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Sangue selvaggio
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E-book310 pagine8 ore

Sangue selvaggio

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Horror - romanzo (246 pagine) - Un’antologia di racconti di genere western-horror a cura di Nicola Lombardi, che coinvolge alcune tra le firme più importante del panorama fantastico italiano. Otto autori impegnati in storie ambientate nel vecchio e tenebroso West: Danilo Arona, Luigi Boccia, Stefano Di Marino, Claudio Foti, Maico Morellini, Luigi Musolino, Gianfranco Staltari e Claudio Vergnani.


Esistono territori, a Ovest, al di là dei sogni, in cui il mondo si sfalda in fantastici inferni popolati da demoni e spettri, pistoleri d’oltretomba e antiche divinità assetate di vendetta.

Un universo intriso di sangue e polvere da sparo, sospeso nel tempo e nello spazio, che otto grandi autori hanno esplorato per raccontarci incubi e visioni di un West selvaggio e allucinato, accompagnandoci in una cavalcata senza freni nelle più tenebrose terre dell’immaginazione. Là dove vita e morte si incontrano. Oltre la Frontiera.

Copertina di Giorgio Finamore


Nicola Lombardi esordisce nel 1989 con la raccolta Ombre – 17 racconti del terrore. Suoi sono i romanzi tratti dai film di Dario Argento Profondo Rosso e Suspiria editi da Newton & Compton. Collabora per diversi anni con il mensile di cultura fantastica Mystero e cura varie traduzioni per le edizioni Profondo Rosso e Independent Legions. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte di racconti I racconti della piccola bottega degli orrori, La fiera della paura, Striges, Anime urlanti; e i romanzi I Ragni Zingari (con il quale nel 2013 vince il Premio Polidori), Madre nera e La Cisterna. È membro dell’Horror Writers Association.

LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2020
ISBN9788825412352
Sangue selvaggio

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    Anteprima del libro

    Sangue selvaggio - Nicola Lombardi

    9788825410624

    Introduzione

    Molto tempo fa, prima degli Indiani che vivono qui ora, c’erano altri uomini. Forse se ne andarono, o forse morirono o vennero cacciati dagli antenati di questi Indiani, comunque non ci sono più. Eppure, talvolta, non sono certo che se ne siano andati. Penso che a volte i loro spiriti siano ancora qui intorno, nella terra che amavano.

    Louis L’Amour, The Lonsome Gods

    La cosiddetta epopea del West e della sua ‘conquista’ ha generato, grazie soprattutto al mezzo cinematografico, un immaginario che di fatto non ci appartiene, per via della peculiare demarcazione geografica e temporale, eppure… Cowboys, pellerossa e tutto quanto orbita intorno al loro fastoso palcoscenico sono indubbiamente radicati nella nostra sfera fantastica (e non di rado vi risiedono fin dall’infanzia), e questo perché il mito del Far West – così com’è stato tramandato, in tutte le sue contraddittorie sfaccettature – si fonda su quegli archetipi che popolano l’inconscio collettivo e che da sempre animano ogni sorta di narrazione, dispiegando tutte le maschere dell’animo umano.

    Trovo che il connubio fra questo humus e le dimensioni del weird e dell’horror sia perfettamente naturale, dal momento che le sconosciute terre dell’Ovest, viste dall’ottica dell’uomo bianco, non risultano meno misteriose di un pianeta inesplorato o di un labirintico castello stregato; quello che conta è che ci si ritrova infine, impreparati, di fronte a ciò che vi è di più spaventoso, l’Ignoto, le cui potenzialità a livello di speculazione narrativa sono pressoché illimitate.

