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La macchina del tempo • L’uomo invisibile • La guerra dei mondi • L’isola del dottor Moreau
La macchina del tempo • L’uomo invisibile • La guerra dei mondi • L’isola del dottor Moreau
La macchina del tempo • L’uomo invisibile • La guerra dei mondi • L’isola del dottor Moreau
E-book759 pagine13 ore

La macchina del tempo • L’uomo invisibile • La guerra dei mondi • L’isola del dottor Moreau

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Edizioni integrali

Scienza e fantasia, rigorose basi teoriche e affascinanti invenzioni: i capolavori di H.G. Wells contengono in nuce gli elementi che costituiscono la fantascienza moderna. Creatore di veri e propri miti destinati a durare nel tempo, Wells ottenne uno straordinario successo, che dura tuttora ininterrotto, perché i progressi della conoscenza e della tecnica non hanno minimamente intaccato la capacità che hanno queste storie di emozionarci, esaltarci o spaventarci. Ne La macchina del tempo appare per la prima volta un mezzo meccanico in grado di trasportare avanti e indietro nel tempo chi sappia maneggiarlo. Anche L’uomo invisibile crea un paradigma per i secoli a venire: la storia di Griffin è, alla fine, la tragica presa di coscienza di una solitudine e di un distacco inconciliabili con il mondo. Celebre la versione cinematografica di James Whale del 1933, con Claude Rains nei panni del protagonista. L’intreccio de La guerra dei mondi, con i suoi alieni implacabili e apparentemente invincibili, ha prodotto innumerevoli riduzioni, la più recente delle quali è il film del 2005 interpretato da Tom Cruise; ma è rimasta nella storia quella per la radio, diretta da Orson Welles nel 1938: gli spettatori terrorizzati intasarono i centralini, credendo fosse davvero in atto un’invasione di extraterrestri. Negli esseri creati in laboratorio dal Dottor Moreau rivive l’incubo della creatura di Frankenstein, ma l’atmosfera è del tutto mutata: l’istinto animale e la lotta per la sopravvivenza rendono questa narrazione decisamente più moderna ma altrettanto emblematica di quella della Shelley. Il futuro, sembra dirci Wells, non è affatto rassicurante.
H.G. Wells
Herbert George Wells nacque a Bromley, nel Kent, nel 1866. Frequentò la Normal School of Science di Londra, e dalle conoscenze scientifiche seppe trarre linfa vitale per i suoi romanzi. È considerato il padre della fantascienza moderna, insieme con Jules Verne. Morì a Londra nel 1946. La Newton Compton ha pubblicato La guerra dei mondi, L’uomo invisibile e La macchina del tempo – L’isola del Dottor Moreau.
LinguaItaliano
Data di uscita9 feb 2017
ISBN9788822705624
La macchina del tempo • L’uomo invisibile • La guerra dei mondi • L’isola del dottor Moreau
Autore

H. G. Wells

H.G. Wells is considered by many to be the father of science fiction. He was the author of numerous classics such as The Invisible Man, The Time Machine, The Island of Dr. Moreau, The War of the Worlds, and many more. 

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    Anteprima del libro

    La macchina del tempo • L’uomo invisibile • La guerra dei mondi • L’isola del dottor Moreau - H. G. Wells

    579

    Titoli originali: The Time Machine (traduzione di Tullio Dobner);

    The Island of Dr. Moreau (traduzione di Gianni Pilo);

    The Invisible Man (traduzione di Stefano Sudrié);

    War of the Worlds (traduzione di Tullio Dobner)

    Prima edizione ebook: febbraio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0562-4

    www.newtoncompton.com

    Herbert G. Wells

    La macchina del tempo

    L’isola del dottor Moreau

    L’uomo invisibile

    La guerra dei mondi

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Nota biobibliografica

    LA VITA

    Herbert George Wells nacque a Bromley (Kent) l’11 settembre 1866, da modesta famiglia. Fino a diciassette anni fu garzone apprendista presso un magazzino di tessuti; nel 1884 venne ammesso con una borsa di studio alla Normal School of Science di Londra, dove seguì con passione i corsi di Thomas H. Huxley, convinto seguace delle teorie di Darwin. Questa formazione scientifica si rivelerà fondamentale nell’attività letteraria di Wells, che inizia, appunto, con il connubio tra l’elemento scientifico e il fantastico: The Time Machine (1895), The Island of Dr. Moreau (1896), The Invisible Man (1897), The War of the Worlds (1898), The First Men in the Moon (1901). In questi libri Wells unisce ai suoi studi scientifici un’immaginazione straordinariamente fertile e vivace, dando nuovo impulso al genere dello «scientific romance», di cui insieme a Jules Verne è considerato il padre.

    Successivamente, Wells si cimentò anche in romanzi di impronta naturalistica e di ambientazione borghese, molto popolari e apprezzati nel periodo edoardiano: Love and Mr. Lewisham (1900), Kipps (1905), Ann Veronica (1909), Tono-Bungay (1909), The History of Mr. Polly (1910). Alcune opere escono dichiaratamente dal tipo del romanzo, come The War that will End the War (1914), Mr. Britling Sees it Through (1916), The Soul of a Bishop (1917), Joan and Peter (1918), The Salvaging of Civilization (1921), The World of William Clissold (1926), The Shape of Things to Come (1933). Notevolissimo documento d’epoca e di costume è l’Experiment in Autobiography (1934). Wells morì a Londra il 13 agosto 1946.

    LE OPERE

    Ci si limita, in questa sede, a fornire un elenco delle opere narrative di H.G. Wells, trascurando quelle a carattere prettamente saggistico o giornalistico.

    The Chronic Argonauts, Science Schools Jnl, aprile-giugno 1888.

    Select Conversations with an Uncle, now Extinct, and Two Other Reminiscences, 1895.

    The Time Machine: an Invention, 1895.

    The Wonderful Visit, 1895.

    The Stolen Bacillus, and Other Incidents, 1895.

    The Red Room, 1896.

    The Island of Dr. Moreau, 1896.

    The Wheels of Chance: a Holiday Adventure, 1896.

    The Plattner Story, and Others, 1897.

    The Invisible Man: a Grotesque Romance, 1897.

    Thirty Strange Stories, 1897.

    The War of the Worlds, 1898.

    When the Sleeper Wakes: a Story of the Years to Come, 1899.

    Tales of Space and Time, 1899.

    Love and Mr. Lewisham, 1900.

    The First Men in the Moon, 1901.

    The Sea Lady: a Tissue of Moonshine, 1902.

    Twelve Stories and a Dream, 1903.

    The Food of the Gods, and How It Came to Earth, 1904.

    A Modern Utopia, 1905.

    Kipps: the Story of a Simple Soul, 1905.

    In the Days of the Comet, 1906.

    The War in the Air, and Particularly How Mr. Bert Smallways Fared While It Lasted, 1908.

    Tono-Bungay, 1908.

    Ann Veronica: a Modern Love Story, 1909.

    The History of Mr. Polly, 1910.

    The New Machiavelli, 1910.

    The Country of the Blind, and Other Stories, 1911.

    Marriage, 1912.

    The Passionate Friends, 1913.

    The World Set Free: a Story of Mankind, 1914.

    The Wife of Sir Isaac Harman, 1914.

    Bealby: a Holiday, 1915.

    The Research Magnificent, 1915.

    Mr. Britling Sees It Through, 1916.

    The Soul of a Bishop: a Novel – With Just a Little Love in It – about Conscience and Religion and the Real Troubles of Life, 1917.

    Joan and Peter: the Story of an Education, 1918.

    The Undying Fire: a Contemporary Novel, 1919.

    The Secret Places of the Heart, 1922.

    Men Like Gods, 1923.

    The Dream, 1924.

    Christina Alberta’s Father, 1925.

    The World of William Clissold: a Novel at a New Angle, 1926.

    Meanwhile: the Picture of a Lady, 1927.

    Mr. Blettsworthy on Rampole Island, 1928.

    The King Who Was a King: the Book of a Film, 1929.

    The Adventures of Tommy, 1929.

    The Autocracy of Mr. Parham: His Remarkable Adventure in This Changing World, 1930.

    The Bulpington of Blup, 1932.

    The Shape of Things to Come: the Ultimate Resolution, 1933.

    Things to Come: a Film Story Based on the Material Contained in His History of Future, The Shape of Things to Come, 1935.

