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Racconti paradossali
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E-book319 pagine4 ore

Racconti paradossali

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Fantascienza - racconti (250 pagine) - 1957-2015, sessant’anni di storie fuori da ogni schema. Dall’autore di La morte di megalopoli e Il medioevo prossimo venturo venticinque racconti che ribalteranno la vostra visione del mondo.


Nell’Italia dello Stato Cattolico Teocratico può essere gratificante raggiungere un brillante risultato nella ricerca, ma anche estremamente pericoloso. Come se la caverà con le ragazze un uomo i cui emisferi cerebrali sono due persone distinte? Come sarebbero interpretati i resti della cristianità in un’era futura priva di esperienza in materia? E se scoprissimo che i delfini parlano greco antico? Una nuova forma d’arte potrebbe interessare il tatto, invece dei soliti vista e udito? Come si cucina uno stufatino enzimatico? E se poi magari ci fasciamo tanto la testa ma una macchina che può vedere il futuro ci mostrasse che tutto andrà sempre meglio?

Le risposte a queste domande potrete trovarle, o non trovarle, in alcuni di questi venticinque racconti paradossali, che tracciano un filo rosso attraverso sessant’anni di carriera di uno dei più originali intellettuali italiani.


Nato a Roma nel maggio 1927, Roberto Vacca, matematico, divulgatore, ingegnere, scrittore, è stato un pioniere di informatica e automazione in Italia. Docente universitario, consulente e rappresentante governativo, ha fatto anche ricerca di logica e di teoria dei numeri. Ha adattato alla lingua italiana la formula di Flesch per il cacolo di leggibilità di un testo (indice di Flesch-Vacca). Come divulgatore scientifico ha pubblicato numerosi saggi di matematica, futurologia, fisica, fra i quali Anche tu matematico, e ha partecipato a diversi programmi televisivi.

Come scrittore ha esordito nel 1963 col romanzo Il robot e il minotauro. I suoi romanzi più famosi sono La morte di Megalopoli e Il medioevo prossimo venturo.

LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2022
ISBN9788825419405
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    Anteprima del libro

    Racconti paradossali - Roberto Vacca

    Prefazione

    La fantascienza è talora noiosa. Specie le storie ripetitive di imperi galattici. Non sono noiosi Bradbury, Wyndham, Asimov, Keyes e altri. Oltre mezzo secolo fa inventai storie divertenti per mostrare relazioni, intuizioni, concetti nuovi. La prima che scrissi fu AUTO-DA-FÉ-MATIC: per rimediare alla mancanza di fantascienza religiosa. Nel 1957 la cultura cattolica in Italia era dominante e oppressiva. Immaginai uno stato teocratico in cui i preti monopolizzavano ogni attività professionale.

    Anni dopo in tema religioso (La vera storia di Yehoshua bar-Joseph) attribuii invenzioni e abilità estreme al giovane Einstein – e usai anche l’artificio delle tracce di tempo parallele. Lavoro con i computer (hardware e software) dal 1955 e collaborai con alcuni matematici di Manchester. Avevano lavorato con Turing. Così nelle mie storie misi idee e concetti di informatica (anche erotica), teoria dei giochi competitivi, intelligenza artificiale e crittografia, paradossi e assurdità.

    Studio anche teoria dei numeri: così narro storie di matematica, ma anche di psicologia di uomini e delfini, fanta-storia, farmacologia, criminologia, tossico-dipendenza, forme di arte (figurativa, astratta, matematica) etc.

    L’ultimo racconto – Ma il futuro potrà anche essere positivo – è di fantascienza gastronomica.

    Roberto Vacca

    Auto-da-fé-matic

    (1957)

    All’ultimo piano del palazzo degli esami giungeva attutito il brusio del traffico dal viale dei Papi (l’antico Viale di Trastevere). Il Diacono Nilo Scuri, in piedi da un’ora, rispondeva alle domande rivoltegli dal Padre Psicosintesista, sdraiato sul suo lettino. Pensava: Preferirei ripetere dieci volte l’esame di servo-meccanismi, piuttosto che passare di nuovo per questo inferno.

    Quasi esaudendo quella preghiera inespressa, il Padre Psicosintesista gli disse: – Puoi andare, Diacono. Io con te ho finito.