    Intendo ringraziare Danilo Arona, che mi ha proposto in lettura il lungo, tenebroso racconto con cui si apre l’antologia (accendendo la miccia che mi ha spinto a lanciarmi poi in questo progetto). E ringrazio naturalmente gli altri preziosi, valentissimi amici – Luigi Boccia, Stefano Di Marino, Claudio Foti, Maico Morellini, Luigi Musolino, Gianfranco Staltari e Claudio Vergnani, tutti nomi ben noti e apprezzati del weird italiano, giovani e veterani – che hanno aderito con entusiasmo al mio appello tuffandosi a capofitto fra cupe leggende, spiriti vendicativi e demoni antropofagi, sudore e polvere da sparo, lasciando ribollire quel sangue selvaggio che ognuno di noi, consapevolmente o meno, si porta dentro. Ciascun autore ha interpretato – con stile e inventiva, talvolta anche con ironia – la propria idea di West, inteso come puro concetto che addirittura è possibile traghettare al di là dei suoi naturali confini di tempo e luogo; sempre, comunque, all’insegna dell’inquietudine, del fatalismo, e di quel senso di morte incombente che tra saloon, fortini, canyon e praterie si respira in ogni pagina.

    Caricate quindi le colt – o affilate le asce di guerra, se preferite – e preparatevi: la diligenza diretta all’Ovest sta per partire. Le ampie, sfilacciate ali di un avvoltoio si profilano contro il disco rosso del sole, mentre dalle foreste l’ululato dei lupi si leva a intonare canti più antichi dell’uomo. Stringete forte le redini: si parte per un viaggio oltre la Frontiera, in un mondo che altro non è se non l’impietosa, crepuscolare allegoria della nostra esistenza.

    Nicola Lombardi

    Malongo

    Danilo Arona

    Out of the night burning with light

    Train shining black,

    I wont look back, life is running.

    Steve Winwood, Night Train

    Prologo

    Sandstorm

    6 marzo 1836, missione spagnola di El Alamo (Texas). Ore 05. 35

    Il cielo cambia colore in pochi secondi in questo frammento impazzito di continente americano.

    Si avvicina l’alba di un nuovo e orribile giorno, alla fine di una notte in cui nessuno ha dormito.

    Impossibile riposare dentro la fortezza. Su duecento uomini soltanto uno ha chiuso gli occhi per pochi secondi. Quando li ha riaperti, ha urlato. Perché, nel primissimo e concitato sonno, ha visualizzato un’orrenda figura, qualcosa di somigliante all’oscena parodia di una donna, che gli si scagliava contro impugnando un uncino. So-yo-kouuu, mugolava il mostro e il futuro martire non ha retto a quella vista.

    Una volta sveglio – con la bocca riarsa perché gli è ormai chiaro che sta sorgendo l’ultimo giorno della sua breve vita – ha raggiunto gli altri futuri martiri sugli spalti. Per puro caso finisce a poca distanza da Travis e Crockett. Li scruta e li ascolta. Sì, è proprio la fine. Antonio Gomez de Santa Ana sta per lanciare l’assalto finale.

    Travis che dice a Crockett: Lo senti?

    Crockett che gli risponde: Adesso lo puoi anche vedere.

    Travis che rimanda: A furia di farci vedere fantasmi ovunque, ecco laggiù quello che hanno creato.

    Lui che non capisce, ma sente ancora nelle orecchie So-yo-kouuu e crede di vedere a un centinaio di metri dalla missione un’ingobbita figura, ricoperta di stracci neri, che balla sulla sabbia come un’invasata. Una fata morgana che sparisce in fretta. È solo un presagio di morte. Sta per giungere la morte vera.

    Lo senti?

    Adesso lo sente anche lui.

    Un rombo che viene da lontano. Da laggiù, dall’orizzonte. Un tuono continuo e compresso che s’irradia nell’aria e sotto la terra. Un muro di sabbia gialla che s’innalza e che cresce. E dentro il muro, al momento solo una striscia laggiù, altri rumori.

    Urla, le trombe che suonano El Deguello. E un tintinnio.

    Duemila cavalli al galoppo, annuisce Crockett.

    Il rumore mi sembra adeguato, Davy.

    Però c’è dell’altro lì dentro, Bill. Che cosa…

    Ma Crockett s’interrompe di colpo. Su Alamo si è abbattuta la prima onda d’urto della nube di sabbia provocata dalla carica del nemico. Calda, anzi bollente. Con la pelle dei texani che crepita e che si spacca sotto la staffilata del vento.

