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Un evento assolutamente straordinario
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E-book379 pagine5 ore

Un evento assolutamente straordinario

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Info su questo ebook

April May, studentessa di New York, sta tornando a casa alle tre del mattino quando si imbatte in una statua gigantesca che assomiglia a un Transformer con un’armatura da samurai. Impressionata, April chiama l’amico Andy per girare un video che poi caricano su YouTube. La mattina seguente il filmato, in cui lei battezza il robot Carl e si interroga sulla sua natura, è diventato virale e viene ripreso da tutti i media ufficiali. Ma New York non è un caso isolato: i Carl sono apparsi in decine di città in tutto il mondo. E lei, che è stata la prima a scoprire la loro esistenza, si ritrova di colpo al centro dell’attenzione mediatica internazionale, proiettata in un mondo scintillante che pur avendo degli innegabili vantaggi si ripercuote negativamente sulla sua vita privata e persino sulla sua sicurezza. Non solo, in qualità di principale esperta April deve scoprire che cosa siano quei giganteschi robot, da dove provengano, e soprattutto che cosa vogliano esattamente da noi. Ed è una responsabilità che non sa se è pronta a gestire.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2018
ISBN9788858991138
Un evento assolutamente straordinario
Autore

Hank Green

È CEO di Complexly, una società che ha creato insieme al fratel¬lo e che produce contenuti multimediali educativi tra cui i noti canali YouTube Crash Course e SciShow, per i quali il Washington Post lo ha definito “uno dei più popolari divulgatori scientifici d’America”. I fratelli Green hanno lanciato anche Project for Awesome, che nel 2017 ha raccolto più di due milioni di dollari per progetti di beneficenza come Save the Children. Hank vive nel Montana con la moglie, il figlio e il gatto.

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    Anteprima del libro

    Un evento assolutamente straordinario - Hank Green

    mamma!

    1

    Sentite, mi rendo conto che siete qui perché vi aspettate una storia epica di intrigo e mistero e avventura e quasi morte e morte vera, ma per arrivarci (a meno che non vogliate saltare al capitolo 13, non sono io che comando) dovrete accettare il fatto che io, April May, oltre a essere una delle cose più importanti che siano mai capitate alla razza umana, sono anche una donna di vent’anni e passa che ha commesso alcuni errori. Mi trovo nella meravigliosa condizione di tenervi in pugno. La storia ce l’ho io, e ve la racconto come voglio. E ciò vuol dire che finirete per capire me, non solo la mia storia, quindi non stupitevi se c’è un po’ di dramma. Cercherò di accostarmi a questo resoconto con sincerità, ma, lo devo ammettere, anche con una sostanziale parzialità a mio favore. Se ne caverete qualcosa, in teoria non sarà di ritrovarvi più o meno da una parte o dall’altra, semplicemente arriverete a capire che io sono (o almeno ero) umana.

    E mi sentivo decisamente una semplice umana mentre trascinavo il mio culo stanco giù per la Ventitreesima alle 2.45 del mattino, dopo aver lavorato per sedici ore in una start-up che (grazie al contratto aggressivamente di merda che avevo firmato) resterà anonima. Frequentare l’Accademia di belle arti potrebbe sembrare una decisione terribile dal punto di vista finanziario, in realtà lo è solo se devi ricorrere a un sacco di prestiti studenteschi per finanziare la tua snobissima istruzione. Ovviamente era quello che avevo fatto io. I miei genitori erano persone di successo, avevano un’azienda di attrezzature per la produzione del latte. Tipo le cosine che attacchi alle mucche per mungerle: ecco, vendevano e distribuivano quella roba là. Funzionava bene, così bene che non avrei avuto una montagna di debiti se avessi frequentato una scuola pubblica. Ma no. Io avevo scelto i prestiti. Una montagna. Così, dopo essere saltata da un corso all’altro (Pubblicità, Arte, Fotografia, Illustrazione) e aver deciso alla fine per una banale (però utile) laurea in Design, avevo accettato il primo lavoro che mi consentiva di restare a New York, lontano dalla mia vecchia cameretta a casa dei miei nella California del Nord.