    The Croquet Player: a Story, 1936.

    Man Who Could Work Miracles: a Film Story Based on the Material Contained in His Short Story (in Tales of Space and Time), 1936.

    Star Begotten: a Biological Fantasia, 1937.

    Brynhild, 1937.

    The Camford Visitation, 1937.

    The Brothers: a Story, 1938.

    Apropos of Dolores, 1938.

    The Holy Terror, 1939.

    Babes in the Darkling Wood, 1940.

    Two Film Stories, 1940 (il volume riunisce Things to Come, pubblicato nel 1935 e Man Who Could Work Miracles, pubblicato nel 1936).

    All Aboard for Ararat, 1940.

    You Can’t Be Too Careful: a Sample of Life 1901-51, 1941.

    The Desert Daisy (pubblicato postumo nel 1957).

    The Wealth of Mr. Waddy: a Novel (pubblicato postumo nel 1969).

    Un’ottima edizione delle opere fino al 1927 è la «Atlantic Edition», 28 voll., Londra 1924-27; tra le antologie, vanno segnalate: The Complete Short Stories, Londra 1966; Selected Short Stories, 1958 (Penguin); H.G. Wells, Journalism and Prophecy 1893-1946: an Antology, a cura di W.W. Wagar, Boston 1964.

    TRADUZIONI ITALIANE

    Fra le numerose edizioni italiane delle opere di H.G. Wells vanno almeno ricordate:

    Tutti i racconti e i romanzi brevi, a cura di F. Ferrara, Milano, Mursia, 1966 (rist. 1980), 4 voll.

    Breve storia del mondo, Bari, Laterza 1931.

    «L’uomo invisibile» (selezione), a cura di O. Volta, in Frankenstein & Company, Milano, Sugar 1965.

    L’isola del Dottor Moreau, Roma, Casini 1966.

    L’uomo invisibile e altri casi straordinari, Milano, Mursia 1967.

    Racconti, a cura di M. Flores, Milano, Garzanti 1976.

    La porta nel muro, a cura di J.L. Borges, Milano, Ricci 1980.

    La visita meravigliosa, Latina, L’Argonauta 1986.

    L’uomo invisibile, con una pref. di G. Finzi, Milano, Bompiani 1988.

    Gli Astrigeni, Latina, L’Argonauta, 1988.

    La macchina del tempo, Milano, Mursia 1990.

    Un’utopia moderna, Milano, Mursia 1990.

    Piccole guerre, Palermo, Sellerio 1990.

    L’isola del Dottor Moreau, Milano, Mursia 1991.

    La guerra dei mondi, Milano, Mursia 1991.

    L’uomo invisibile, Milano, Mursia 1991.

    STUDI E CONTRIBUTI

    Per una bibliografia, si veda A. Borrello, in English Literature in Transition, II, 1968. Utilissimo il Dictionary of the Characters and Scenes in the Novels, Romances and Short Stories of H.G. W. compilato da G. Connes (Dijon 1926). Per una biografia, oltre a An Experiment in Autobiography, dell’A. (Londra 1934), si veda: V. Brome, H.G. W.: A Biography, Londra 1951; N. e J. Mackenzie, The Time Traveller: the Life of H.G. W., Londra 1973. Un’introduzione generale a W. e al romanzo dell’epoca si trova in J. Hunter, Edwardian Fiction, Londra 1982; sulla fortuna critica ha scritto J. Raknem in H.G. W. and His Critics, Oslo 1963. Tra gli studi e i saggi, si veda E. Guyot, H.G. W., Parigi 1920; R.T. Hopkins, H.G. W., Londra 1922; G. Connes, Études sur la pensée de H.G. W., Parigi 1926; P. Braybrook, Some Aspects of H.G. W., Londra 1928; N.C. Nicholson, H.G. W., Londra 1950; A. Vallentin, H.G. W.: Prophet of Our Day, New York 1950; M. Belgion, H.G. W., nella serie «Writers and Their Work», Londra 1955; B. Bergonzi, The Early H.G. W., Manchester 1961; J.P. Venier, H.G. W. et son temps, Rouen 1971; J.R. Reed, The Natural History of H.G. W., Athens 1982; J. Huntington, The Logic of Fantasy: H.G. W. and Science Fiction, New York 1982; D. Bleich, «Utopia: the Psychology of a Cultural Fantasy», Ann Arbor 1984 (in A Modern Utopia), W.J. Scheick, The Splintering Frame: the Later Fiction of H.G. W., Victoria 1984; H.G. W: Reality and Beyond, a cura di M. Mullin, Campaign (Ill.) 1986.

    Tra gli studi in italiano: M. Praz, «Vita di H.G. W.», in Studi e svaghi inglesi, Firenze 1937; B. Sabatini, H.G. W., un pioniere della fantascienza, Firenze 1969; B. Melchiori, «H.G.W, in I contemporanei – Letteratura inglese, I, Roma 1977; A. Monti, Invito alla lettura di W., Milano 1982.

    R.R.

    La macchina del tempo

    1.

    Il Viaggiatore del Tempo (perché così sarà opportuno definirlo) ci stava esponendo una questione astrusa. Nei suoi occhi grigi brillava una luce ammiccante e l’animazione aveva tinto di rosa il suo naturale pallore. Il fuoco bruciava vivace e il bagliore delicato diffuso dai gigli d’argento accendeva le bollicine che nascevano e fluttuavano nei nostri bicchieri. Le poltrone di sua creazione su cui sedevamo, piuttosto che sottomettersi al nostro peso, ci abbracciavano e coccolavano in quella lussuosa atmosfera del dopocena quando i pensieri scorrono deliziosamente liberi dai vincoli della precisione. Così dunque ci parlava, marcando i punti con un indice affusolato, e noi ammiravamo pigramente la passione con cui ci esponeva questo suo nuovo paradosso (così lo vedevamo) e il fervore della sua fantasia.

    «Dovete seguirmi con molta attenzione. Sarò costretto a disputare una o due idee che sono accettate quasi universalmente. La geometria che vi insegnano a scuola, per esempio, si fonda su un equivoco».

    «Non è una questione un po’ troppo ponderosa da cui pretendere di farci cominciare?», obiettò Filby, un individuo polemico dai capelli rossi.

    «Non vi chiedo di accettare nulla senza averne stabilito un fondamento ragionevole. Presto ammetterete quanto ho bisogno che mi concediate. Sapete naturalmente che una linea matematica, una linea di spessore zero, non ha un’esistenza reale. Ve l’hanno insegnato? Lo stesso vale per un piano matematico. Sono mere astrazioni».

    «Su questo non ci sono dubbi», disse lo psicologo.

    «Altrettanto un cubo, non avendo lunghezza, larghezza e spessore, non può esistere nella realtà».

    «Su questo non sono d’accordo», intervenne Filby. «È ovvio che un corpo solido può esistere. Tutte le cose reali…».

    «Così pensa la maggioranza delle persone. Ma aspettate un momento. Può esistere un cubo istantaneo

    «Non vi seguo», disse Filby.

    «Può un cubo, che non dura alcun lasso di tempo, esistere realmente?».

    Filby si mise a riflettere. «Chiaramente», proseguì il Viaggiatore del Tempo, «un qualunque corpo reale deve avere estensioni in quattro direzioni: deve avere lunghezza, ampiezza, altezza e… durata. Ma per una naturale limitazione del nostro modo di essere, che vi spiegherò fra poco, siamo inclini a trascurare questo fatto. Ci sono in realtà quattro dimensioni, tre delle quali definiamo i tre piani dello spazio, e la quarta è il tempo. C’è tuttavia la tendenza a determinare un’irreale distinzione tra le prime tre dimensioni e l’ultima, perché natura vuole che la nostra coscienza si muova in maniera incostante in una sola direzione lungo la quarta dimensione dall’inizio alla fine della nostra vita».

    «Questo», commentò un ascoltatore molto giovane che faceva sforzi spasmodici per riaccendere il suo sigaro sulla fiamma della lampada, «questo… è senz’altro molto chiaro».

    «È molto interessante che tale fatto venga normalmente trascurato», continuò il Viaggiatore del Tempo con una punta di allegria nella voce. «In realtà è questo che si intende con quarta dimensione, anche se certe persone parlano della quarta dimensione senza sapere a che cosa si riferiscono. È solo un altro modo di guardare al tempo. Non c’è nessuna differenza tra il tempo e le altre tre dimensioni dello spazio, a parte il fatto che la nostra coscienza si muove lungo di esso. Qualche sciocco però se ne è fatta l’idea sbagliata. Avete sentito che cosa dicono di questa quarta dimensione?»