    STATE PRONTI COI CANNONI! urla Travis.

    Diciotto pezzi da sei e quindici libbre richiedono una trentina di persone al lavoro. Gli altri centosettanta difensori di Fort Alamo armano i moschetti e puntano le bocche da fuoco contro il muro di sabbia in rapido avvicinamento.

    Dovremo sparare alla cieca, Davy!

    Non sbaglia il tenente colonnello William Barret Travis, comandante in capo delle forze texane. Non sbaglia perché – mentre l’inferno sonoro fatto di urla di belve, trombe stonate e zoccoli al galoppo si amplifica sempre più a ogni secondo che passa – gli occhi dei difensori sono colpiti dalle prime frustate di pulviscolo, grani grossi che bucano le iridi, e molte dita lasciano cadere i fucili. La sabbia entra in bocca, s’infila negli alveoli polmonari e c’è chi si porta le mani alla gola sentendosi morire di dispnea.

    Allora caos e paura dilagano sui bastioni. Crockett urla: Fuoco, fuoco, e Travis lo imita. Cannoni e moschetti, quel che ne resta dopo la prima zaffata dell’Alito del Diavolo, eruttano piombo contro la ciclopica nuvola che sta per sommergere la missione. Sparano nel vuoto, nel nulla, dentro la polvere gialla che vortica. Ma non si vede più niente perché un immane fantasma di sabbia ha sommerso Fort Alamo.

    E dal nulla, protetti dal vento e dalle arti magiche del male, da parte messicana ventotto cannoni da quindici libbre rispondono all’unisono e all’impazzata contro i texani, in quel momento ridotti a fantasmi ubriachi che caracollano qua e là inebetiti dalla furia e dagli effetti del vento.

    Una sola palla sbriciola in un secondo la postazione dei New Orleans Greys. Altre esplosioni provocano il crollo di parte degli spalti che rovinano sugli uomini, provocando morte e mutilazioni.

    Da lì a poco scatta la ferocia primordiale del corpo a corpo.

    Due ore dopo i duecento di Alamo sono divenuti altrettanti cadaveri. Tutti quanti, chi devastato dalla furia del cannone, chi lacerato dall’arma bianca, chi colpito dai proiettili.

    Il vento è calato.

    Persiste soltanto un leggero e insistente sibilo fischiante di sottofondo, mentre i soldati di Santa Ana si aggirano tra le rovine della missione.

    Non si capisce da quale punto cardinale provenga.

    Pare proprio un tintinnio.

    Soltanto un texano, ricoperto da altri corpi già freddi, ancora non ha reso l’anima al demonio. Si chiama Moses Fulton e prima dell’attacco finale dimostrava quarant’anni neppure da compiere. Adesso è un frammento di carne lordato del sangue altrui, ma respira ancora. È lui che, alle prime luci dell’alba, ha dapprima sognato e poi visto apparire sulla sabbia davanti alla missione l’orrida femmina nera che annunciava la catastrofe. Adesso Moses prova la tentazione di considerarla quasi un portafortuna: lui è ancora vivo in un mare di cadaveri. Nessuna delle ferite che ha ricevuto, che pure sono molte, è risultata letale.

    Forse esiste un modo per cavarsela del tutto. Moses ha captato dai dialoghi smozzicati dei messicani che entro un’ora, al massimo due, i corpi dei valorosi di Alamo saranno accatastati in un unico mucchio per essere bruciati. Forse i soldati si prenderanno una mezz’ora di pausa prima di procedere al rogo. Forse si dedicheranno prima ai loro morti e ai loro feriti al di là delle mura sbrecciate della fortezza. Forse.

    Forse… Sì!

    Scosta un braccio e una gamba che gli fanno da cuscino e da copricapo. Sono almeno cinque minuti che non sente più attorno a lui il cinguettante idioma del parlare messicano. Guarda in giro per quel che gli può offrire la visuale da sotto un coacervo di cadaveri.