    E si trattava di un lavoro in una start-up condannata al fallimento finanziata dal pozzo senza fondo di quei ricchi che riescono a sognare solo il sogno più noioso che un ricco possa sognare: essere ancora più ricchi. Ovviamente lavorare in una start-up vuol dire che fai parte della famiglia, e così, vuoi perché le cose vanno male, o perché le scadenze scappano via, o perché un investitore ha un attacco isterico, o semplicemente perché sì, non esci dall’ufficio prima delle tre del mattino. Cosa che sinceramente detestavo. La detestavo perché la app di time management dell’azienda era un’idea idiota e non aiutava davvero la gente, la detestavo perché sapevo che lo facevo solo per i soldi, e la detestavo perché chiedevano ai dipendenti di considerarla la loro vita e non un lavoro, il che voleva dire che non avevo tempo libero per i miei progetti personali.

    PERÒ!

    Stavo veramente mettendo a frutto la mia laurea occupandomi di vero graphic design e a meno di un anno dalla fine dei miei studi guadagnavo abbastanza da permettermi di pagare l’affitto. Il mio ambiente di lavoro rasentava il tecnicamente criminale e versavo metà dello stipendio per dormire nel salotto di un appartamento con una sola camera da letto, ma me lo facevo andar bene.

    Ho appena detto una bugia. Il mio letto era in salotto, ma dormivo quasi sempre in camera da letto, nella camera di Maya. Non vivevamo insieme, eravamo coinquiline, e la April-del-passato vorrebbe che fossi molto chiara in proposito. Dov’è la differenza tra le due cose? Be’, soprattutto sta nel fatto che prima di cominciare a vivere insieme non stavamo insieme. Andare a letto con la tua coinquilina è comodo, ma è anche un po’ disorientante quando hai vissuto con lei per quasi tutta l’università. Prima di finire finalmente a letto e di essere una coppia da più di un anno.

    Se per caso due vivono già insieme, quand’è che salta fuori la domanda Andiamo a vivere insieme? Be’, per me e Maya la domanda era Per favore, spostiamo quel materasso usato dal salotto in modo da poterci sedere sul divano quando guardiamo Netflix? e fino a quel momento la mia risposta era stata Certo che no, siamo solo coinquiline che si frequentano. Ed è per questo che nel nostro salotto c’era ancora un letto.

    Ve l’ho detto che ci sarebbe stato del dramma.

    Comunque torniamo nel cuore della notte di quella fatidica sera di gennaio. Questa app del cazzo doveva essere rilanciata nell’App Store una settimana dopo e io stavo aspettando le approvazioni finali per alcune modifiche all’interfaccia utente, e insomma, lo so che non ve ne frega niente; erano stronzate noiose di lavoro. Invece di arrivare la mattina presto, ero rimasta fino a tardi, cosa che ho sempre preferito. Il mio cervello era completamente prosciugato dal tentativo di interpretare i consigli criptici di capi che non sapevano distinguere un raster da un vettore. Sono uscita dal palazzo (era uno spazio di coworking, non dei veri uffici in affitto) e ho fatto a piedi i tre minuti che mi separavano dalla stazione della metro.

    E poi la mia MetroCard è stata respinta PER NESSUN MOTIVO. Ne avevo un’altra sulla scrivania in ufficio, e non sapevo bene quanti soldi avevo sul conto: mi toccava tornare indietro a prenderla, per stare sul sicuro.

    Il semaforo è verde, così attraverso la Ventitreesima, e un taxi mi suona il clacson come se non dovessi trovarmi sulle strisce. Insomma, amico, è verde. Mi volto per tornare in ufficio e lo vedo subito. Mi avvicino e capisco che è una scultura veramente… VERAMENTE eccezionale.

    Insomma, è SPETTACOLARE, ma è anche un po’ spettacolare newyorkese, capito?