    Il tono non era incoraggiante, ma fu con sollievo che Nilo uscì dalla stanza e si diresse alla porta accanto. Questo era l’ultimo esame. Poco interessante, forse, ma importantissimo. Sulla porta era scritto:

    Rev P. Sgama O.

    Storia del Regime Teocratico

    Il Padre Sgama, dell’Ordine degli Storici Teocratici, era noto per la sua severità. Non alzò neanche la testa e continuò a intestare con la sua calligrafia pignola la pagina del registro su cui fra poco avrebbe vergato i suoi giudizi: 22 giugno 1998. Poi cominciò a parlare:

    – Spero, figliolo, che tu ti renda conto dell’importanza di questo esame. Il rapporto dell’Oratorio Elettronico è lusinghiero nei tuoi confronti. Ma sai bene che più delle cognizioni tecniche, ti saranno utili quelle teologiche, che faranno di te un buon sacerdote, e quelle teocratiche, perché tu sia un buon funzionario dello Stato Cattolico Teocratico. Domani sarai nominato, lo spero, Reverendo Ingegnere degli Automatismi. Ma la nomina seguirà l’ordinazione. Non a caso, ché dalla perfezione del sacerdozio sono alimentate quelle del funzionario e del tecnico. Oggi, lo sai, nessuno può essere ingegnere, se non è sacerdote.

    – Sì, padre – rispose Nilo.

    – Comincio, allora, con domande facili per metterti a tuo agio. Sono le stesse che faccio anche agli esami di Diacono Perito Elettrotecnico. In che anno l’Italia fu redenta a formare lo Stato Cattolico Teocratico?

    – Nel 1970, ad opera del Servo dei Servi di Dio, Luís Medina, e per voto unanime del Parlamento, allora esistente.

    – Eh già, fu una bella celebrazione di quell’infausto 1870. Dimmi, ora, chi è il capo dell’S.C.T.?

    – Il Capo di ogni organismo umano non può essere che Dio. In casi particolari, poi, il potere è delegato ai Suoi vicari. Nel caso dell’S.C.T. che per ora comprende solo le regioni italiana e spagnola, il Vicario è il Sommo Pontefice di Roma.

    – Cosa sai dell’eresia nuovo-inglese?

    – L’eresia nuovo-inglese era l’erronea dottrina sostenuta negli anni Ottanta da alcuni gruppi cattolici americani, che volevano trasferire la sede del Papato a Boston. L’eresia fu presto domata. Ora quei gruppi costituiscono l’American Catholic Electronic Purchasing Center, che fornisce buona parte delle nostre attrezzature tecniche e industriali.

    – Bene. Conosci la legge 2 aprile 1986 sull’attribuzione esclusiva all’Ordine dei Piccoli Frati Idroelettrici dei compiti di manutenzione ed esercizio di tutte le centrali per la produzione di energia?

    * * *

    Il colletto del Cardinale era listato di verde, segno che oltre all’alta carica ecclesiastica ricopriva anche quella di Governatore di Diocesi Tecnica. Nella lista dei Reverendi ingegneri di nuova nomina c’era anche il nome del Don Ing. Nilo Scuri, assegnato alla supervisione degli automatismi di controllo della Centrale-Convento di San Lampadio, sul monte San Vittore (l’antico Monte Vettore).

    * * *

    16 gennaio 2002. Erano le sei di sera e si avvicinava l’ora di punta. Anche il terzo turboalternatore della Centrale-Convento di San Lampadio stava per essere inserito a erogare potenza sulla rete. Il Capo-centrale, che era anche Padre Provinciale dell’Ordine dei Piccoli Frati Idroelettrici, stava finendo di celebrare la funzione serale nella cappella annessa alla sala del quadro di comando. Con un leggero accento abruzzese, scandiva le parole della Colletta per implorare il successo nel fare il parallelo:

    Ut parallelum cito factum sit benigne concedas, staticam et dinamicam stabilitatem preserva quaesumus

    I fasometri e i frequenzimetri davano ora letture identiche. Il Padre Ripartitore del Carico premette il pulsante e concluse il rito con un – Deo Gratias.

