ben sei analisi. Infatti, hanno ordinato il test solo sull’unico campione di sangue prelevato che – un po’ di fortuna ci vuole – non è uscito dalle mie vene. Se l’esito è positivo – e sicuramente lo sarà – per induzione logica considereranno intossicati dal Polialcaloide tutti e sei gli occupanti della cella 460PB. Cinque dei quali, stanchi di attendere il risultato, hanno nel frattempo pensato bene di passare a miglior vita.

    Ora l’amministrazione della CS Ltd. agirà di conseguenza. L’ho sentito dire quest’oggi dagli addetti: io, unico sopravvissuto, domani verrò trasferito. So bene dove mi porteranno. Il trattamento standard per l’intossicazione da PV dei detenuti, quello con la macchina che lava il sangue, viene eseguito solo all’istituto Froben, a cinquecento chilometri da qui.

    Ecco, la criccatura nel sistema.

    Durante il viaggio qualcosa accadrà.

    Intanto, vegeto.

    Fuga

    Anche oggi, vegeto.

    Occhi socchiusi. Corpo immobile. Nel ventre di un’ambulanza. C’è un gran tanfo di vomito, qua dentro, reso ancor più disgustoso all’aumentare della temperatura. A bordo con me, oltre all’autista e a un infermiere, c’è un solo gendarme armato. Ormai mi considerano inoffensivo. Non mi hanno nemmeno allacciato le cinghie di contenzione.

    L’agente penitenziario è un graduato esperto ma svogliato, anziano, vicino al congedo per sopraggiunti limiti di età. Ha già fatto due chiamate al multicomunicatore, una alla moglie e l’altra a un collega. In servizio non si potrebbe, ma lui è più interessato al calcolo del magro assegno di vecchiaia che al rispetto dei regolamenti.

    Un povero mediocre.

    Dopo qualche ora di viaggio ci fermiamo in un’area di servizio.

    I due civili vanno a svuotare la vescica, a fare la coda per un surrogato di caffè. Restiamo soli, io e il vecchio guardiano. Nella penombra dell’ambulanza, attraverso le palpebre socchiuse, lo vedo togliersi la giacca, appenderla a un gancio, spalancare il portellone alla luce del sole. Lo lascia aperto e prende una lunga boccata d’aria. Si mette seduto sul bordo del pianale, dandomi le spalle. Riesco a guardare fuori. Vedo un muro, di fronte. Le ante del portellone ci nascondono alla vista laterale. Anche questa è un’ottima cosa.

    Nella notte appena trascorsa c’è stato un temporale e avverto leggere folate di aria fresca ancora profumate di pioggia.

    …ultimo sondaggio politico della popolazione. Legalità Giustizia ed Equità sessantaquattropuntosette. Alleanza del Progresso quindicipuntocinque. Partito dell’Ordine cinquepuntotre. Forza Democratica undicipuntosei. Situazione invariata. Ancora una volta il patto di sindacato si conferma stabile. Che fortuna! Che fortuna, amici! Nessuna variazione oltre il cinque per cento. Pensate che bellezza! Da diciannove anni non c’è bisogno di elezioni. Che meccanismo magnifico la nostra Totaldemocraziaaaaaa…

    Poveretto. Il gendarme non solo ha sintonizzato il multicom su un’emittente del cazzo, ma ha pure attivato l’altoparlante. Odioso. Ma tutto sommato meglio, molto meglio per me.

    Ora il mediocre si è acceso una sigaretta.

    La sua ultima.

    Devo agire con rapidità e senza errori, mentre è distratto.

    …la dichiarazione congiunta firmata dai quattro rappresentanti dei Consigli di Amministrazione Governativo e Legislativo…

    Analisi ambientale: primo step. Alzo impercettibilmente la testa e scansiono ciò che ho a portata di mano. Alcune bende. Un laccio emostatico. Due bicchieri di materiale sinterizzato. Niente di affilato, niente di appuntito. Niente di solido. Escludo la cinghia elastica. Allungo la mano e trascino lentamente verso di me il lembo di garza. Mi muovo con cautela. La benda è lunga e sottile, poco resistente. La ripiego due volte per renderla più robusta. Si è accorciata ma basterà. Silenziosamente scendo dal lettino senza provocare scosse, mi avvicino alle spalle del gendarme.

    Trattengo il respiro, sono dietro di lui.

    E ora un pezzo musicale!

    Dal multicom partono le prime note di un motivo ingenuo e monotono.

    È il momento.

    Scatto, come la lingua di un rettile, non gli lascio nemmeno il tempo di capire cosa succede; meno di un secondo per sorprendersi e, se la forza è adeguata, un minuto per bloccare l’afflusso di sangue al cervello. La musica è irritante, note ripetute ossessivamente sullo stesso accordo. Il gendarme si agita, tenta una muta reazione scomposta. Con tutta l’energia che riesco a richiamare, serrando i denti, stringo ancor di più. Le braccia mi dolgono, improvvisamente costrette allo sforzo dopo giorni di inattività muscolare. Il MTC cade sull’asfalto, ma la musica non cessa. Lui invece, gola serrata, è incapace di emettere un solo suono.

    Ancora poco. Resistenza sempre più debole. Il loop musicale continua uguale a se stesso, mentre il gendarme, con il volto violaceo, si affloscia pesantemente sulla schiena.

    Mi allungo verso terra, afferro il modesto multicom, un Cathay Sun, e lo spengo.

    Fine.

    Due, tre secondi di pausa per riprendere fiato, non di più. Getto uno sguardo alla vittima. Grazie, vecchio guardiano, di essere stato tanto coglione.