    Non scorge anima viva. Solo morti ammazzati

    O la va o la spacca. Scivola fuori. Striscia fino a una breccia nel muro più vicino. Si guarda dietro. Il grosso delle truppe di Santa Ana sta dalla parte opposta, il fronte dal quale è giunto l’assalto. In questa direzione, se Fulton è fortunato, c’è il rischio che non circoli alcun soldato.

    Lacero e arrossato di sangue, Fulton si lascia scivolare fuori dalla fenditura. I suoi occhi scavano febbrilmente l’area circostante. Sabbia che ondeggia e dune mutaforma in direzione di San Antonio. Cactus qua e là, baluginii di vegetazione. Ma nessuna giubba bianca messicana.

    Allora via, strisciando come una lucertola, lontano dal lezzo della strage e dai carnefici dalla pelle olivastra.

    Sui gomiti. Arrancando. Senza mai voltarsi indietro. Come una mignatta si abbarbica alla sabbia. Ecco un leggero pendio, una collinetta. Se la supera lasciandosi scivolare al di là, da Fort Alamo nessuno sarà più in condizione di individuarlo.

    Forza!

    Ce la fa. Lacero, sporco di sangue e sporco comunque, le narici intasate del suo proprio odore e della puzza di morte altrui.

    Ma ci riesce. E scivola al di qua.

    Forse è salvo.

    Forse.

    Lasciandosi rotolare sul molle pendio, il suo piede sfiora qualcosa d’innaturale appoggiato sul terreno.

    Qualcosa che tintinna.

    Una sola volta.

    Think!

    Si alza sulle ginocchia. Quel suono gli è famigliare e gli ricorda gli incubi della notte. Gli incubi di una vita. I miraggi diurni del deserto.

    Squadra l’assurdità che gli si para di fronte.

    Scappa, gli urla nelle budella quel poco io raziocinante che si è salvato. Ma oggi, 6 marzo di un anno imprecisato, è il giorno della follia.

    E che follia sia.

    Moses Fulton vuole guardare.

    Cosa ci fa qui una gerla pitturata di nero?

    Si avvicina.

    Ci guarda dentro.

    E…

    Oddio, ODDIO!

    Una testa. Spiccata dal busto da pochissimo tempo. Sangue che vi zampilla attorno come da una piccola fonte. Filamenti di collo che ancora tremolano come se fossero animati da una vita posticcia. La bocca semiaperta sopra un orifizio nero quasi privo di denti. Chi è questo povero disgraziato? Mi sembra di conoscerlo…

    (scappa!)

    Sì, scappo.

    SCAPPO, CORPO DI MILLE PUTTANE! IO LO CONOSCO, È LUI, JIM BOWIE, IL CAPO DELLA MILIZIA DI ALAMO! È IL MIO COM….

    Via, Moses, via a gambe levate. Via come il vento (il vento?) per quel che puoi fare nelle tue condizioni.

    Si volta in direzione di San Antonio. Prende di nuovo ad arrancare.

    Pochi metri.

    Pochissimi e poi il cesto nero parla.

    – Moses, fermati.

    La voce di Bowie.

    E Moses Fulton si volta di nuovo, per quanto sia consapevole che non deve farlo.

    (scappa non posso scappa non voglio)

    La testa è scivolata di fuori.

    La testa di Jim Bowie ha aperto gli occhi.

    La bocca di Jim Bowie si è richiusa e adesso sorride.

    Think!

    E l’uncino tintinnante emerge dalla sabbia agganciando i testicoli di Moses Fulton.

    Staccandoglieli di netto per poi trascinarli di sotto, nel regno delle mille bocche di Soyoko.

    Dalla missione semidistrutta di El Alamo i soldati di Santa Ana odono le urla rabbrividenti di Moses Fulton.

    E non si muovono.

    1.

    Deserto del Mojave, 23 marzo 1870

    Tenebre rossastre precipitarono all’improvviso sul deserto.

    Eravamo in marcia dal primo pomeriggio.