    Il Padre Capo-centrale si dirigeva verso la sagrestia per svestirsi dei paramenti, quando fu fermato dal Fratel guardiano eccitatissimo:

    – Padre, sapesse! È incredibile. Non credevo ai miei occhi. Il Fratel Turbinista Cioccoloni! L’ho sorpreso che deteneva… ha tratto di tasca un’immagine. Mai visto niente di simile, Padre!

    – Sei sicuro, fratello? Bisognerà indagare. Tutti e due con me in Sala di Disciplina. Subito!

    Il gruppo di religiosi attoniti rimase in silenzio. Poi ognuno tornò alle sue occupazioni, senza un commento. Don Nilo Scuri era stato presente alla funzione, sebbene fosse il suo giorno mensile di libertà. Si riscosse e tornò al suo laboratorio ove passava sperimentando ogni ora non dedicata al servizio. Certo era incredibile. Da 10 anni erano proibite tutte le immagini – tranne i disegni tecnici. Nel ‘92 la Bolla Iconoclastiae sanctitati aveva fatto giustizia delle aberrazioni dell’arte astratta e anche di ogni effigie della persona umana.

    Nilo non riusciva a concentrarsi. Guardava ogni tanto le forme d’onda sullo schermo del suo oscillografo e poi tracciava qualche nuova connessione del circuito che stava progettando. La matita elettrolitica nella sua mano si spostava lenta sul pannello. Elvio, il seminarista apprendista, era abituato ai discorsi complicati di Padre Scuri, alle sue spiegazioni di logica, alle frasi che pronunciava pensando ad alta voce. Ma quella sera non riusciva a seguirlo. Nilo seguitava:

    – … resta il problema dei circuiti in uscita. Potrei usare due fonatori paralleli. Uno per le lingue latine e uno per le sassoni. La traduzione in linguaggio articolato è cosa fatta… e – certo! – qui potrei usare 64 supersubstanziatori. Prendimi due matrici di plutoniti, Elvio, e stasera faremo un bel passo avanti. Domattina ti occuperai di montare quegli emitter-follower.

    In quell’istante la porta si aprì silenziosamente e il Padre Capo-centrale entrò nel laboratorio. Era scuro in volto.

    – Non sembra, Padre Scuri, che teniate in gran conto le disposizioni dell’enciclica Radiationum nomina! Emitter-follower! Il Papa non ci ha raccomandato la bella locuzione latina transistor cuius emitter basim sequitur? Ma non volevo parlare di questo.

    Guardò Elvio con intenzione. Il ragazzo arrossì e non si mosse. Nilo lo tolse dall’imbarazzo:

    – Puoi andare, Elvio. Continueremo domani dopo il mattutino.

    Il Capo-centrale attese a braccia conserte che la porta si chiudesse alle spalle del seminarista.

    – Purtroppo devo confermare, caro Scuri, che il Fratel turbinista Cioccoloni è stato provato colpevole senza ombra di dubbio. Lo sciagurato feticista era in possesso di un’intera serie di immagini antropomorfe. Non lubriche, è vero, ma non per questo la sua colpa è minore. È già segregato e domani lo consegneremo al Ministero delle Inquisizioni Statali, che giudicherà le sue colpe.

    – Colpe gravi davvero – confermò Nilo, che in vita sua non aveva mai visto un quadro, né una foto.

    – Dopo questa infrazione naturalmente stringeremo i freni nella disciplina di questa Centrale-Convento. Anche il vostro laboratorio sarà perquisito domani. È solo una formalità.

    – Troppo giusto – assentì Nilo.

    – Intanto gradirei una vostra dichiarazione su questo apparecchio che state costruendo. Senza incarico o autorizzazione, credo. Di che si tratta, quale ne è il fine?

    Nilo era lusingato di avere un ascoltatore così autorevole.