    Ora l’operazione più difficile: estrarre il sondino nasogastrico incrostato senza urlare dal dolore. Stringo i denti mentre finisco di sfilarlo, assalito da conati di vomito che fatico a controllare.

    Respiro finalmente a pieni polmoni un misto di aria stantia e profumo d’estate. Mi sento rinato. Getto in un angolo la vecchia appendice plastica. Ha un aspetto disgustoso, ricoperta com’è di muco e residui organici. Darà il suo contributo al puzzo pestilenziale.

    Rapidamente spoglio il cadavere e ne indosso pantaloni e scarpe; per fortuna aveva più o meno la mia stessa taglia. Nella tasca posteriore c’è un portafoglio che più tardi controllerò. Mitraglietta e pistola d’ordinanza sono appoggiate sul pianale, quasi con noncuranza: le infilo nella cintura.

    Prendo la giacca e la indosso sopra al camicione. Ispeziono le tasche. Tra alcune cartacce, un paio di occhiali scuri: metto anche quelli.

    Ora posso uscire.

    Il parcheggio è inondato da un sole accecante che si riverbera sull’asfalto bagnato. Troppa luce cui non sono più abituato. Malgrado le lenti, le pupille si contraggono in una fitta di dolore. Resto un attimo immobile, come stordito. Non me lo posso permettere. Devo muovermi. I muscoli intorpiditi dolgono, ma devo ignorare le proteste del corpo e controllarmi. Mi obbligo a reagire, con un certo sforzo. Chiudo il portello e m’incammino a casaccio, cercando di programmare la prossima mossa.

    Sono libero.

    L’aria è calda ma stranamente limpida. Il temporale estivo ha ripulito l’atmosfera dagli smog giallastri, visibili solo in lontananza.

    Un buon giorno per rinascere.

    Cammino piano e guardo intorno: analisi ambientale. L’ambulanza si trova in disparte nel parcheggio, lontana dall’ingresso del bar automatico, assiepato di gente, famigliole, bambini: rappresentazione meschina di una tranquilla giornata di esodo estivo. Devo far presto, mescolati ai viaggiatori delle vacanze ci sono l’autista e l’infermiere che possono ritornare da un momento all’altro. Vedo la recinzione che divide l’area di servizio dalla campagna circostante. Mi dirigo là.

    Passo a fianco di un grosso autoarticolato molto vistoso, lucido, pieno di scritte pop, immaginette, madonnine e tubi di scappamento cromati, con il simbolo della FTS GmbH sulla fiancata. Due bambini, di sette o otto anni, mi superano correndo e si fermano pochi passi oltre ad ammirarlo come se fosse un’astronave. Forse per loro è un’astronave. Il padre li chiama. È in canottiera, a pochi metri, vicino all’auto a noleggio, un modello russo della Glubokiĭ Poisk, sintokerosene-carburo a massa ridotta.

    – Christian! Daniel! Guardate qua!

    Si girano, sono proprio accanto a me, ma neanche mi notano, come fossi invisibile. Hanno nello sguardo una luce di meraviglia che mi è sconosciuta.

    – Bella, questa. – Una voce femminile: la madre, donnina sciatta e sorridente. È accanto al beota in canottiera che ancora tiene a braccia tese davanti a sé il multicomunicatore col quale ha appena immortalato i due figli.

    E me.

    Cazzo! Io non sono davvero invisibile. Quest’imbecille ha scelto il momento sbagliato per la fotoricordo dell’indimenticabile sosta in autostrada. Testa di cazzo. È già rientrato in auto e la donna richiama i figli. C’è altra gente intorno, ora non posso rimediare, e inoltre sono ancora troppo intorpidito per un’azione di forza; sarebbe la mia fine. Invece questo autogrill deve essere un nuovo inizio. Del resto, è possibile che anche le telecamere di sorveglianza mi abbiano ripreso. Lascio perdere la squallida famigliola felice e proseguo deciso.

    Oltrepasso il cancelletto della recinzione e, come immaginavo, mi trovo in un parcheggio esterno, quello dei dipendenti. Posso procurarmi un automezzo per rifugiarmi nel Distretto Cinese.

    Quando la Gendarmeria controllerà le immagini registrate e recupererà la fotografia degli ebeti, io sarò in salvo, finalmente, a rimettere ordine nella mia vita.

    La mia vita.

    Una vita qualunque, fino a qualche anno fa, fino al giorno in cui la mia storia ha avuto inizio.

    Una tranquilla e tiepida sera dei primi di giugno.

    Tutto è cominciato con un caso che non saprei se definire banale o stupido.

    O magari, il frutto di una congiura di déi crudeli e burloni.

    Prima parte

    Giugno 2056-luglio 2056

    flashback

    "Qualcuno doveva aver calunniato Josef K.,

    perché, senza che avesse fatto niente di male,

    una mattina fu arrestato"

    Franz Kafka, 1925

    Piazza, bella piazza

    La luce del sole riverberava tra nuvole basse, la si sentiva attraversare l’aria densa di gas, dietro ai palazzi decadenti della città, e pareva che il tramonto non avesse alcuna fretta di scivolare oltre l’orizzonte.

    Ma era solo un’impressione. Anche quel giorno caldo e sereno, come tanti altri, stava per finire.

    Tante cose, quel giorno, sarebbero finite.

    Nelle serate estive mi piaceva passeggiare con calma fino al centro semideserto della città, poi sedermi, guardare le poche ragazze dalle gambe affusolate che mi ignoravano passerellandomi davanti, e aspirare il fumo

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