    «Io no», rispose il sindaco della provincia.

    «È molto semplice. Che lo spazio, come lo intendono i nostri matematici, è costituito da tre dimensioni, che possiamo chiamare lunghezza, larghezza e altezza, ed è sempre definibile facendo riferimento a tre piani, ciascuno ad angolo retto rispetto agli altri. Ma certe menti filosofiche si sono domandate come mai tre dimensioni in particolare, come mai non un’altra direzione ad angolo retto con le prime tre, e hanno persino cercato di costruire una geometria quadridimensionale. Questa tesi è stata esposta alla Società matematica di New York dal professor Simon Newcomb solo un mese fa. Sapete che su una superficie piana, che ha solo due dimensioni, possiamo rappresentare una figura solida a tre dimensioni; e analogamente questi pensatori sostengono che tramite modelli a tre dimensioni se ne possa rappresentare uno di quattro, se solo riuscissero a coglierne la prospettiva. Capito?»

    «Io credo di sì», mormorò il sindaco e, aggrottando le sopracciglia, scivolò in uno stato di introspezione muovendo le labbra come fa chi ripete versi mistici. «Sì, ora credo di sì», disse dopo qualche tempo rasserenandosi, ma solo per pochi istanti.

    «Ebbene, posso confessarvi che è da qualche tempo che lavoro a questa geometria di quattro dimensioni. Alcuni dei risultati a cui sono giunto sono curiosi. Per esempio, abbiamo qui il ritratto di un uomo a otto anni, un altro a quindici, un altro a diciassette, un altro a ventitré e così via. Tutte queste sono evidentemente delle sezioni, rappresentazioni tridimensionali del suo essere quadridimensionale, che è una cosa fissa e inalterabile.

    «Gli scienziati», seguitò il Viaggiatore del Tempo dopo la pausa necessaria perché il concetto venisse adeguatamente assimilato, «sanno molto bene che il tempo è un modo dello spazio. Ecco qui un diagramma scientifico popolare, una misurazione metereologica. Questa linea che traccio con il dito mostra il movimento del barometro. Ieri l’indice era molto alto, ieri sera è sceso, poi stamattina è salito di nuovo, molto lentamente, arrivando fin qui. Chiaramente il mercurio non ha tracciato questa linea in nessuna delle dimensioni dello spazio che vengono generalmente riconosciute, giusto? Ma ha senza dubbio tracciato una linea, e pertanto dobbiamo concludere che quella linea era compresa nelle tre dimensioni».

    «Ma», osservò il medico con lo sguardo fisso su un tizzone nel focolare, «se il tempo non è altro che una quarta dimensione dello spazio, come mai ora e da sempre viene considerato come qualcosa di diverso? E perché non possiamo muoverci nel tempo come ci muoviamo nelle altre dimensioni dello spazio?».

    Il Viaggiatore del Tempo sorrise. «Siete sicuro che possiamo muoverci liberamente nello spazio? Possiamo andare a destra e a sinistra, abbastanza liberamente in avanti e indietro, ed è quello che gli uomini hanno sempre fatto. Ammetto che ci muoviamo in libertà in due dimensioni. Ma su e giù? In questo caso siamo limitati dalla gravità».

    «Non esattamente», obiettò il medico. «Ci sono le mongolfiere».

    «Ma prima delle mongolfiere, a parte i salti inconsulti o le irregolarità della superficie, l’uomo non aveva libertà di movimento verticale».

    «Però un po’ su e giù ci possiamo muovere», insistette il medico.

    «Più facilmente giù che su, molto più facilmente».

    «E non ci si può muovere per nulla nel tempo, non ci si può allontanare dal momento presente».

    «Mio caro signore, è proprio qui che vi sbagliate. È proprio qui che il mondo intero sbaglia. Noi ci spostiamo in continuazione dal momento presente. Le nostre esistenze mentali, che sono immateriali e non hanno dimensioni, transitano per la dimensione tempo a una velocità uniforme dalla culla alla tomba. Precisamente come viaggeremmo all’ingiù se iniziassimo la nostra esistenza cinquanta miglia al di sopra della superficie terrestre».

    «Ma la grande difficoltà è qui», lo interruppe lo psicologo. «Ci si può spostare in tutte le direzioni dello spazio, ma non si può andare in giro per il tempo».

    «Questo è il germe della mia grande scoperta. Ma vi sbagliate nel dichiarare che non possiamo muoverci nel tempo. Se per esempio io ricordo un episodio con molta chiarezza, torno all’istante in cui è avvenuto: mi distraggo, come si suol dire. Per un momento spicco un salto all’indietro. Naturalmente non abbiamo modo di restare nel passato a lungo più di quanto un selvaggio o un animale possa restare nell’aria due metri al di sopra del suolo. Ma da questo punto di vista un uomo civile è avvantaggiato rispetto al selvaggio. Può alzarsi contro la forza di gravità in una mongolfiera, e perché non dovrebbe sperare di potersi un giorno fermare o di accelerare il suo viaggio nella dimensione tempo o addirittura girarsi e viaggiare in senso opposto?»

    «Oh», cominciò Filby, «questo è tutto…».

    «Perché no?», insisté il Viaggiatore del Tempo.

    «È contro la ragione», decretò Filby.

    «Quale ragione?», ribatté il Viaggiatore del Tempo.

    «Con l’eloquenza potrà arrivare a dimostrarmi che il nero è bianco», disse Filby, «ma non riuscirete mai a convincere me».

    «Forse no», gli concesse il Viaggiatore del Tempo. «Ma ora cominciate a vedere anche voi qual è l’obiettivo delle mie ricerche nella geometria delle quattro dimensioni. Anni fa mi è venuta la vaga idea di una macchina…».

    «Per viaggiare attraverso il tempo!», esclamò l’ascoltatore molto giovane.

    «Che possa viaggiare indifferentemente in tutte le direzioni dello spazio e del tempo, a seconda della volontà del guidatore».

    Filby si accontentò di ridere.

    «Ma io l’ho verificato con degli esperimenti», disse il Viaggiatore del Tempo.

    «Sarebbe estremamente utile allo storico», commentò lo psicologo. «Potrebbe tornare indietro e sincerarsi fino a che punto è veritiera la ricostruzione della battaglia di Hastings, per esempio!».

    «Non pensate che attirereste l’attenzione?», chiese il medico. «I nostri antenati non amavano molto gli anacronismi».

    «Uno potrebbe imparare il greco dalle labbra stesse di Omero e Platone», rifletté a voce alta il giovane.

    «Così verreste certamente bocciato al primo degli esami. Gli studiosi tedeschi hanno migliorato notevolmente il greco antico».

    «Poi c’è il futuro», osservò il giovane. «Ma pensateci! Uno potrebbe investire tutto il proprio denaro, lasciare che accumuli gli interessi e correre in avanti a incassarli!».

    «Per scoprire una società», dissi io, «fondata su basi rigorosamente comuniste».

    «Di tutte le teorie più stravaganti!…», cominciò lo psicologo.

    «Sì, così sembrava a me, e per questo non ne ho mai parlato prima…».

    «Esperimenti!», esclamai io. «Avete intenzione di darne dimostrazione?».

    «L’esperimento!», proruppe Filby, che stava cominciando a sentirsi intellettualmente provato.

    «Vediamo il vostro esperimento, dunque», propose lo psicologo, «anche se è tutta trita fantasia, sapete?».

    Il Viaggiatore del Tempo ci guardò sorridendo. Poi, con un residuo di sorriso sulle labbra e le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, uscì lentamente dalla stanza e udimmo il fruscio delle sue pantofole nel lungo corridoio che portava al laboratorio.

    Lo psicologo ci guardò. «Cosa può avere?»

    «Qualche trucco da prestidigitatore», disse il medico, e Filby cercò di raccontarci di un illusionista che aveva visto a Burslem, ma prima che finisse il preambolo della sua storia, il Viaggiatore del Tempo era tornato e l’aneddoto di Filby soccombette.