    – È una macchina interessante. Anticamente l’avrebbero chiamata un robot. In effetti è una macchina logica, che simula molte funzioni del nostro cervello. Vi ho inserito le regole della logica aristotelica. Ora la sto perfezionando: parlerà oltre che pensare. Fornirà risposte in quattro lingue: italiano, latino, inglese e tedesco. Così potrà essere interrogata a voce sulla verità o attendibilità di qualunque proposizione logica e fornirà un giudizio imparziale… – Nilo fece una risatina. – Era banale la soluzione di stampare le risposte…

    – Vedo, vedo – mormorava il Capo-centrale con gli occhi fissi nel vuoto. Nilo tentò di portare il discorso su un tono più leggero:

    – La chiamo giocosamente Raimondo in onore del grande Lullo…

    – Ma, Padre Scuri, non vi rendete conto! – urlò il Capo-centrale – Perfino il nome proprio, Santo Iddio! Avete fatto la macchina che pensa. Avete fatto la macchina che parla! L’avete battezzata! Ma chi credete di essere, il Padreterno? Questo è un reato di antropomorfismo bello e buono e voi me lo spiattellate come se fosse uno scherzetto da seminarista.

    Nilo era rimasto come basito.

    – Ma nel mio tempo libero…

    – E che? Esiste forse un tempo in cui siamo liberi di commettere sacrilegi? Don Scuri, datemi retta. Non voglio compromettere un collega. Ho già abbastanza grane. Ma voi smontate subito, distruggete questa cosa, questa enormità e vedremo di passarla sotto silenzio. Occupatevi di cose serie e dimentichiamo questa triste parentesi.

    Nilo si ribellò.

    – Ma, Padre! Come potete travisare così le parole mie e gli intenti del povero Raimondo? Non lo distruggo. L’ho fatto a fin di bene. Può aiutarci a percorrere la via della verità. Sono pronto a dare una dimostrazione pubblica del fatto che Raimondo non mente mai. E sia presente anche il direttore generale delle Inquisizioni Pubbliche!

    Il Capo-centrale si irrigidì.

    – Se la prendete così, Don Scuri, non posso che dissociare la mia responsabilità dalle vostre. Non vi ho detto niente. Stasera parte la denuncia per il Ministero. Dirà che siete disposto a dare non so qual dimostrazione – certo non in pubblico. Ma questa proposta aggraverà solo la vostra posizione. Diranno: il sacrilego rifiuta di sottomettersi e dà prova di superbia e vanità.

    – Va bene. E che quei signori chiedano pure a Raimondo di dimostrare l’esistenza di Dio. È in grado di farlo non meno di San Tommaso. Sarebbe bello che snocciolasse pari pari le cinque vie dell’Aquinate.

    * * *

    Il Padre Jorge Gonzales, dell’Ordine dei Logici Scalzi e sottosegretario alle Inquisizioni Statali, meglio noto col nome religioso di Don Torquemada, presiedeva la commissione d’inchiesta. Davanti al lungo tavolo al quale sedeva con altri dieci prelati, era piazzato Raimondo: una incastellatura metallica a pianta esagonale, alta due metri, irta di valvole elettroniche, transistori, supersubstanziatori e inviluppata da fasci di fili multicolori. Nilo eseguiva gli ultimi controlli febbrili tirandosi dietro un oscillografo montato su rotelle. Don Torquemada dava segni di impazienza.

    – Vi manca molto, imputato? È un tempo lunghissimo che questa Corte aspetta.

    – Sono pronto, Eccellenza. In che lingua volete rivolgervi a…

    – Alla vostra macchina infernale? In latino, ovviamente.

    – Certo – confermò Nilo e dispose la levetta del fonatore su LATINO.

    – Potete cominciare, Eccellenza.

    Don Torquemada chiese:

    – L’imputato ha mai parlato di Dio alla sua macchina?

    – Solo di passaggio, Eccellenza. Raimondo trovò la parola Dio nell’introduzione a un libro di astronomia di Jeans. Non la capì e allora gli spiegai che – Deus non solus est sua essentia, sed etiam suum esse. – Non gli permisi di discutere in merito: volevo che si occupasse di certe questioni di calcolo integro-differenziale.

    – Se il concetto è già stato introdotto nella macchina, procedo.

    Don Torquemada aprì la sua grossa copia personale della Summa Theologica, rilegata in nero, e parlò nel microfono.

    Primum considerandum est an Deus Sit. Secundo quomodo sit, vel potius quomodo non sit. Tertio considerandum erit de his, quae ad operationem ipsius pertinent, scilicet de scientia et de voluntate et potentia.