    Come faccio a spiegare quello che ho provato? Insomma… be’… a New York la gente passa dieci anni a far succedere qualcosa di straordinario, qualcosa che catturi l’essenza di un’idea in modo così perfetto che di colpo il mondo diventa dieci volte più chiaro. È bello, è potente e qualcuno gli ha dedicato un bel pezzo della sua vita. I canali locali ci fanno dei servizi e tutti dicono Figo! e poi l’indomani ci dimentichiamo tutto a vantaggio di un’altra COSA ASSOLUTAMENTE PERFETTA E NOTEVOLE. Non è che le altre cose non siano meravigliose o uniche… È solo che c’è un sacco di gente che fa un sacco di cose straordinarie, quindi alla fine diventi un po’ insensibile.

    Insomma, è così che mi sono sentita quando l’ho visto: un Transformer alto tre metri in una specie di armatura da samurai, l’enorme petto robusto che svettava verso il cielo un metro e mezzo buono sopra la mia testa. Era lì sul marciapiede, pieno di energia e di forza. Era come se da un momento all’altro potesse voltarsi per puntare quello sguardo vuoto e regale su di me. E invece se ne stava lì, silenzioso, quasi sprezzante, come se il mondo non meritasse la sua attenzione. Alla luce dei lampioni il metallo era un patchwork di materia opaca nera come la pece e argento specchiante. Ed era chiaramente metallo… non una roba da cosplay di cartone dipinto con le bombolette. Era straordinariamente ben fatto. Sono rimasta lì per forse cinque secondi prima di mettermi a tremare, sia per il freddo sia per lo sguardo della cosa. Poi sono andata avanti.

    E poi mi. Sono. Sentita. Una. Grandissima. Idiota.

    Insomma, sono un’artista che si dedica troppo a un lavoro profondamente noioso per pagare un affitto esagerato e poter restare qui; restare immersa in una delle culture più creative e influenti del mondo. Ora nel bel mezzo del marciapiede c’è un’opera d’arte che è stata un’impresa enorme, un’installazione a cui l’artista ha lavorato forse per anni, per far sì che la gente si fermasse, la guardasse e la valutasse. Ed eccomi qui, indurita dalla vita della metropoli e mentalmente svuotata dopo ore passate a spostare pixel, che non riservo nemmeno una seconda occhiata a un cosa così splendida.

    Mi ricordo bene il momento, quindi suppongo di doverne parlare. Sono tornata verso la scultura, mi sono alzata in punta di piedi e ho detto: «Credi che dovrei chiamare Andy?».

    La scultura ovviamente non ha fatto niente.

    «Stai lì se va bene che chiami Andy.»

    E così l’ho chiamato.

    Ma prima ecco qualche informazione su Andy!

    Sapete quei momenti in cui le cose iniziano a prendere una nuova direzione e voi pensate Continuerò di sicuro senza alcun dubbio ad amare e apprezzare e vedere e sentire tutte le persone speciali con cui ho passato tanti anni, nonostante il fatto che la nostra vita adesso stia cambiando parecchio, e invece tanto varrebbe levare a quel tipo l’amicizia su Facebook perché tanto non lo rivedrete mai più per il resto dei vostri giorni? Be’, io, Andy e Maya in qualche modo eravamo riusciti (fino ad allora) a evitare quel destino. Io e Maya ci eravamo riuscite occupando gli stessi quaranta metri quadri. Andy invece abitava dall’altra parte della città, e fino al terzo anno nemmeno lo conoscevamo. A quel punto io e Maya seguivamo quasi tutti gli stessi corsi perché, be’, ci piacevamo proprio tanto. E chiaramente tutte le volte che c’era un lavoro di gruppo finivamo nello stesso. Ma il professor Kennedy quel giorno aveva deciso per dei gruppi da tre, il che voleva dire un terzo incomodo a caso. In qualche modo ci eravamo ritrovati con Andy (o probabilmente, dal suo punto di vista, lui si era ritrovato con noi).

