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Giro d'Italia: Racconti e misteri in maglia rosa
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E-book225 pagine3 ore

Giro d'Italia: Racconti e misteri in maglia rosa

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Il Giro d'Italia è una delle manifestazioni sportive più antiche, gloriose e amate del nostro Paese, nato in un periodo in cui il ciclismo era il vero sport nazionale, insieme evento di costume e festa di popolo. Istituito dalla «Gazzetta dello Sport» nel 1909, da allora si sono disputate 105 edizioni, che ci hanno regalato imprese memorabili, vittorie e dolori, rivalità aspre e spigolose, fatte di veleni e cattiverie assortite. Ma anche misteri, segreti e aneddoti curiosi degli eroi in bicicletta, protagonisti di uno sport che è metafora della vita. In questo libro Beppe Conti, giornalista e veterano della cronaca sportiva, racconta con il suo stile inconfondibile e sotto una luce completamente nuova più di un secolo di ciclismo italiano in maglia rosa, ripercorrendo la fascinosa avventura del Giro d’Italia.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita8 mag 2023
ISBN9788836162994
Giro d'Italia: Racconti e misteri in maglia rosa

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    Giro d'Italia - Beppe Conti

    GIROD'ITALIA_FRONTE_EBOOK.jpg

    Beppe Conti

    Giro d’Italia

    Racconti e misteri in maglia rosa

    Introduzione

    I misteri del Giro, i retroscena, le storie a tinte forti d’una avventura nata col Novecento e che continua ad affascinare la gente anche nel terzo millennio. Non ci stancheremo mai di ripeterlo, il Giro d’Italia non è soltanto una corsa in bicicletta. È un fatto di costume del nostro beneamato Paese. Come il Festival di Sanremo.

    Il Giro d’Italia fa parte della storia delle nostre genti, entra nelle vicende che nel bene e nel male, fra gloria e tragedie, hanno illustrato le differenti epoche del nostro vivere civile. E fra le varie imprese, vittorie e sconfitte dei protagonisti, ecco storie a volte misteriose, a volte curiose, sempre piacevoli da ricordare.

    A partire da quando per la prima volta i corridori salirono su di un colle, a Sestriere, nel 1911, con quelle strade e quelle biciclette. Tanti a piedi, ma qualcuno forse salì di nascosto su una delle rare auto di quei giorni. Già, qualche pioniere nelle interminabili maratone che s’iniziavano la notte, era anche tentato di prendere il treno.

    Avventure di immutato fascino. Ecco i primi fuoriclasse, Girardengo battezzato il Campionissimo nel 1919, guarda caso quando nasceva Coppi, il quale in assoluto è titolare del superlativo. Binda pagato per non correre nel 1930, era troppo forte. Learco Guerra, il suo grande rivale, sapeva metterlo a volte in difficoltà, ma c’è chi garantisce che quando finalmente vinse il Giro nel 1934 fece alcuni chilometri di una tappa in auto, voleva ritirarsi.

    Quante storie: nel 1947 i gregari di Coppi tentarono invano di comprare Bartali, offrendo per conto della Bianchi un milione di lire di quei giorni. Gino non accettò. Però perse la sfida. E le spinte a Magni sulle Dolomiti furono davvero organizzate?

    E poi ancora: l’impresa più grande di Coppi, nella Cuneo-Pinerolo del 1949, nasce da un mistero. Forse voleva dedicare il tutto ai suoi amici del Grande Torino, scomparsi da poco a Superga. E la vendetta di Koblet, che si sentiva tradito da Coppi, poi l’impresa di Gaul sul Bondone, in una tappa che si doveva annullare.

    Il mistero legato a Baldini, irresistibile al Giro una volta sola. E il sabotaggio a Massignan sul Gavia, il cuore malato di Merckx, il doping di Savona, un giallo attorno al campionissimo belga.

    Tanti misteri affollano anche la carriera di Baronchelli. E i sospetti che riguardano Pollentier, irresistibile contro Moser, ma che poi al Tour venne beccato a frodare al controllo antidoping. La malignità sull’elicottero Rai che avrebbe aiutato Moser nella crono di Verona, i sospetti fra Roche e Visentini, il giallo irrisolto di Pantani a Campiglio, le storie di doping che hanno rischiato di travolgere tutto. E infine Nibali che meritava maggiori attenzioni, sino all’ultimo mistero legato a Fabio Aru: perché come campione è finito così presto?

    Storie davvero intense e piacevoli da rivivere, ripercorrendo la fascinosa avventura del Giro d’Italia, sempre atteso come una festa di popolo, anno dopo anno, anche oggi, dopo oltre un secolo, negli anni Venti del Duemila.

    Ganna è il primo vincitore del Giro e rilascia subito un’intervista proibita

    Il nuovo secolo, il Novecento, stava proponendo in ogni contrada eventi ricchi di fascino e di emozioni. Tragici e gioiosi, come spesso accade. Nel 1908 l’inglese cresciuto in Francia Henri Farman, ex ciclista e poi grande aviatore, pilotò il primo aereo con almeno un passeggero a bordo, mentre la Ford produceva il primo modello di utilitaria e nasceva la General Motors. L’imperatore Francesco Giuseppe annetteva all’Austria la Bosnia e l’Erzegovina. E Camillo Olivetti fondava a Ivrea la storica fabbrica di macchine da scrivere.