    L’oggetto che il Viaggiatore del Tempo teneva in mano era un luccicante giocattolino di metallo, poco più grande di un piccolo orologio e dalla struttura assai delicata. Vi si vedevano parti in avorio e di una trasparente sostanza cristallina. Ora devo dire con tutta sincerità che, a meno di prendere per buone le sue spiegazioni, quanto segue è assolutamente inesplicabile. Prese uno dei tavolini ottagonali che c’erano in giro per la stanza e lo piazzò di fronte al caminetto, con due gambe sul tappetino davanti al focolare. Su quel tavolo posò il meccanismo. Poi avvicinò una sedia per accomodarsi. Sullo stesso tavolino c’era soltanto un piccolo abat-jour, la cui luce brillante cadeva sul modellino. C’erano altre fonti luminose nel salotto: una decina forse di candele, due in candelabri d’ottone sulla mensola del caminetto e altre in candelieri a parete, cosicché l’ambiente era ben illuminato. Io sedevo in una poltroncina molto vicina al fuoco, che trascinai in avanti fino a trovarmi quasi tra il Viaggiatore del Tempo e il caminetto. Filby era seduto dietro di lui e guardava da sopra la sua spalla. Il medico e il sindaco lo osservavano in profilo da destra, lo psicologo da sinistra. L’ospite molto giovane era seduto dietro lo psicologo. Eravamo tutti concentratissimi. Ritengo impossibile che in simili condizioni si potesse mettere in scena un gioco di prestigio, per quanto astutamente concepito e presentato con destrezza.

    Il Viaggiatore del Tempo guardò prima noi e poi il meccanismo. «Allora?», lo incalzò lo psicologo.

    «Questa cosuccia», disse il Viaggiatore del Tempo appoggiando i gomiti al tavolo e unendo le mani poco sopra il misterioso congegno, «è solo un modellino. È il mio progetto di una macchina con cui viaggiare nel tempo. Noterete che è un po’ storto e che questa barretta emette uno strano luccichio, come se non fosse del tutto reale». Indicò la parte a cui alludeva con la punta del dito. «Qui c’è poi una levetta bianca e qui ce n’è un’altra ancora».

    Il medico si alzò dalla sua poltrona per vedere meglio. «Molto ben realizzato», commentò.

    «Mi ci sono voluti due anni», rivelò il Viaggiatore del Tempo. «Ora», riprese dopo che tutti noi imitammo la manovra del medico, «voglio che sia ben chiaro a tutti che questa leva, spinta in avanti, spedisce la macchina nel futuro, mentre con quest’altra si ottiene il movimento inverso. Questo è il sedile dove prende posto un viaggiatore del tempo. Ora io spingerò la leva e la macchina partirà. Scomparirà, passerà nel tempo futuro e non la vedremo più. Guardate bene il modello. Guardate anche il tavolo e assicuratevi che non ci siano trucchi. Non voglio che questo modellino vada sprecato per poi sentirmi dare del ciarlatano».

    Ci fu una pausa di forse un minuto. Mi sembrò che lo psicologo volesse rivolgermi la parola, ma che cambiasse idea. Poi il Viaggiatore del Tempo avvicinò il dito alla leva. «No», disse all’improvviso. «Prestatemi la vostra mano». E, volgendosi allo psicologo, gli prese la mano e gli disse di allungare l’indice. Fu dunque così che toccò allo psicologo spedire il modellino di Macchina del Tempo nel suo viaggio interminabile. Tutti noi vedemmo la leva muoversi. Io sono assolutamente certo che non ci fu alcun trucco. Si udì uno sbuffo di vento e la fiammella della lampada vacillò. Una delle candele sulla mensola si spense e il modellino di macchina ruotò a un tratto su se stessa, perse definizione, fu visto per non più di un secondo come un fantasma, un vortice di labili riflessi di ottone e avorio, dopodiché… svanita! Sul tavolino c’era solo la lampada.

    Tutti rimasero in silenzio. Poi Filby imprecò.

    Lo psicologo si riprese dallo sbalordimento e guardò improvvisamente sotto il tavolo. Al che il Viaggiatore del Tempo scoppiò in un’allegra risata. «Allora?», disse quasi scimmiottando lo psicologo di poco prima. Poi si alzò, andò alla tabacchiera sulla mensola del caminetto e, volgendoci le spalle, cominciò a caricare la pipa.

    Noi ci scambiammo un’occhiata. «Sentite un po’», disse il medico, «state facendo sul serio? Credete davvero che quella macchina sia in viaggio nel tempo?»

    «Altroché», rispose il Viaggiatore del Tempo chinandosi a porgere l’estremità di uno stecchino sulle fiamme del focolare. Poi si girò a guardare in faccia lo psicologo mentre accendeva la pipa. (Lo psicologo, per darsi un tono di distacco, si servì di un sigaro e cercò di accenderlo senza averlo inciso.) «E non basta, perché di là», e indicò il laboratorio, «ho una macchina vera e propria che è quasi finita e, quando sarà pronta, ho intenzione di compiere un viaggio io stesso».

    «Volete sostenere che quella macchina abbia viaggiato nel futuro?», intervenne Filby.

    «Nel futuro o nel passato. Non so con precisione in quale dei due».

    Dopo qualche secondo lo psicologo ebbe un’ispirazione. «Se è andata da qualche parte, dev’essere finita nel passato», dichiarò.

    «Perché?», volle sapere il Viaggiatore del Tempo.

    «Perché presumo che non si sia mossa nello spazio, e se avesse viaggiato nel futuro sarebbe rimasta sempre qui, poiché avrebbe viaggiato attraverso questo tempo».

    «Ma se avesse viaggiato nel passato», obiettai io, «sarebbe stata visibile in questa stanza quando siamo arrivati noi, e giovedì scorso quando eravamo di nuovo qui. E il giovedì precedente e così via!».

    «Obiezione più che valida», commentò il sindaco della provincia con fare imparziale, girandosi verso il Viaggiatore del Tempo.

    «Nient’affatto», ribatté il Viaggiatore del Tempo. «Pensateci», disse poi rivolgendosi allo psicologo. «Voi potete spiegarlo. Si tratta di presenza sotto la soglia della percezione, presenza in una forma diluita, come dire».

    «Ma certo», disse lo psicologo in un tono che ci rassicurò tutti quanti. «Ed è un concetto di psicologia abbastanza banale. Avrei dovuto pensarci. È piuttosto evidente e spiega molto bene il paradosso. Noi non possiamo vederla, né renderci conto della presenza di questa macchina più di quanto possiamo veder ruotare il raggio di una ruota o sfrecciare un proiettile che attraversa l’aria. Se sta viaggiando nel tempo cinquanta o cento volte più velocemente di noi, se percorre un minuto nel tempo in cui noi impieghiamo un secondo, l’impressione che creerà sarà naturalmente solo di un cinquantesimo o un centesimo di quanto mostrerebbe di sé, se non stesse viaggiando nel tempo. È abbastanza comprensibile». Passò la mano nello spazio in cui si era trovato il modellino. «Vedete?», disse ridendo.

    Noi restammo in silenzio a guardare per un minuto il tavolino vuoto. Poi il Viaggiatore del Tempo ci chiese che cosa ne pensavamo.

    «Questa sera sembra abbastanza plausibile», gli rispose il medico, «ma aspettiamo fino a domani. Attendiamo il buonsenso del mattino».

    «Vi va di vedere la Macchina del Tempo vera?», domandò il Viaggiatore del Tempo. Dopodiché prese la lampada in mano e ci fece strada per il lungo corridoio pieno di spifferi. Ricordo molto bene la luce incerta, la silhouette della sua testa insolitamente grande, la danza delle ombre, mentre tutti noi lo seguivamo perplessi e increduli; e poi, nel laboratorio, la versione in grandezza naturale del giocattolino che avevamo visto svanire davanti ai nostri occhi. C’erano parti in nichel, parti in avorio, parti che sicuramente erano state ricavate da lastre di cristallo di roccia. La macchina era quasi completata, ma sul banco, accanto ad alcuni fogli con dei disegni, c’erano le barrette cristalline a tortiglione: ne presi in mano una per esaminarla meglio. Mi sembrò di quarzo.

    «Ditemi con sincerità», chiese il medico, «siete perfettamente serio? O tutto questo è un gioco, come quel fantasma che ci avete mostrato il Natale scorso?»