    Sapevo chi era Andy. Mi ero fatta una vaga idea di lui, un’idea del tipo quel ragazzo è più sicuro di sé di quanto non debba. Era magro e goffo, con la pelle bianca come carta da stampante. Si capiva che quando andava a tagliarsi i capelli per prima cosa chiedeva al parrucchiere di fare in modo che non si vedesse che era andato a tagliarsi i capelli. Ma aveva la battuta pronta, e le sue battute erano quasi sempre divertenti o profonde.

    Il lavoro consisteva nello sviluppo dell’identità visiva di un prodotto inventato. Il packaging era facoltativo, ma dovevamo produrre parecchie versioni del logo e una styleguide (che è come un libretto che dice a tutti come bisogna presentare il prodotto e quali font e colori usare in quali situazioni). Era più o meno scontato che avremmo dovuto farlo per un’azienda inventata molto alla moda che producesse jeans etici equosolidali dotati di tasche perfettamente inutili o qualcosa del genere. In realtà si finiva quasi sempre su un birrificio inventato, perché eravamo studenti universitari. Pagavamo un mucchio di soldi per educare il nostro gusto in fatto di birre ed essere sofisticati.

    E sono sicura che io e Maya avremmo preso quella strada lì, solo che Andy era ostinato in un modo insopportabile e in qualche modo ci ha convinte tutte e due a costruire l’identità visiva di Bubble Bum, una cicca al sapore di culo. All’inizio le sue ragioni erano stupide: una volta laureati non avremmo lavorato a progetti inventivi e alla moda, quindi tanto valeva non prendere il lavoro così sul serio. Ma quando è diventato serio ci ha convinto.

    «Sentite» ha detto, «è facile far sembrare figa una cosa che è figa: è per quello che tutti scelgono le cose fighe. E ultimamente figo finisce sempre per essere noioso. Ma se riuscissimo a far passare per eccezionale qualcosa di stupido? Qualcosa di invendibile, di strano? Questa sì che è una vera sfida. Questo sì che richiede vere capacità. Facciamo vedere che siamo davvero capaci.»

    Me lo ricordo bene perché è stato allora che ho capito che Andy era più di quello che sembrava.

    Alla fine del lavoro non ho potuto fare a meno di sentirmi un po’ superiore agli altri compagni di corso, che prendevano i loro jeans skinny e le loro birrerie artigianali tanto sul serio. E il prodotto finale era magnifico. Andy era – e lo sapevo, ma non l’avevo registrato come qualcosa di importante – un illustratore estremamente dotato, e con la bravura di Maya nel lettering a mano libera e il mio lavoro sui colori è venuto fuori qualcosa di veramente bellissimo.

    È stato così che io e Maya abbiamo conosciuto Andy, e meno male. Francamente avevamo bisogno di un terzo per equilibrare l’intensità del primo periodo della nostra conoscenza. Dopo il lavoro sulla Bubble Bum, che il professor Kennedy aveva apprezzato tanto da metterlo sul sito del corso, siamo diventati tipo un terzetto. Abbiamo lavorato insieme anche ad alcuni progetti freelance, e ogni tanto Andy veniva a casa nostra e ci costringeva a giocare ai giochi da tavolo. E poi passavamo la serata a parlare di politica, sogni o ansie. Il fatto che fosse chiaramente un po’ innamorato di me non ci aveva mai preoccupate sul serio, perché sapeva che ero impegnata, e, be’, credo che Maya non lo considerasse un pericolo. In qualche modo la nostra relazione non si era interrotta dopo la laurea e continuavamo a vederci con il buffo, strano, sveglio, stupido Andy Skampt.

    Che stavo chiamando alle tre del mattino.

    «Che cazzo, April, sono le tre.»

    «Ehi, c’è una cosa che credo vorresti vedere.»

    «Probabile che possa aspettare fino a domattina.»