    Marcia lenta perché il Mojave non perdona se lo affronti con il passo sbagliato. Ma l’avanzata si era ormai trasformata in un esercizio stordente, inutile e ipnotico; e quando Louis Baptiste che cavalcava in testa alzò il braccio, indicando al contempo uno spiazzo sulla sinistra delimitato da disseccati residui di prateria, fu come risvegliarsi da una sbronza della peggior acquavite.

    Eravamo in tre. Baptiste, ovvero il vecchio che conosceva ogni segreto di quel mare di sabbia; il mio coetaneo Douglas Payne, ufficiale dell’esercito nelle terre deserte; e io.

    Io con la stessa età di Payne, trenta da poco compiuti. Ma con un curriculum ai suoi antipodi. Perché, a differenza di lui, mi presentavo al mondo come un civile che si ritrovava un numero spropositato di indiani sulla coscienza. Si fa per dire, va da sé. La coscienza non mi rimorderà mai per colpa dei musi rossi. Per di più seguaci del Mayombe, come la maggior parte dei nativi del Mojave. Stregoni malefici che negli ultimi tempi amavano andare alla caccia di bambini albini. Volendo fare i pignoli, bianchi e albini. Ritenuti doppiamente nemici per la loro anomalia e da loro ricercati per i presunti poteri magici di alcune parti dei piccoli corpi. Il Mayombe era giunto dall’Africa assieme agli schiavi negri nel secolo precedente, ma solo dopo la fine della guerra civile e il conseguente dilagare dei culti animistici tribali sul suolo americano era accaduto che molte tribù pellerossa dell’Ovest ne assimilassero il peggio.

    I Chumash due mesi prima avevano attaccato un minuscolo insediamento di gente albina, messa al confino persino dai loro fratelli bianchi dalle parti del Banning Pass. Gli adulti erano stati uccisi e scalpati subito mentre una dozzina di bambini – il più in là con gli anni non aveva ancora passato la decade – era stata portata via di peso. Due giorni dopo i soldati della guarnigione ne ritrovarono i resti sparpagliati dinanzi alle Kelso Dunes. Nessuno aveva più la testa. Si vociferava che i Chumash con quelle testoline bianche ci organizzavano riti magici, danze del diavolo e degli spettri e chissà che altro.

    Smontammo dai cavalli, che legammo assieme alla grossa base avvizzita di un albero di Giosué. Quindi Baptiste accese il fuoco usando della legna secca che si portava sempre dietro, contenuta in una bisaccia. Payne tirò fuori la cuccuma dalla sua.

    Pochi minuti dopo, seduti attorno al fuoco che scoppiettava al suo meglio grazie anche a un vento basso e frusciante, c’ingozzavamo di carne secca e di caffè. Abbinamento scadente, ma quello passava il convento. Nessuno dei tre aveva all’apparenza intenzione di parlare di sciocchezze da bivacco. Tutti ci sentivamo la schiena rotta per la lunga e sfibrante cavalcata tra le sabbie.

    Ma Payne non resistette e a un certo punto domandò fissando le contorsioni del fuoco:

    – Hai udito qualcosa, vecchio?

    Baptiste bevve e subito sputò.

    Il caffè con evidenza non gli piaceva.

    Ma si guardò bene dal rispondere. Stava con tutti i sensi in allarme. Le ultime brutte storie sui bambini albini lo avevano segnato. Da qualche parte, sulla costa, sosteneva di avere una figlia e un paio di nipotine. In quella posizione non riusciva a non infilarsi nei panni del nonno apprensivo. Si guardava attorno con occhi cerchiati e l’espressione febbrile.

    – Che c’è, Louis? – lo incalzai anch’io, non riscontrando proprio nulla di buono nel suo atteggiamento.

    Un’espressione che mi pareva smarrita, iraconda, impaurita. E soprattutto la paura, elemento inconsueto per il vecchio.

    Alla fine lui parlò.

    – Avverto una brutta sensazione. Da mezz’ora, almeno.

    Quale sensazione? – insistette Payne.