    Un mormorio di approvazione si levò dagli altri prelati. Don Torquemada tuonò:

    – Sentiamo la risposta!

    Nilo premette il pulsante contrassegnato RISPOSTA. Per qualche istante silenzio. Poi l’altoparlante emise un fischio, dapprima flebile e acuto, poi più intenso e grave. Il fischio si interruppe. L’altoparlante emise qualche scoppiettio, poi più nulla.

    Il giovane Cardinale Orsini uscì in una risatina stridula, che gli morì in gola a un’occhiata di Don Torquemada. Nilo disse:

    – Vogliate scusare, Eccellenza. Vediamo subito l’indicatore di guasti.

    Inserì l’altoparlante dell’indicatore, dal quale uscì una voce metallica: – Spiacente. Un supersubstanziatore del fonatore per le lingue latine è in corto-circuito. Il fonatore per le lingue anglosassoni ha un filo interrotto. Posso fornire risposte solo in tedesco. Over.

    Don Torquemada era irritato.

    – Va bene. Sentiamolo in alemanno… in tedesco. Non conosco questa lingua ma Sua Eminenza Küpfmüller tradurrà e riferirà. Non perdiamo altro tempo.

    Nilo mise il selettore su TEDESCO e attese. Raimondo cominciò a parlare quasi subito. Dall’accento sembrava originario di Königsberg.

    Es sind nur drei Beweisarten vom Dasein Gottes aus spekulativer Vernunft möglich. Der erste Beweis ist der physikotheologische, der zweite der kosmologische, der dritte der ontologische Beweis. Mehr gibt es nicht und mehr kann es auch nicht geben. Ich werde dartun…

    Nilo e Küpfmüiller erano i soli ad afferrare gli argomenti stringati e brillanti di Raimondo. Ogni tanto Küpfmüller aveva un moto di sorpresa. Nilo ascoltò con sollievo la sua creatura dimostrare l’infondatezza della prova ontologica. Per ora Raimondo si era mantenuto nei limiti della più stretta ortodossìa. Ma poco dopo le sopracciglia di Küpfmüller si arcuarono di sdegno. Infatti Raimondo aveva dimostrato l’infondatezza delle prove a posteriori e ora arguiva che gli elementi di base delle tre prove erano identici. Le prove cosmologica e fisicoteologica, dunque, contenevano un’ulteriore fallacia. Promettevano di seguire sentieri diversi e tornavano, poi, sulle orme della prova ontologica, già proclamata ingannevole. Nilo era disperato. Intanto Küpfmüller stava mettendo al corrente gli altri prelati:

    – Qvesta macchina è opera tel Tiafolo. Essa ha enunciato le stesse critiche insulse di Immanuel Kant. Qvesta è profocazione preordinata. Il meccanismo tefe essere tistrutto!

    Don Torquemada lo interruppe. Si alzò maestoso e pronunciò:

    – In base alle risultanze, la sentenza inappellabile di questa Corte è che l’imputato Nilo Scuri sia sospeso a divinis. Sarà consegnato al Laboratorio Diocesano Prova Condensatori, inserito come dielettrico in un condensatore (la tangente di epsilon del quale supererà una soglia da fissare) e riscaldato uniformemente finché morte non ne consegua.

    * * *

    Dopo l’esecuzione di Nilo, il Ministero delle Inquisizioni indagò a lungo su altri casi di eresia e antropomorfismo. Nell’agosto 2002 fu abolito l’Ordine degli Oblati Cibernetici. Molti degli Oblati subirono condanne capitali. Ma presto sorse il problema di disporre rapidamente di una massa crescente di condannati. Fu risolto dal Rev. Robert Owen della Chiesa Canadese, che inventò il processo automatico detto AUTO-DA-FÉ-MATIC. Impiegava alte energie e ogni impianto annientava 10 imputati/ora. Il moderno procedimento aveva il vantaggio di non richiamare alla mente altri sistemi di esecuzione convenzionale, antiquati e giustamente desueti.