    «A bordo di quella macchina», affermò il Viaggiatore del Tempo tenendo in alto la lampada, «intendo esplorare il tempo. È chiaro quello che dico? Non sono mai stato più serio in vita mia».

    Nessuno di noi sapeva bene come prenderla.

    Incrociai lo sguardo di Filby da sopra la spalla del medico, e lui mi strizzò l’occhio con un’espressione solenne.

    2.

    Io penso che in quel momento nessuno di noi credesse davvero alla Macchina del Tempo. Il fatto è che il Viaggiatore del Tempo era una di quelle persone che sono troppo intelligenti per essere credute. Non si ha mai l’impressione di vedere tutto di lui, si ha sempre il sospetto che dietro la sua cristallina franchezza si nasconda qualche sottigliezza, che qualche colpo di genio ti tenda un’imboscata. Se fosse stato Filby a mostrarci il modellino e a spiegarci la questione nelle stesse parole del Viaggiatore del Tempo, avremmo dimostrato per lui assai meno scetticismo. Perché avremmo capito le sue argomentazioni: persino un macellaio capirebbe Filby. Il Viaggiatore del Tempo metteva invece nelle sue esposizioni un tocco di stravaganza che ci induceva a diffidare di lui. Nelle sue mani quello che avrebbe garantito la celebrità a un uomo meno brillante, assumeva l’aspetto di un trucco. Rendere le cose troppo facili è un errore. Le persone serie, che lo prendevano sul serio, non si sentivano mai del tutto sicure dell’integrità della sua condotta: avevano la sensazione che mettere in gioco la propria reputazione in un giudizio sul suo conto sarebbe stato come abbellire la stanza dei bambini con delicati vasi di porcellana. Penso perciò che nell’intervallo tra quel giovedì e quello successivo nessuno di noi abbia detto molto sui viaggi nel tempo, anche se senza dubbio le straordinarie possibilità che offrivano occuparono gran parte della nostra mente, vale a dire i dubbi sulla loro plausibilità, l’incredulità della realizzazione sul piano pratico, la bizzarria del conseguente anacronismo e la totale confusione che quel concetto originava. Per parte mia, ero particolarmente interessato al trucco del modellino. Ricordo di averne discusso con il dottore quando ci incontrammo venerdì all’Accademia del Linneo. Mi disse d’aver visto un oggetto simile a Tübingen e attribuì una considerevole importanza al fatto che si fosse spenta la candela. Ma come avesse funzionato il trucco non fu in grado di spiegarmelo.

    Il giovedì seguente tornai a Richmond, e del resto credo di essere stato uno degli ospiti più costanti del Viaggiatore del Tempo. Arrivato in ritardo, trovai quattro o cinque persone già raccolte nel suo salotto. Il medico era in piedi davanti al caminetto con un foglio in mano e l’orologio nell’altra. «Sono ormai le sette e mezzo», disse, mentre io mi guardavo intorno in cerca del Viaggiatore del Tempo. «Non è il caso che ceniamo?».

    «Dov’è…?», chiesi io facendo il nome del padrone di casa.

    «Siete appena arrivato? È alquanto strano. È stato inevitabilmente trattenuto. Mi ha chiesto con questo messaggio di annunciare la cena per le sette, se non fosse stato di ritorno. Dice che spiegherà tutto quando sarà qui».

    «Io direi che lasciar sciupare la cena sarebbe un peccato», commentò il direttore di un noto quotidiano, cosicché il dottore suonò il campanello.

    Oltre a me e al dottore, lo psicologo era il solo tra i presenti a essere stato lì per la cena precedente. Gli altri erano Blank, il direttore succitato, un certo giornalista e un’ultima persona, un uomo con la barba, timido e di poche parole, che non conoscevo e che, per quanto possa aver notato io, non aprì bocca per tutta la serata. Intorno alla tavola si fecero congetture sull’assenza del Viaggiatore del Tempo, e io ipotizzai abbastanza scherzosamente che fosse in viaggio nel tempo. Il direttore pretese una spiegazione e lo psicologo gli propose una rozza ricostruzione dell’«ingegnoso paradosso e trucco» a cui avevamo assistito la settimana precedente. Era nel mezzo della sua esposizione, quando la porta del corridoio si aprì lentamente e senza rumore. Io ero girato da quella parte e fui il primo a vederlo. «Salve!», dissi. «Finalmente!». E la porta si aprì di più, ed ecco il Viaggiatore del Tempo davanti a noi. Mi lasciai sfuggire un’esclamazione di sorpresa. «Santo cielo! Cosa c’è?», proruppe il medico, che fu il secondo a vederlo. E tutti i presenti intorno al tavolo si voltarono verso la porta.

    Era in uno stato pietoso. La giacca era sporca e impolverata e con le maniche macchiate di verde, i capelli erano scompigliati e nel complesso mi sembrò ingrigito, o per colpa della polvere e del sudiciume o perché aveva effettivamente perso colorito. La faccia era di un pallore spettrale, sul mento aveva un taglio scuro, una ferita rimarginata solo per metà. La sua espressione era smunta e tirata, di un’intensa sofferenza. Esitò per un momento sulla soglia, come abbagliato dalla luce. Poi entrò nella stanza. Camminava con quel tanto di zoppia che avevo visto nei vagabondi con le piaghe ai piedi. Lo osservammo in silenzio aspettando che fosse lui a parlare.

    Non proferì parola, ma giunse faticosamente fino al tavolo e indicò il vino. Il direttore gli riempì un bicchiere di champagne e lo spinse verso di lui. Lo scolò e sembrò fargli bene, perché guardò i commensali e gli aleggiò sulle labbra il fantasma del suo vecchio sorriso. «Cosa diavolo avete combinato, amico mio?», chiese il dottore. Sembrò che il Viaggiatore del Tempo non lo avesse udito. «Non state in pena per me», disse con una certa difficoltà nell’articolare le parole. «Sto benissimo». Allungò il braccio chiedendo di nuovo da bere e scolò il bicchiere. «Ottimo», mormorò. I suoi occhi ripresero luce e nelle guance tornò una traccia di colore. I suoi occhi ci passarono in rassegna con un’espressione di blanda approvazione, per poi contemplare l’intera stanza nell’atmosfera di calorosa accoglienza. Finalmente parlò di nuovo come se avanzasse a tentoni tra le parole. «Vado a lavarmi e cambiarmi, poi torno giù a darvi qualche spiegazione… Tenetemi da parte un po’ di quel montone. Ho una gran voglia di carne».

    Si rivolse al direttore del giornale, che non era tra i suoi visitatori abituali, e lo salutò con cordialità. Il direttore fece per porgli una domanda. «Vi dirò tutto tra breve», lo precedette il Viaggiatore del Tempo. «Sono… scombussolato! Ma starò bene tra un minuto».

    Posò il bicchiere e andò verso la porta delle scale. Notai di nuovo la sua zoppia e il suono ovattato dei suoi passi; e alzatomi dal mio posto gli guardai i piedi mentre usciva. Indossava solo un paio di calze lacere e sporche di sangue. Poi la porta si chiuse alle sue spalle. Ebbi la mezza intenzione di seguirlo, prima di ricordare quanto detestasse essere assillato dal prossimo. Per un minuto forse rimasi distratto. «Comportamento eccezionale di un eminente scienziato», sentii poi declamare dal direttore, pronunciato com’era sua abitudine come se stesse leggendo un titolo a caratteri cubitali. E questo riportò la mia attenzione alla tavola ben illuminata.

    «Cosa sta facendo?», chiese il giornalista. «Gioca al millantatore dilettante? Non capisco». Io incrociai lo sguardo con lo psicologo e lessi sul suo viso la mia stessa interpretazione. Pensai al Viaggiatore del Tempo che saliva faticosamente le scale. Credo che nessun altro si fosse accorto che zoppicava.