    «No, è una cosa fighissima. Porta la telecamera… Jason ha delle luci?» Jason era il coinquilino di Andy: tutti e due volevano diventare delle star del web. Andavano in streaming giocando ai videogame per platee ristrette, e avevano un podcast sulle più belle scene di morte in tivù, che filmavano anche e caricavano su YouTube. A me sembrava una forma di quella malattia incurabile che contagia molti ragazzi ricchi, convinti nonostante mucchi di prove del contrario che quello di cui il mondo ha davvero bisogno è un altro podcast comico di bianchi. Può sembrare crudele, ma allora era quello che pensavo. Adesso ovviamente lo so, com’è facile avere l’idea di non contare niente se nessuno ti guarda. Ho anche ascoltato Slainspotting ed è proprio divertente.

    «Un momento… cosa succede? Cosa devo fare?» mi ha chiesto.

    «Ecco cosa devi fare: vai al Gramercy Theatre e porti tutta l’attrezzatura video di Jason che puoi e vedrai che non te ne pentirai, quindi non pensarci nemmeno, a rimetterti a giocare a quel tuo videogioco hentai… Questa roba è meglio, garantito.»

    «Lo dici tu, ma hai mai giocato a Cherry Blossom Fairy Five, April May? Eh?»

    «Adesso attacco… devi essere qui fra cinque minuti.»

    Ho riattaccato.

    Parecchie persone che non erano Andy sono passate mentre lo aspettavo. Manhattan è meno autentica di una volta, questo è certo, ma è ancora la città che non dorme mai. È anche la città dell’indifferenza. La gente dava una rapida occhiata alla scultura e continuava a camminare, come avevo quasi fatto io. Ho cercato di darmi un’aria impegnata. Manhattan è sicura, ma non vuol dire che una ventitreenne sola per la strada alle tre del mattino non possa finire per essere molestata senza nessun motivo.

    CRITICA L’ARTE.

    Alla fine ho piantato lì la critica e l’ho guardata e basta. Cominciava a piacermi sul serio. Non solo come un’altrui creazione, ma come si ama l’arte veramente bella… godendosela e basta. Era così diversa da altre cose che avevo visto. E coraggiosa nella sua Transformeritudine. Io avrei avuto il terrore di fare qualunque cosa che richiamasse visivamente i robot meccanici… Non si può desiderare di essere accostati a un oggetto che è popolare-convenzionale. È il peggiore dei destini possibili.

    Ma in quell’opera c’era molto di più. Sembrava arrivata da un posto completamente diverso rispetto alle altre cose che avevo visto, fossero sculture o no. Ero piuttosto assorta quando Andy mi ha fatto tornare alla realtà.

    «Ma che cazzo di…» Aveva uno zaino sulle spalle, tre tracolle per la telecamera, e reggeva due treppiedi.

    «Già» ho detto.

    «Ma. È. STRAORDINARIO.»

    «Lo so… la cosa tremenda è che quasi non me ne sono accorta. Ho pensato Be’, è un’altra cazzo di fighetteria newyorkese e ho tirato dritto. Ma poi mi è venuto in mente che non ne avevo sentito parlare per niente, e siccome, insomma, tu sei sempre in cerca del tuo colpo grosso virale, magari poteva essere il tuo scoop. Così l’ho sorvegliata per te.»

    «Quindi hai visto questa enorme, magnifica, vigorosa opera d’arte e chi è che ti è venuto in mente? ANDY Skampt!» Si è piantato i pollici nel petto ossuto.

    «Eh già» ho detto, sarcastica. «In effetti ho pensato che ti avrei fatto un favore, e infatti. Quindi potresti essere contento, almeno.»

    Un po’ abbattuto, mi ha passato un treppiede. «Be’, cominciamo a sistemare ’sta roba. Devo darmi da fare prima che quelli di Channel 6 passino per caso nel loro stupore etilico e ci rubino lo scoop.»