    Un’annata segnata per sempre dal tragico terremoto che devastò Calabria e Sicilia – era l’alba del 28 dicembre 1908 – distruggendo in 37 secondi Messina e Reggio Calabria. Persero la vita metà degli abitanti della città siciliana e un terzo di quella calabrese nel crollo del 90 per cento degli edifici. Mai più visto, per fortuna, in Italia e in Europa niente di simile.

    Si faceva già tanto sport nel 1908: ai Giochi di Londra nasceva la leggenda di Dorando Pietri (o Petri), il quale, stremato dalla fatica, vinse la maratona olimpica sorretto da due giudici di gara. Verrà squalificato fra mille polemiche, alimentando la leggenda d’un personaggio da tutti amato e portato ad esempio.

    A Milano nasceva l’Inter, ma soprattutto prendeva corpo l’idea di allestire il Giro d’Italia. L’annunciava infatti la «Gazzetta dello Sport» del 7 agosto con un titolone su sette colonne. Prima edizione nel 1909: una decisione presa di gran fretta grazie a una soffiata. L’episodio appartiene ormai alla storia e alla leggenda del ciclismo.

    Certo a ripensarci adesso, nasceva anche con un po’ di ritardo il Giro, tenuto conto che il Tour de France era andato in scena la prima volta già nel 1903. O forse chissà, c’era da tener conto in Italia anche di quanto sosteneva il papa, Giuseppe Sarto, trevigiano di Riese, salito al soglio pontificio con il nome di Pio X, il quale già da vescovo di Mantova e poi da capo della Chiesa aveva proibito la bicicletta ai preti e tutto il clero, con quel famoso messaggio: «Vade retro, bicicletta!»

    E poi il Tour tanto aveva fatto discutere nell’estate successiva alla nascita, quando sulle strade di Francia accadde di tutto, corridori presi a bastonate da teppisti, o che di notte salivano sui treni e sulle poche auto del seguito per accorciare i percorsi, spinte e traini vari a tal punto che il verdetto venne modificato poi nell’inverno. E la corsa proprio nel 1904 rischiò già di naufragare.

    Si correvano comunque da tempo quelle che oggi chiamiamo Classiche Monumento, la Roubaix addirittura dal 1896, la Liegi ben due anni prima, il Lombardia dal 1905, la Sanremo nel 1907.

    Ecco perché il Giro vedeva la luce persino nel 1909. Una storia diventata leggenda. Il signor Angelo Gatti, un dirigente dell’industria di biciclette, che aveva lasciato la Bianchi per fondare l’Atala, aveva saputo che il «Corriere della Sera» assieme al Touring Club e alla concorrente stava per lanciare un Giro d’Italia ciclistico, dopo aver tentato invano quello motoristico.

    Gatti era in guerra commerciale con Tomaselli, l’ex iridato del tandem e ora direttore della Bianchi, e così fece la soffiata a Tullo Morgagni, caporedattore della «Gazzetta», il quale a sua volta avvertì direttore e fondatore del giornale, Eugenio Costamagna e Armando Cougnet, figura storica di grande organizzatore che sino al 1948 sarà l’anima della corsa. Il maestro di Vincenzo Torriani.

    I tre chiesero aiuto a Primo Bongrani, impiegato di banca che avrebbe dovuto provvedere al recupero dei premi, 25 mila lire complessive. Va detto subito che poi, con grande sportività e signorilità, il «Corriere della Sera», anticipato nel progetto, offrirà comunque le tremila lire spettanti al vincitore.

    L’avventura, dunque, poteva iniziare. Partenza da Milano, in piazzale Loreto, il 13 maggio 1909, verso le tre di notte: 127 i corridori pronti a vivere fin da subito una serie di colpi di scena che avrebbero affascinato gli spettatori.

    Prima tappa verso Bologna passando dal Veneto, ben 397 chilometri su quelle strade e con quelle bici. Ma già a Milano il primo a finire a terra era stato proprio uno dei più attesi protagonisti, Giovanni Gerbi, il celeberrimo Diavolo Rosso cantato poi da Paolo Conte, El sciur Diavul, come lo chiamavano i milanesi, già protagonista di leggendarie diavolerie per vincere ogni sfida.

    Una caduta non grave, però la bicicletta era a pezzi. Doveva fermarsi presso l’officina della Bianchi a ripararla da solo, come imponeva il regolamento. Impiegò tre ore, ma non si rassegnò e risalì in sella a inseguire il Giro.

    Cadde in corsa anche il celeberrimo Petit Breton, francese nato in Argentina, che già aveva vinto per ben due volte il Tour de France, forse il più grande campione nell’avvio di Novecento. Cadde finendo contro un mucchio di sassi in una curva verso Peschiera, mentre stava addentando un pezzo di pollo. Portò a termine la tappa, ma non partì per quella successiva.