    Il primo a riaversi completamente dalla sorpresa fu il medico, che suonò il campanello per farsi portare un piatto caldo: al Viaggiatore del Tempo non piaceva che la servitù attendesse in sala da pranzo. Subito dopo il direttore tornò a impugnare coltello e forchetta con un brontolio sommesso, e altrettanto fece l’uomo silenzioso. La cena riprese. Sulle prime la conversazione fu un intercalare di espressioni di meraviglia, finché la curiosità non innescò l’esuberanza del direttore del giornale. «Il nostro amico arrotonda forse le sue modeste entrate spazzando le strade? O ha forse avuto una crisi alla Nabucodonosor?», domandò. «Io sono sicuro che è per via della Macchina del Tempo», intervenni e ripresi il racconto fatto dallo psicologo della nostra precedente riunione. I nuovi ospiti manifestarono sincera incredulità. Il direttore avanzò le sue obiezioni. «Cos’era mai questa storia dei viaggi nel tempo? Un uomo non può coprirsi di polvere rotolando in un paradosso, no?». Quindi, colto meglio il senso del concetto, si affidò all’ironia. Forse nel futuro non esistevano le spazzole per i vestiti? Anche il giornalista non era disposto a crederci a nessun prezzo e si unì al direttore nel facile esercizio di ridicolizzare tutta quanta la faccenda. Erano entrambi esponenti della nuova razza di giornalisti, giovani allegri e irriverenti. «Il nostro corrispondente speciale dal dopodomani ci riferisce…», stava recitando, o per meglio dire urlando, il giornalista quando rientrò il Viaggiatore del Tempo. Indossava normali abiti da sera e dell’aspetto che mi aveva tanto colto alla sprovvista restava solo l’espressione provata del viso.

    «Dunque dunque», disse allegramente il direttore, «questi ragazzi qui sostengono che voi abbiate fatto un viaggetto nel mezzo della settimana prossima! Raccontateci del piccolo Rosebery, vi prego. Quanto prendete per rivelarci tutto?».

    Senza una parola, il Viaggiatore del Tempo andò al posto a lui riservato. Sorrise tranquillo alla sua vecchia maniera. «Dov’è il mio montone?», chiese. «Che gioia poter infilzare nuovamente la forchetta in un pezzo di carne!».

    «Storia!», pretese il direttore.

    «Storia un corno!», rispose il Viaggiatore del Tempo. «Voglio mangiare qualcosa. Non dirò una parola prima d’essermi messo un po’ di peptoni nelle arterie. Grazie. E anche il sale».

    «Una sola parola», lo sollecitai io. «Avete viaggiato nel tempo?»

    «Sì», rispose il Viaggiatore del Tempo annuendo con la bocca piena.

    «Vi pagherò uno scellino a riga per un resoconto esauriente», dichiarò il direttore del giornale. Il Viaggiatore del Tempo spinse il suo bicchiere verso l’uomo silenzioso e lo fece tintinnare con l’unghia, al che l’uomo silenzioso, che lo stava fissando, sussultò teatralmente e gli versò del vino. La cena proseguì in un’atmosfera di disagio. Per parte mia, mi salivano alle labbra domande improvvise e credo di poter affermare che era così anche per gli altri. Il giornalista cercò di alleviare la tensione raccontando storielle su Hettie Potter. Il Viaggiatore del Tempo dedicò la sua attenzione alla cena, mostrando l’appetito di un barbone. Il medico fumò una sigaretta e osservò il Viaggiatore del Tempo di sottecchi. L’uomo silenzioso sembrò diventare ancor più maldestro di prima e bevve champagne con la regolarità e la determinatezza che nascono dal puro nervosismo. Venne finalmente il momento in cui il Viaggiatore del Tempo allontanò da sé il piatto e ci guardò. «Ritengo di dovermi scusare», disse. «Stavo semplicemente morendo di fame. Ho vissuto un’esperienza davvero stupefacente». Prese un sigaro e ne tagliò l’estremità. «Ma venite nel salotto per fumatori. È una storia troppo lunga da raccontare davanti ai piatti sporchi». E, suonando il campanello mentre si alzava, ci precedette nella stanza accanto.

    «Avete riferito della macchina a Blank, Dash e Chose?», mi domandò abbandonandosi a sedere in poltrona mentre nominava i tre nuovi ospiti.

    «Ma questo è un paradosso bell’e buono», disse il direttore del giornale.

    «Questa sera non me la sento di discutere. Vi racconto volentieri la storia, ma non posso discutere. Vi racconterò», proseguì, «quello che mi è successo, se volete, ma dovete trattenervi dall’interrompermi. Voglio raccontarvelo. Lo desidero davvero. Vi sembreranno quasi tutte invenzioni, ma pazienza! È la verità, lo sarà ogni singola parola, comunque la pensiate. Alle quattro ero nel mio laboratorio e da quel momento… ho vissuto otto giorni… giorni come nessun essere umano ha mai vissuto prima! Sono quasi sfinito, ma non andrò a dormire finché non vi avrò raccontato questa esperienza. Poi andrò a letto. Ma niente interruzioni! Siamo d’accordo?»

    «D’accordo», rispose il direttore e tutti noi, in coro: «D’accordo». Allora il Viaggiatore del Tempo cominciò la sua storia come la riporto qui. Abbandonato contro lo schienale della sua poltrona iniziò a parlare come un uomo molto stanco. Più avanti si animò. Nello scriverne avverto fin troppo acuta l’inadeguatezza di penna e inchiostro, e soprattutto la mia personale inadeguatezza, nel comunicare la qualità del suo racconto. Leggerete, presumo, con sufficiente attenzione, ma voi non potete vedere il volto pallido e sincero del narratore nel cerchio di luce della piccola lampada, né cogliere l’intonazione della sua voce. Non potete sapere quanto la sua espressione si conformasse alle svolte della sua storia! Quasi tutti noi ascoltatori eravamo nell’ombra, perché nel salotto per i fumatori non erano state accese le candele ed erano illuminate solo la faccia del giornalista e le gambe dell’uomo silenzioso dalle ginocchia in giù. Dapprincipio ci scambiammo ripetute occhiate, ma dopo un po’ cessammo di farlo e guardammo tutti solo il volto del Viaggiatore del Tempo.

    3.

    «Giovedì scorso ad alcuni di voi ho spiegato i princìpi della Macchina del Tempo e ho anche mostrato la macchina stessa, ancora incompleta nel mio laboratorio. È lì tuttora, per la verità un po’ usurata dal viaggio. Una delle barre d’avorio è crepata e un corrimano d’ottone si è piegato, ma il resto pare abbastanza integro. Pensavo che l’avrei finita venerdì, ma, quando avevo quasi completato il montaggio definitivo, ho scoperto che una delle barre di nichel era più corta di un pollice esatto, e ho dovuto rifarla. Così non ho avuto la macchina pronta prima di stamattina. È stato alle dieci di oggi che la prima di tutte le Macchine del Tempo ha iniziato la sua carriera. Ho fatto un’ultima verifica, ho controllato di nuovo che tutte le viti fossero strette, ho aggiunto ancora una goccia d’olio alla bacchetta di quarzo e sono salito a bordo. Immagino che un suicida che si punta una pistola alla testa viva la stessa palpitazione che ho provato io al cospetto dell’ignoto. Ho impugnato in una mano la leva di avvio e nell’altra quella di arresto, ho spinto la prima e poi immediatamente la seconda. Ho avvertito un senso di vertigine e ho avuto la sensazione di precipitare tipica degli incubi, ma guardandomi intorno ho visto il laboratorio esattamente come sempre. Era successo qualcosa? Per un momento ho sospettato di essere vittima di una suggestione. Poi ho notato l’orologio. Un momento prima, così mi era sembrato, segnava le dieci e un minuto circa. Ora erano quasi le tre e mezzo!

    Ho preso fiato, ho stretto i denti, ho afferrato in entrambe le mani la leva di avvio e sono partito con un tonfo. È stato come se sul laboratorio calassero un velo e poi l’oscurità. È entrata la signora Watchett, apparentemente senza vedermi, ed è andata verso la porta del giardino. Suppongo che abbia impiegato su per giù un minuto per attraversare il laboratorio, ma per me è stato come se sfrecciasse da una parte all’altra come un razzo. Ho spinto la leva fino alla posizione estrema. La notte è scesa come per aver spento una lampada e un istante dopo ecco l’indomani. Il laboratorio è diventato incerto e sempre più indefinito. È sceso il buio della notte di domani, poi di nuovo il giorno, di nuovo notte, di nuovo giorno, sempre più velocemente. Sentivo un brusio che mi si avvitava nelle orecchie e una strana confusione mi ottenebrava la mente.