    – Occhi sulla nuca. Qualcuno ci sta spiando.

    – Stai dicendo, Louis – m’intromisi – che in questo momento ci stanno tenendo sotto tiro? E dove? Qui attorno è tutto piatto come una tavola. Non avrebbero neppure dove nascondersi.

    – Non sostengo affatto che ci siano delle armi puntate contro di noi – rispose lui decidendosi a ingollare il caffè. – Il fatto è che ho udito il tintinnio.

    Io sapevo a che stava alludendo Bapstiste. Payne no. E il seguito risultò prevedibile.

    – Il tintinnio? – fece il tenente Payne con malcelata e scortese ironia. – Ma di che blateri, vecchio?

    – Lascia perdere, Doug – dissi. – L’argomento è serio.

    – Spiegatemelo, accidenti. Io non ho sentito nulla. Solo questo cazzo di vento. Che, se ulula, non sembra proprio tintinnare

    – Alludi a Soyoko, vero, Louis? – gli chiesi, con le budella già in ebollizione.

    Chi? – raschiò di gola Payne.

    – Meno ne sai, meglio è, soldatino – farfugliò Louis.

    – Eh, no, Baptiste – ribatté Payne con irritazione. – Hai già detto troppo per fare il misterioso.

    Ne convenni. E decisi di togliere Louis dai carboni ardenti.

    – È la Donna Nera dei bambini Mohave – tentai di sintetizzare – bruttissima e sdentata, una vera bruja. Se ne va in giro di notte per il deserto, con un coltellaccio in una mano e un lungo uncino bianco legato al polso dell’altra mano con una catenella metallica. Va alla caccia dei ragazzini cattivi. L’uncino tintinna a ogni passo e il suo suono viene trasportato dal Santa Ana. Anche se la senti vicina, lei potrebbe trovarsi chissà dove. A un sacco di chilometri, magari.

    Payne scoppiò a ridere.

    – Ma vi siete bevuti il cervello? Mi hai appena raccontato una favola per bambini!

    – E tu non crederci, tenente – fece Louis spazientito. – Così evitiamo discussioni inutili. E magari riusciamo a dormire un paio d’ore.

    Ma Payne, con evidenza, non intendeva accucciarsi sulla sabbia.

    – Dimmene qualcosa in più, Louis.

    – La prenderesti per una storia paurosa da bivacco, Doug – sottolineai. – E invece c’è del vero.

    – Del vero? – ribatté lui con ironia. – Una strega che gira per il deserto a cacciare i piccoli indiani che hanno disobbedito ai genitori? E dove starebbe la verità?

    – Nel cesto nero. Lì dentro ho scoperto la verità – pronunciò Louis con enfasi solenne.

    Io rabbrividii. Anche in quel caso capivo a quale orrore il vecchio si stava riferendo.

    – Il cesto nero, Baptiste? Abbiamo bevuto solo uno schifoso caffè! O hai fatto il pieno di nascosto oggi pomeriggio?

    – Io propongo di coricarci – obiettai, con scarsa possibilità di successo. – Mi occupo io del primo turno di guardia.

    – Ah, no, gente – insistette Doug. – Non provateci neppure a trattarmi come una donnetta paurosa. A me le leggende indiane fanno venire l’orticaria. Ma di più quelli che ci credono.

    – C’è chi l’ha vista, giacca blu – attaccò Baptiste con tono ancor più lugubre. – Vestita tutta di nero, con lunghissimi capelli che paiono serpi, la lingua rossa che penzola da un buco senza denti, gli occhi fissi e sbarrati come quelli di un pesce morto, un coltello insanguinato e l’uncino tintinnante fra le mani. Quando avanza ondeggiando tra le sabbie, perché è proprio qui nel deserto la sua casa, lei canta un’orripilante nenia dissonante, le cui parole altro non sono che il suo nome storpiato… Ovvero, So-yo-ko-uuu, ripetuto all’infinito e cadenzato da quel cazzo di tintinnio. Adesso tu potrai pensare quell’accidenti che vuoi. Ma chi ha avvistato Soyoko qui, nel deserto, non è certo un ragazzino dalla pelle rossa, dal momento che i bambini piccoli stanno notoriamente incollati alle vesti delle madri. Ti sto parlando di gente adulta, viaggiatori temprati come noi, che neppure credevano alle favole quando stavano in più tenera età. Eppure lei è stata vista… e soprattutto è stato visto il contenuto dell’orribile gerla che si trascina sulla schiena!