    * * *

    Il Padre Robert Owen aveva un aspetto alquanto scimmiesco. In collegio lo avevano soprannominato Bobone the Baboon. Mentre entrava nello studio del Cardinale Gonzales (assunto alla porpora per meriti eccezionali), stringeva sotto il suo braccio lungo e arcuato una cartella piena di carte. Il Porporato gli disse:

    – Ho sentito di un vostro progetto tecnico. I dettagli mi sfuggono. Ditemi di che si tratta.

    – Eminenza, è una pratica vecchia, ma interessante. Concerne la destinazione definitiva della macchina costruita dal povero Scuri. La Curia degli Approvvigionamenti voleva distruggerla. Io, invece, ho pensato a come riutilizzarla. Penso che senza spesa eccessiva potrei modificarla in modo che renda utili servigi.

    – Siete sicuro? Sapete che sono questioni delicate.

    – Oh, non c’è dubbio. Non vi tedio coi particolari tecnici, ma il prototipo funziona. Nella versione definitiva basterà immettere nel lettore il testo di una proposizione che la macchina dovrà accettare per vera. E subito la stampante scriverà la dimostrazione logica completa dell’asserto. Ovviamente aboliremo i fonatori. Non vogliamo che resti nulla di antropomorfo, vero? Così la macchina potrà essere usata all’Ufficio Studi del Ministero dei Dogmi.

    – Ottima idea, Bob. E come lo chiameremo questo apparecchio? Il nome originale, Raimondo, puzza di eresia lontano un miglio.

    – Ho pensato anche a questo. Lo chiameremo AUTO-DOG-MATIC.

    Due in una carne sola

    (1961)

    Alle undici e un quarto Joe Abrahams smise di essere ragionevolmente preoccupato e cominciò ad avere paura. Prese coscienza di questo cambiamento quando sentì gocce di sudore staccarglisi dalle ascelle e rotolargli lungo il torace. Ne immaginò subito l’odore malato e gli si strinse la bocca dello stomaco. Pensò rapidamente alla sostanziosa colazione, che aveva mangiato tre ore prima, con un odioso senso di repulsione. Poi si formò nella sua mente un pensiero ben definito:

    – Alcuni nervi e alcune ghiandole nel mio corpo stanno producendo adrenalina come matti.

    Abrahams passò le sue grandi mani sul piano liscio e bruno della scrivania, sgombra di carte per la prima volta da anni. Si tolse gli occhiali e immerse le dita fra i suoi folti capelli neri. Chiuse gli occhi. Dopo tutto aveva ragione il suo amico Klein quando diceva:

    «Ciascuno di noi conosce se stesso molto meno di quanto creda. È illusorio pensare di poter prevedere le proprie reazioni a una situazione grave o pericolosa nella quale non ci si è mai trovati prima».

    Riaprì gli occhi a guardare l’ambiente familiare del suo studio. Era naturale che niente fosse cambiato negli oggetti. Ripensò a quando era ragazzo e non riusciva ad accettare i fatti spiacevoli che gli capitavano: la malattia mortale di suo padre, lo smarrimento di una forte somma di danaro, l’aver mancato per dimenticanza un appuntamento con una persona importante. Aveva provato meraviglia, in quei casi, che le cose che lo circondavano avessero potuto mantenersi immutate come erano prima che l’evento insostenibile si verificasse. L’indisturbata costanza dell’ambiente lo aveva spinto a desiderare che il tempo si fosse fermato a prima, a un qualunque istante prima dell’inizio di quella condizione penosa. Ma ormai era un adulto normale, civilizzato, ben adattato e non avrebbe dovuto atterrirsi. Gli eventi che lo riguardavano personalmente doveva considerarli con distacco, come se accadessero a un’altra persona.

    Una volta presa la decisione di sperimentare sul cervello di un neonato, che differenza poteva fare se l’oggetto dell’esperimento era il figlio di Todhunter oppure il suo primogenito? Almeno aveva pensato così due mesi prima quando lui e Hank Todhunter avevano firmato l’impegno di sottoporre all’operazione i loro figli nascituri quando avessero raggiunto i sette giorni di vita. Allora, però, la nascita del figlio di Hank era prevista per metà novembre e quella del suo per la fine di dicembre. Si era deciso di fare l’esperimento su di un solo individuo e lui, Abrahams, si era impegnato solo per riserva, per garantire che il programma di ricerche non avrebbe subito ritardi imprevisti nel caso che a Janet Todhunter fosse successa una disgrazia.