    Non credo di potervi descrivere fino in fondo le strane sensazioni di chi viaggia nel tempo. Sono estremamente spiacevoli. Ci si sente proprio come sulle montagne russe: la sensazione di una precipitosa caduta senza freni! Provavo anche la stessa orribile anticipazione di uno schianto imminente. Dopo aver preso slancio, la notte cominciò a seguire il giorno come il battere di un’ala nera. L’immagine latente del laboratorio si dissolse del tutto e vidi il sole compiere rapidamente il suo arco nel cielo, scavalcarlo a ogni minuto e ogni minuto segnare un nuovo giorno. Pensai che il laboratorio fosse stato distrutto e che io fossi finito all’aria aperta. Ebbi l’impressione fugace di un’impalcatura, ma stavo già viaggiando troppo velocemente per poter cogliere cose in movimento. La più lenta delle lumache che abbia mai strisciato su questa Terra sfrecciava troppo veloce per me. L’alternarsi fulmineo di buio e luce si trasformava in un lampeggiare febbrile che faceva troppo male agli occhi. Poi, nell’oscurità intermittente vidi la luna trascorrere rapida da un quarto all’altro, da nuova a piena, e scorsi per qualche attimo il moto del firmamento. Poco dopo, mentre proseguivo continuando ad acquistare velocità, il palpito di notte e giorno si fuse in un grigiore continuo, il cielo assunse una splendida profondità azzurra, un fantastico colore luminoso come quello del primo crepuscolo, i transiti precipitosi del sole diventarono una striscia di fuoco, un arco scintillante nello spazio, la luna un nastro fluttuante di luce meno intensa; e non potei vedere più niente delle stelle, a parte qua e là un circoletto lucente che ammiccava nel blu.

    Il paesaggio era vago, avvolto nella foschia. Mi trovavo ancora sul pendio sul quale sorge ora questa casa e il colle sopra di me era grigio e indistinto. Vidi alberi crescere e mutare come sbuffi di vapore, ora marroni, ora verdi; crescevano, si ramificavano, rinsecchivano e morivano. Vidi innalzarsi palazzi enormi, belli e brutti, e dissolversi come sogni. Mi sembrò cambiata la faccia stessa della Terra, che si fondeva e scorreva davanti ai miei occhi. Le lancette dei quadranti che registravano la mia velocità correvano sempre più veloci. Dopo un po’ notai che la scia rappresentata dal sole ondeggiava su e giù, da solstizio a solstizio, nell’arco di un minuto e anche meno, e che di conseguenza la mia andatura era di oltre un anno per minuto; e minuto dopo minuto il bianco della neve balenava sul mondo e svaniva, seguito per breve tempo dal verde luminoso della primavera.

    Le brutte sensazioni della partenza si fecero più sopportabili e finalmente si fusero in una sorta di esaltazione isterica. Devo segnalare peraltro un brusco scossone della macchina di cui non sono stato capace di stabilire la causa. Ma la mia mente era troppo confusa per potermici dedicare, così, mentre sentivo crescere in me una specie di follia, mi tuffai nell’avvenire. Dapprincipio non pensai di fermarmi, non pensai ad altro che a queste nuove sensazioni. Più tardi però si insinuò nella mia mente una nuova serie di impressioni, una certa curiosità e con essa una certa apprensione, finché non ne fui completamente posseduto. Quali imprevedibili sviluppi dell’umanità, quali straordinari progressi della nostra rudimentale civiltà, riflettei, avrei potuto veder apparire quando avessi gettato lo sguardo nel mondo sfuggente che mi scorreva e fluttuava davanti! Immaginai di vedere levarsi davanti a me architetture fantastiche, splendidi edifici di enormi dimensioni come non esistono nel nostro tempo, e tuttavia apparentemente costruiti di una sostanza impalpabile. Immaginai un verde rigoglioso che copriva la collina e resisteva nel tempo, senza le interruzioni invernali. Anche attraverso il filtro della mia confusione, la Terra mi appariva bellissima. E così cominciai a prendere in considerazione di fermarmi.

    Il rischio particolare che correvo era la possibilità di trovar sostanza nello spazio che io o la mia macchina stavamo occupando. Finché viaggiavo attraverso il tempo ad alta velocità, era un’eventualità irrilevante. Ero, in un certo senso, in uno stato di attenuazione e scivolavo come vapore negli interstizi tra i solidi che incontravo! Ma fermarmi significava ricompattarmi, molecola per molecola, in ciò in cui mi trovavo in quel momento, significava porre i miei atomi in un contatto così stretto con quelli dell’ostacolo in questione da scatenare una forte reazione fisica, forse addirittura una tremenda esplosione, che avrebbe catapultato me e la mia macchina fuori da tutte le dimensioni possibili, nel grande Ignoto. È una possibilità sulla quale tornavo ripetutamente mentre lavoravo alla macchina, ma alla fine l’avevo serenamente accettata come un rischio inevitabile, uno di quei rischi che l’uomo è costretto a correre! Ora che il pericolo era concreto, non lo vedevo più nella stessa luce ottimistica. Il fatto è che l’assoluta stranezza delle esperienze che stavo vivendo, soprattutto le forti vibrazioni e oscillazioni della macchina, oltre alla sensazione di una caduta interminabile, mi avevano scosso nel profondo dei nervi. Dissi a me stesso che non avrei potuto mai fermarmi, e con uno scatto di pura ribellione decisi di farlo all’istante. In un moto di sciocca impazienza strattonai la leva e la macchina, incontrollata, si rovesciò catapultandomi nell’aria.

    La testa mi si riempì di un rombo come di tuono e può darsi che rimasi stordito per qualche istante. Sentivo sibilare intorno a me una violenta grandinata e mi ritrovai seduto sul terreno soffice davanti alla macchina rovesciata. Vedevo ancora tutto grigio, ma poco dopo mi accorsi che il frastuono che avevo nelle orecchie era sparito. Mi guardai intorno: ero in quello che sembrava il praticello di un giardino, circondato da cespugli di rododendri, e notai che i loro fiori viola e porpora cadevano sferzati dai grani della grandine, la quale, danzando e saltellando, ricopriva la macchina come una nuvola e correva lungo il terreno come fumo. In un attimo mi ritrovai bagnato fradicio. Bella ospitalità, brontolai, verso un uomo che ha viaggiato per un numero incalcolabile di anni per venire a trovarti.

    Finalmente mi diedi dello stupido per starmene lì a bagnarmi. Mi alzai e mi guardai intorno. Attraverso la cortina della grandinata, indistinta al di là dei rododendri, scorsi una figura colossale, apparentemente scolpita in una pietra di colore chiaro. Ma tutto il resto del mondo era invisibile.

    Difficile descrivere le mie sensazioni. Quando gli scrosci di grandine si assottigliarono, vidi meglio la figura bianca. Era grandissima, tanto che le fronde argentee di una betulla le sfioravano una spalla. Era di marmo bianco, di una forma simile a quella di una sfinge alata, le cui ali però, invece di salire verticali ai suoi lati, erano aperte in maniera da dare l’impressione che volasse. La base mi sembrò di bronzo, coperto da uno strato denso di verderame. Per caso la faccia era girata dalla mia parte e sembrava che i suoi occhi ciechi mi osservassero, con un abbozzo di sorriso sulle labbra. Consumata com’era dalle intemperie, dava una sgradevole sensazione di malattia. Per qualche tempo indugiai a contemplarla, forse un minuto o mezz’ora. A seconda che la grandine si facesse più intensa o rada, mi sembrava venire avanti e tornare indietro. Alla lunga staccai gli occhi dalla statua per un momento e vidi che la cortina di grandine si era sfilacciata e che il cielo si andava rischiarando con la promessa del sole.

    Tornai a guardare la forma bianca accovacciata e, all’improvviso, mi travolse l’assoluta temerarietà del mio viaggio. Che cosa avrei visto quando la bruma creata dalla grandine si fosse dissolta del tutto? E che fine potevano aver fatto gli uomini? E se la crudeltà si fosse diffusa in un sentimento collettivo? Se durante quell’intervallo di tempo la razza avesse perso la sua umanità e si fosse sviluppata in qualcosa di disumano, insensibile e spaventosamente potente? Sarei potuto apparire come un animale selvatico di un mondo antico, ancor più odioso e disgustoso per la mia somiglianza, una creatura schifosa da eliminare senza indugio.