    – Il contenuto?

    – Credo che ti sia giunta voce di quel che è capitato alle teste bianche che abitavano nei pressi del vostro avamposto.

    – I predicatori albini? – chiese conferma Payne. – Stai parlando di quei poveracci assaliti dai Chumash?

    – Loro. E presumo che ti ricorderai anche dello stato pietoso dei loro dodici bambini!

    – Non me ne parlare, vecchio. Comandavo il drappello che è arrivato sul posto per primo. Ho avuto gli incubi per due settimane di fila.

    – Già, le teste staccate. Con uncino e coltello. Ma di quelle testoline alle Kelso Dunes non se ne vedeva traccia.

    – E allora?

    Io tacevo. Proprio non mi andava di affrontare la notte in pieno Mojave con un preambolo del genere. Io lo conoscevo già, quel racconto, e sino a quel momento avevo sinceramente sperato di non incapparci un’altra volta. Purtroppo il vecchio Louis soffriva della sindrome dell’affabulatore. Gli erano sufficienti un bivacco, un’oscura notte di vento e la paura verso i suoni scampanellanti.

    E cominciò.

    – Tre notti fa mi sono accampato con la vostra guida messicana, Gomez, davanti alle miniere di Calico. La nostra intenzione era quella di starcene un po’ al riparo sotto qualche vecchia tettoia abbandonata sino alle prime luci dell’alba perché si stava preparando una notte di Santa Ana incazzato come non mai. Sentivo la pelle del viso bruciare dal caldo e le ascelle scorticate dai grani di sabbia che s’intrufolavano da sotto la camicia. L’umore di Gomez sembrava anche peggio del mio. Per un messicano, dovreste saperlo, il termine Santa Ana suona un po’ come un senso di colpa. Il fatto è che purtroppo possiedo l’età giusta per confermarlo. Questa merda di vento ha cominciato a soffiare così dopo Alamo. Dopo che Bowie e i suoi, dopo aver udito le note del Deguello, sentirono prima un ululato spaventoso e poi una vera e propria tempesta di polvere che investì il forte provenendo dalla direzione di San Bernardino. Dentro il turbine c’erano i mille soldati di Santa Ana, lanciati tanto furiosamente al galoppo da provocare un turbine potente che da allora, qualsiasi vento provenga da quella zona per rinforzarsi nel deserto è stato chiamato come quel fottuto figlio di puta messicana. Così Gomez, non appena ci piazzammo al relativo riparo di un ingresso minerario e io iniziavo ad accendere un fuoco, prese a tremare come una foglia e a bestemmiare come un Cahuilla ubriaco. Perché diceva che nel vento in arrivo ci stavano i fantasmi di Bowie, Crockett, Travis e tutti gli altri. Trasformati in vento per andarsene in giro di notte a bruciare vivi i messicani che osavano cavalcare al di qua del confine. Io gli risi in faccia, un po’ perché Gomez non mi andava esattamente a genio e un po’ perché, se dentro il Santa Ana viaggiassero sul serio le animacce di Bowie e Crockett, bene, concedetemi di stare dalla loro parte. In ogni caso quel coyote si calmò e per una decina di minuti restammo in silenzio a ingozzarci di caffè e biscotti rancidi. Poi, di colpo, il vento si fece violento. Con improvvisi rinforzi che parevano alle nostre orecchie delle staffilate di lama graffiate su qualche superficie rocciosa e appuntita. Nell’ingresso della miniera non ce la passavamo poi così male. Però decisi comunque di spegnere il fuoco, anche se

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