    In cinque minuti la telecamera era montata, un riflettore a batterie emanava la sua luce cruda, e Andy si appuntava il microfono al bavero. Non aveva l’aria da tonto che mostrava all’università. Aveva smesso di mettersi quegli stupidi berretti da baseball, e aveva rinunciato ai tagli di capelli disordinati (o semplicemente insoliti) a favore di uno corto e ondulato che donava alla forma del suo viso. Ma nonostante fosse alto venti centimetri più di me e fossimo praticamente coetanei, sembrava ancora che avesse cinque anni di meno.

    «April» ha detto.

    «Sì.»

    «Credo che dovresti starci tu.»

    Probabilmente ho risposto con una specie di borbottio confuso.

    «Davanti alla telecamera, dico.»

    «Amico, questo è il tuo sogno, non il mio. Io non so un cazzo di YouTube.»

    «È solo che… insomma, ecco…» A ripensarci credo che sia possibile, anche se non gliel’ho mai chiesto, che avesse già intuito che sarebbe stata una faccenda davvero grossa. Non grossa come si sarebbe rivelata, ovviamente, però grossa sì.

    «Ehi, non credere di ottenere il mio favore facendomi diventare famosa in rete. Non mi interessa proprio.»

    «D’accordo, ma tu non sai come usare questa telecamera.» Ho intuito che cercava una scusa, ma non sono riuscita a capire perché.

    «Non so come fare a stare dietro la telecamera, ma non so nemmeno come starci davanti. Tu e Jason parlate alla rete tutto il giorno, io quasi non vado nemmeno su Facebook.»

    «Però sei su Instagram.»

    «È diverso.» Ho fatto una smorfia.

    «Non proprio. Si capisce che ci tieni a quello che posti. Non ci casca nessuno. Sei una ragazza digitale, April, in un mondo digitale. Sappiamo tutti recitare.» Dio benedica Andy per la sua franchezza. Aveva ragione, ovvio. Cercavo di non far caso ai social, e preferivo veramente girare per le gallerie d’arte che non su Twitter. Ma non ero disconnessa come mi lasciavo credere. Essere irritata dalla studiatissima immagine internet delle persone faceva parte della mia studiatissima immagine internet. Ma anche se era così credo che capissimo entrambi che il punto di Andy non era esattamente quello.

    «Andy, vuoi dirmi che cosa c’è veramente?»

    «È solo…» ha tratto un gran respiro «che penso che sarebbe meglio per l’artista se fossi tu. Io sono un cazzone, lo so come appaio. La gente non mi prenderà sul serio. Tu sembri un’artista, con quel giaccone e quegli zigomi. Hai l’aria di sapere quello che dici. Lo sai, quello che dici, e lo dici bene, ragazza. Se parlo io sembrerà uno scherzo. E poi sei stata tu a trovarlo. Ha più senso se ci sei tu davanti alla telecamera.»

    A differenza dei miei compagni laureati in Design, io pensavo molto all’Arte. Se vi state chiedendo che differenza c’è, be’, intendo l’arte che esiste in sé. L’arte fa se stessa. Il design è arte che fa qualcos’altro. È più ingegneria visuale. Ho cominciato a studiare Arte, ma alla fine del primo semestre ho pensato che forse un giorno avrei voluto avere un lavoro. Così sono passata a Pubblicità, che odiavo, così sono passata un po’ di volte a un po’ di altre cose finché non mi sono arresa e mi sono data al Design. Ma ancora spendevo più tempo ed energie a seguire la scena delle belle arti a Manhattan rispetto ai miei amici designer. Era per questo in parte che desideravo tantissimo restare in città. Può sembrare stupido, ma avere vent’anni a New York mi faceva sentire importante. Anche se non mi occupavo di arte vera, almeno me la cavavo in questa città, molto molto lontano dai miei genitori e dalle loro prosaiche forniture quotidiane di latte e derivati.

    Alla fine Andy non ha dato segno di volersi arrendere e io ho deciso che non era poi questo gran problema. Così mi sono fatta infilare il microfono dentro la camicia… Il cavo aveva il tepore del corpo di Andy. Avevo il riflettore negli occhi e quasi non vedevo la lente. Faceva freddo, c’era un po’ di venticello, eravamo soli sul marciapiede.