    Già cominciavo a scorgere altre forme di grandi dimensioni, enormi edifici con complicati parapetti e alte colonne, e il pendio boscoso di un colle che emergeva adagio dallo spegnersi del temporale. Fui colto dal panico. Mi avventai sulla Macchina del Tempo per cercare di raddrizzarla. Mentre ero così occupato, lame di luce solare attraversarono le nuvole. Il grigiore della grandinata fu spazzato via e svanì come l’abito a strascico di un fantasma. Sopra di me, nell’azzurro intenso del cielo estivo, alcuni stracci scuri di nuvola si attorcigliarono su se stessi dissolvendosi nel nulla. I grandi palazzi davanti a me erano ora perfettamente visibili, luccicanti di temporale, sbiancati dai mucchi di grandine non ancora disciolta. Mi sentii nudo in un mondo sconosciuto. Mi sentii come si sente forse un uccello nell’aria tersa, quando sa che sopra di lui vola il falco e che sta per scendere in picchiata. La mia paura crebbe in frenesia. Respirai a fondo, serrai i denti e ripresi a lottare con forza per raddrizzare la macchina, facendo leva con braccia e ginocchia. Sotto il mio slancio disperato, cedette e si rivoltò, colpendomi duramente al mento. Con una mano sul sedile e l’altra sulla leva, sostai ansimando nell’atto di risalire a bordo.

    Ma con il recupero di una rapida via di fuga, ritrovai il coraggio. Guardai con più curiosità e minor timore quel mondo di un futuro remoto. In un’apertura circolare in alto nella parete della casa più vicina scorsi un gruppo di figure vestite di morbide tuniche vaporose. Mi avevano visto, e i loro volti erano tutti girati verso di me.

    Poi sentii voci che si avvicinavano. Da dietro i cespugli della Sfinge Bianca spuntarono le teste e le spalle di uomini in corsa. Uno di costoro emerse sul sentiero che portava dritto al praticello sul quale mi trovavo io con la mia macchina. Era una creatura esile, alta poco più di un metro, in una tunica purpurea stretta in vita da una cintura di cuoio. Ai piedi aveva sandali o coturni, non seppi distinguerli con chiarezza, e le gambe erano nude fino alle ginocchia, come nuda era la testa. Notato tutto questo, mi accorsi per la prima volta di quanto tiepida fosse l’aria.

    Mi sembrò una creatura assai bella e aggraziata, ma di una fragilità indescrivibile. Il suo viso arrossato mi ricordò la forma più leggiadra della consunzione, quella bellezza data dalla tisi di cui si sente tanto parlare. Alla sua vista, ritrovai improvvisamente sicurezza. Staccai le mani dalla macchina.

    4.

    Pochi istanti ed eravamo uno davanti all’altro, io e questa fragile creatura dell’avvenire. Venne diritto da me e rise guardandomi negli occhi. Mi colpì subito l’assenza nel suo comportamento di qualunque segno di timore. Poi si rivolse agli altri due che lo seguivano e parlò loro in una lingua strana, dolce e flautata.

    Ne stavano arrivando altri, e di lì a poco intorno a me si formò un piccolo gruppo di una decina di queste creature deliziose. Una di loro mi parlò. A me venne stranamente il dubbio che la mia voce potesse essere per loro troppo aspra e profonda, così scossi la testa e, indicandomi le orecchie, la scossi di nuovo. Il primo del gruppo venne avanti di un passo, esitò e quindi mi toccò la mano. Poi avvertii altri delicati piccoli contatti su schiena e spalle. Volevano assicurarsi che fossi reale. In tutto questo non c’era niente di allarmante. C’era piuttosto qualcosa in quelle graziose personcine che ispirava fiducia, una garbata cortesia, una infantile semplicità di modi. Avevano inoltre un aspetto così fragile da farmi pensare di poterli atterrare tutti quanti in un colpo solo come birilli. Feci però un immediato gesto di ammonimento quando vidi le loro rosee manine allungarsi verso la Macchina del Tempo. Cosicché ebbi la fortuna, quando non era troppo tardi, di pensare a un pericolo che fino a quel momento avevo trascurato e mi protesi oltre il parapetto della macchina, svitai le piccole leve che servivano per metterla in moto e me le infilai in tasca. Poi tornai a occuparmi di loro e a trovare un modo per comunicare.

    Allora, guardando più attentamente i loro lineamenti, notai alcune altre peculiarità nella loro delicata bellezza da porcellana di Dresda. I capelli, che erano un uniforme caschetto di riccioli, terminavano in una linea netta sul collo e sulle guance, il loro viso era assolutamente glabro e le loro orecchie incredibilmente minute. La bocca era piccola, con labbra rosso vermiglio piuttosto sottili, e il piccolo mento era appuntito. Gli occhi erano grandi e miti e l’impressione che ebbi di loro, sebbene questa potrebbe sembrare presunzione da parte mia, è di una scarsa mancanza di quell’interesse che mi sarei aspettato di suscitare in loro.

    E non fecero nessuno sforzo di comunicare con me, limitandosi a starmi attorno sorridendo e parlando tra di loro in quelle dolci note melodiose, così fui io a dare inizio alla conversazione. Indicai la Macchina del Tempo e me stesso. Poi, dopo un attimo di titubanza su come esprimere il concetto di tempo, indicai il sole. Subito un’aggraziata figurina in tunica a scacchi rossi e bianchi imitò il mio gesto e poi mi colse di sorpresa imitando il rumore del tuono.

    Per un momento rimasi sconcertato, sebbene mi fosse ben chiaro il senso del suo gesto. La domanda mi sovvenne all’improvviso: avevo a che fare con degli idioti? Potete immaginare il mio sgomento. Il fatto è, vedete, che avevo sempre pensato che gli esseri umani dell’ottocentoduemila e rotti sarebbero stati incredibilmente più avanti di noi quanto a conoscenza, arti, tutto quanto. Poi uno di loro mi pose a un tratto una domanda, dimostrandomi che il suo livello intellettuale era quello di un bambino di cinque anni. Mi chiese, per la precisione, se ero arrivato dal Sole durante il temporale! Ne conseguì il giudizio che avevo tenuto in sospeso davanti al loro abbigliamento, alle loro membra così fragili e leggere e ai lineamenti così fini dei loro volti. Mi sentii invadere dalla delusione. Per un momento pensai di aver costruito la Macchina del Tempo per niente.

    Annuii, indicai il Sole e mi esibii in un’imitazione così ben riuscita di un rombo di tuono da spaventarli. Indietreggiarono tutti di un passo e s’inchinarono. Poi uno di loro venne verso di me ridendo e portando una ghirlanda di fiori bellissimi, anche quelli a me sconosciuti, che mi mise al collo. La sua iniziativa fu accompagnata da un applauso melodioso e subito ci fu un gran correre avanti e indietro a raccogliere fiori che, sempre ridendo, mi gettavano addosso, finché non mi ritrovai quasi completamente soffocato di petali. Voi che non ne avete mai visti di simili non potete immaginare la delicata bellezza di fiori creati da innumerevoli anni di coltivazioni. Poi qualcuno suggerì di mostrare il loro giocattolo nell’edificio più vicino, e così fui condotto verso un grande palazzo grigio e intaccato dal tempo al di là della sfinge di marmo bianco, che per tutto il tempo parve osservarmi sorridendo del mio stupore. Mentre camminavo con loro mi tornarono alla mente, con irresistibile divertimento, le mie fiduciose anticipazioni di una posterità di infinita solennità ed evoluzione intellettuale.

    Nell’edificio, che era di dimensioni colossali, si entrava attraverso un enorme portale. Io ero naturalmente interessato soprattutto alla crescente folla di piccole creature e alle grandi porte che si spalancavano davanti a me, oscure e misteriose. L’impressione generale che ebbi del mondo che scorgevo al di sopra delle loro teste era quella di un esteso groviglio di arbusti e fiori bellissimi, un giardino da lungo tempo trascurato eppure privo di erbe infestanti. Vidi degli alti steli che reggevano strani fiori bianchi con petali lucidi come cera, larghi più di una spanna. Crescevano sparsi, come piante selvatiche, in mezzo a cespugli variegati, ma devo ammettere che sul momento non li esaminai con particolare attenzione. La Macchina del Tempo fu abbandonata tra i rododendri.

    L’arco del portale era sontuosamente scolpito, ma naturalmente non osservai molto bene le incisioni, anche se passando mi parve di intuire richiami di antiche decorazioni fenicie, ma soprattutto mi colpì quanto fossero

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