    Janet Todhunter era caduta per le scale e ora si temeva un aborto. Abrahams attendeva una telefonata dalla signora Gibbons che gli desse notizie dalla clinica. Il telefono squillò alle sue spalle e il suo cuore perse qualche colpo. Sollevò il ricevitore e disse:

    – Qui Abrahams.

    – Oh, dottor Abrahams. Mi scusi. Sono Edmunds del magazzino centrale. Ho fatto il suo numero, ma volevo farne un altro. Mi dispiace, dottore. Uno sbaglio. Volevo chiamare…

    Abrahams non lo lasciò finire e, senza aggiungere altro, staccò la comunicazione abbassando prima la sella del telefono con la mano sinistra e, poi, deponendovi sopra il ricevitore con la destra. Un istante dopo il telefono squillava di nuovo. Lasciò che suonasse tre volte e, intanto, inspirò profondamente riempiendosi i polmoni di aria. Poi sollevò di nuovo il ricevitore e ripeté:

    – Qui Abrahams.

    – Hello, dottor Abrahams. Sono Martha Gibbons dalla clinica. Mi dispiace doverle dire che Janet Todhunter ha perso il bambino. Mi dispiace.

    – Dispiace anche a me, Martha. Grazie per aver chiamato. Ha già informato il dottor Mayo?

    – Oh, sì, dottor Abrahams. Il direttore è informato. Stava anche lui qui accanto alla sala operatoria. Anzi. È rientrato subito nel suo ufficio e mi ha pregato di dirle se può raggiungerlo subito.

    – Sì, Martha. Ci vado. Ciao, Martha.

    Joe Abrahams staccò la comunicazione e frugò nel taschino della sua giacca di tweed per cercare una sigaretta. Tirò fuori una Kent, la mise in bocca senza guardarla e la accese. La prima boccata di fumo acre lo fece tossire e si accorse che l’aveva accesa dalla parte del filtro. La spense nel grosso portacenere di cristallo senza manifestare il minimo moto di impazienza. Si alzò e uscì dalla stanza.

    Il dottor Vincent Mayo si allisciò con la punta delle dita le sopracciglia cespugliose, che arruffandosi tendevano sempre a scendergli sugli occhi interrompendo noiosamente il suo campo visivo con segmenti sfocati neri e bianchi. Le sue guance rosee e gonfie da angiolotto stonavano con le rughe numerose e sottili che gli marmorizzavano la fronte fino ai capelli radi e grigi. Si accarezzò la barbetta caprigna, alla quale pensava chiamandola pizzo alla Vandyke sebbene non lo avesse mai detto a nessuno, e guardò fissamente Joe Abrahams con i suoi occhi blu porcellana. Il discorso da fare a Joe lo aveva preparato fin nei minimi particolari mentre tornava dalla clinica: ora si trattava solo di tirarlo fuori.

    – Senti, Joe, come direttore del centro devo comunicarti formalmente la morte del figlio di Hank Todhunter e ricordarti che in base all’impegno da te firmato procederemo, quando sarà il momento, a eseguire su tuo figlio la serie di esperimenti già concordati. Come amico e come collaboratore, però, ti voglio ricordare che sarò sempre a tua disposizione, se vorrai discutere con me i tuoi problemi personali o le difficoltà che puoi avere in connessione con questa situazione indubbiamente insolita…

    Abrahams era seduto di fronte a Mayo e, mentre lo ascoltava, esplorava con i polpastrelli il bordo inferiore della scrivania antica che li separava. Seguiva, quasi inconsciamente, le irregolarità del legno e nella sua mente i grumi di colla secca delle commessure, gli avvallamenti dove l’impiallacciatura era saltata venivano formando un paesaggio ingigantito, i particolari del quale si associavano successivamente agli argomenti trattati nel discorso. Era un’abitudine che aveva preso quando, adolescente, doveva sostenere imbarazzanti interviste con il preside del college in merito a qualche sua mancanza o al suo atteggiamento negativo.

    Dovette fare uno sforzo per costringersi a interrompere Mayo e gli parve che lo scoppio di voce con il

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