    «Pronta?» ha detto.

    «Dammi quel microfono» ho risposto, indicando una borsa aperta per terra.

    «Hai il collarino acceso, non ti serve.»

    Non ho idea di cosa volesse dire, ma avevo capito. «No, solo per finta… per… intervistarlo.»

    «Ah… ci sta…» Mi ha dato il microfono.

    «OK» ho detto.

    «Okay, sei in onda.»

    2

    «Okay, sei in onda.»

    Voi avete sentito Andy dire queste parole… se siete un umano che si sia mai trovato abbastanza vicino a una connessione internet da sentirle. Che parliate inglese o no. Che abbiate mai posseduto o meno un marchingegno elettronico. Che siate un miliardario cinese o un allevatore di pecore neozelandese, l’avete sentito. L’hanno sentito gli attivisti ribelli del Nepal. È il filmato più visto di tutti i tempi. È stato visto più volte di quanti umani ci siano sulla Terra. Google ha calcolato che New York Carl sia stato visto dal 94 per cento degli esseri umani viventi. E a questo punto suppongo anche da un buon numero di umani morti.

    Dopo che Andy ha montato il video… ecco più o meno quello che avevamo.

    Io sono a pezzi. Sono in piedi da ventidue ore. Praticamente sono senza trucco e in divisa da lavoro, che era fondamentalmente qualunque cosa dia l’idea che te ne importa meno di niente, quindi indosso un giaccone di jeans sopra una felpa bianca col cappuccio e i jeans coi buchi alle ginocchia, cosa che non mi aiuta a stare al caldo. Ho i capelli neri sciolti sulle spalle, la luce mi abbaglia, e mi sforzo di non strizzare le palpebre, ma tutto considerato non sono male. Forse ho visto il video così tante volte da aver superato l’imbarazzo. Ho gli occhi così scuri che sembrano tutti pupilla anche quando c’è il sole. I denti brillano alla luce led di Jason. In qualche modo sembro allegra. Il senso di vertigine dato dalla mancanza di sonno mi ha sopraffatto. Ho la voce roca.

    «Ciao! Sono April May, e sono qui tra la Ventitreesima e la Lexington con un visitatore inatteso e molto speciale. È arrivato oggi un po’ prima delle tre e veglia sul Chipotle Mexican Grill vicino al Gramercy Theatre come un antico guerriero di una civiltà sconosciuta. Il suo sguardo gelido è in qualche modo confortante, come a dire, insomma, nessuno è in grado di prevedere che cosa gli può succedere nella vita… nemmeno lui, questo guerriero di metallo alto tre metri. Il peso della vita ti abbatte? Non pensarci… sei insignificante! Mi sento più al sicuro con lui che veglia su di me? No! Ma forse non è la sicurezza che conta!»

    Una coppia, diretta a casa dopo una lunga serata, passa mentre io parlo, e si volta a guardare, più la telecamera che quell’incredibile ROBOT gigante.

    L’inquadratura cambia di colpo. (È successo dopo che ho borbottato per qualche secondo sforzandomi di trovare qualcosa da dire e passando per un’idiota, con Andy che mi assicurava che avrebbe tagliato le parti dove passavo per un’idiota.)

    «Si chiama Carl! Ciao, Carl.» Qui porgo il microfono a Carl… stando in punta di piedi. Io sono bassa, poco meno di uno e sessanta, e così Carl sembra ancora più grande. Carl non dice niente.

    «Sei un robot di poche parole, ma il tuo aspetto parla da sé.»

    Un altro stacco, adesso fisso di nuovo in camera. «Carl, inamovibile, solido, e in qualche modo caldo al tatto, un robot alto tre metri che ai newyorkesi non sembra particolarmente interessante.»

    Stacco.

    «Che cosa credono che sia? Un’installazione artistica? Il frutto di un capriccio sfrattato dal suo appartamento insieme a un inquilino ozioso? Un attrezzo di scena dimenticato appartenuto a un set cinematografico dei dintorni? La città che non dorme mai è diventata la città troppo fighetta per accorgersi anche degli eventi più singolari e stupefacenti? No, un momento! C’è un ragazzo che si è fermato a guardare. Chiediamogli cosa ne pensa.»

    Stacco.

    Adesso Andy condivide con me il microfono scollegato.

    «Come ti chiami?»

    «Andy Skampt.» In qualche modo Andy è più agitato di me.

    «Sei in grado di confermare che c’è un robot alto tre metri fuori da Chipotle?»

    «Sì.»

    «E sei in grado di confermare che in effetti, cazzo, non è normale?»

    «Mmm.»

    «Cosa pensi che voglia dire?»

    «Veramente non lo so. Adesso che ci penso, Carl mi fa paura.»

    «Grazie, Andy.»

    Stacco.

    «Ed eccolo, cittadini del mondo. Un gigantesco, imponente, terrificante robot un po’ caldo è arrivato a New York e grazie alla sua immobilità in qualche modo è diventato interessante solo per un video lungo un minuto.» Tutto questo è detto in accompagnamento alle riprese ravvicinate del robot: la sua immobilità pulsa di movimento, l’energia scintilla appena sotto la superficie.

    Per tutto il tempo che ero davanti alla telecamera ho pensato all’artista. Un creativo come me che aveva riversato l’anima in qualcosa di davvero notevole che il mondo intero avrebbe anche potuto semplicemente ignorare. Mi stavo sforzando di entrare dentro la sua testa. Mi stavo sforzando di capire perché aveva creato questa cosa e con lo stesso afflato aveva richiamato l’attenzione del mondo sulla sua insensibile ignoranza nei confronti della bellezza e della forma. AVVISO A TUTTI I NEWYORKESI! GUARDATE UN PO’ COME PUÒ ESSERE BELLA UNA COSA! Volevo che la gente si svegliasse e passasse qualche istante a contemplare la straordinaria meraviglia della creazione umana. A posteriori veramente ridicolo.

    «È buona?»

    «Sicuro, è buonissima, fantastica, tu sei adorabile e brillante e internet ti adorerà.»

    «Oh, proprio quello che ho sempre desiderato» ho detto, impassibile. «Di colpo sono stanca morta.»

    «Be’, ci sta. Come mai sei sveglia a quest’ora?»

    «A parte il robot gigante? Lo sai, un altro giorno, un’altra crisi del tipo tutti all’opera

    «Almeno tu hai un lavoro.»

    Andy stava provando a cavarsela da freelance, che è quello che fai quando non hai il pensiero di dover ripagare il prestito studentesco perché tuo padre è un avvocato di Hollywood ricco da far schifo.

    E in un attimo Carl è uscito dalla conversazione. Andy ha fatto qualche ripresa da vicino mentre io mi lamentavo del lavoro e mi ha raccontato di un nuovo cliente che voleva un logo più computeristico. Sono anche salita sulle spalle di Andy per riprendere la faccia del robot da più vicino che potevo, cercando di tenere ferma la telecamera. Ma stavamo giusto parlando di lavoro e della vita e poi ecco che erano quasi le quattro del mattino.

    «Be’, è stato superstrano, April May, grazie per avermi fatto uscire nel gelo della notte a girare un video di un robot con te.»

    «Grazie a te di essere qui, e no, non vengo a casa tua a vederti montare un video. Vado a letto. Se mi chiami prima di mezzogiorno ti impalo su quella cosa a punta che ha Carl in testa.»

    «Sempre un piacere.»

    «Ci vediamo domani.»

    Sulla metro verso casa ho messo il telefono su Non Disturbare. Probabilmente non ho più dormito così bene fino a quando non sono morta.

    3

    Mi sono svegliata alle due del pomeriggio. Quando Maya si era alzata non me ne ero neppure accorta. È entrata facendo quella cosa che

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