    Il regolamento del Giro prevedeva la partenza di ogni frazione nel cuore della notte, viste le medie e le distanze, per poter arrivare a metà pomeriggio nelle città, attesi da una folla immensa. Bisognava infatti stare in sella per dodici-quattordici ore, forse anche di più visto che si viaggiava ai 25 all’ora al massimo. Poi c’era un giorno di riposo, a volte anche due, da trascorrere quasi sempre a letto, per recuperare le forze e poter poi affrontare la tappa successiva.

    Al seguito c’erano otto vetture, quattro per le squadre, due per organizzazione e giuria, due per i giornalisti. Erano già tante per quei giorni. Lungo la strada a volte si incontrava anche il treno, una tentazione per i ciclisti, in quelle notti non sempre rischiarate dalla luna. La tentazione di salire in carrozza e ridiscendere più avanti, per poi proseguire in bici. La giuria doveva così stare in guardia, timbrando ognuno con frequenti controlli.

    A Bologna vinse Dario Beni. Le tappe successive portarono il Giro a Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino e infine Milano. Al comando della classifica a punti balzò ben presto il varesino Luigi Ganna, in virtù di tre successi di giornata e numerosi altri piazzamenti.

    Veniva infatti assegnato un punto al vincitore, due al secondo, tre al terzo e così via ai primi cinquanta. A tutti gli altri 51 punti. Vinceva il Giro d’Italia, ovviamente, chi realizzava meno punti.

    Ganna passò in testa alla graduatoria vincendo a Roma. Verso Chieti s’era ritirato Pavesi, poi anche Manina Cuniolo. Rossignoli, temibilissimo, venne tolto di mezzo da una foratura nel finale verso Torino. E alla vigilia della tappa conclusiva nel capoluogo lombardo tre soli punti dividevano Ganna da Galetti.

    Ed ecco le ultime emozioni. Ganna forò, Galetti lo attaccò con altri corridori al suo servizio. Gli stava portando via il Giro. Ma un provvidenziale passaggio a livello chiuso, a Rho, consentì a Ganna di rientrare. Non era stata ancora decisa in tal caso la neutralizzazione della corsa.

    A Milano, scortati da uno squadrone dei Lancieri di Novara, per difenderli dall’assalto della gente, i corridori arrivarono sulla strada del Sempione davanti alla trattoria Isolino, alla Cagnola. Vinse nuovamente Dario Beni, come a Bologna, davanti a Galetti e Ganna. Quest’ultimo trionfò al Giro grazie alla classifica a punti. Fosse stata adottata quella a tempi avrebbe vinto Giovanni Rossignoli.

    Gli eroi del Giro vennero poi sospinti verso l’Arena per la premiazione. E qui avvenne quella magica e divertente intervista al vincitore, passata alla storia e raccontata poi con grande maestria da Gianni Brera.

    Non si sa se un giornalista della «Gazzetta» oppure Armando Cougnet, l’organizzatore, nel felicitarsi per il trionfo al Giro, chiese a Ganna quali erano le sue prime impressioni. E il muratore varesino, stralunato e un po’ perplesso, replicò:

    «Cosa devo dire? L’impressione più viva, è che mi fa tanto male il culo».

    In effetti all’epoca, per lenire i dolori e le piaghe di tutte quelle ore in sella, i corridori si mettevano addirittura una bistecca cruda a contatto delle parti… molli.

    Luigi Ganna intascò per la vittoria 5.325 lire, tanti soldi per quei giorni. Il direttore della «Gazzetta», Costamagna, che si firmava spesso Magno, guadagnava 150 lire al mese.

    Sestriere la prima montagna del Giro. A piedi nella neve (qualcuno in auto?)

    La prima montagna del Giro d’Italia tra bufere di neve e intenso freddo è stato il colle di Sestriere, affrontato sia nel 1911 che nel 1914, vale a dire venticinque anni prima dell’approdo sulle Dolomiti (stagione 1937).

    Non è difficile immaginare cosa volesse dire arrampicarsi sino a quota duemila con quelle strade e soprattutto con quelle biciclette d’inizio Novecento, con quei rapporti. Salivano quasi tutti a piedi. Il Giro 1911 partiva e si concludeva a Roma, per celebrare i cinquant’anni dalla proclamazione del Regno d’Italia. Partenza da Porta Pia, dodici tappe, 86 corridori al via, 24 al traguardo finale.

    La stagione precedente, nel 1910, Carlin Galetti, milanese di Corsico, era rimasto ben presto senza avversari. Correva per l’Atala, con Ganna e Pavesi. Li chiamavano i Tre moschettieri. La prima tappa da Milano a Udine la vinse Ernesto Azzini, la seconda a Bologna il francese Jean Baptiste Dortignac, che ottenne dunque il primo successo straniero nella corsa italiana, il quale vincerà anche il primo Giro di Romagna. Correva per la Legnano.

    I tre moschettieri, però, sulle montagne d’Abruzzo dominarono la scena. Ganna, il primo vincitore del Giro, purtroppo, venne tolto di mezzo a Teramo da un’intossicazione, sugo di pomodoro guasto, secondo la versione dell’epoca: crisi violenta sul Macerone.

    Verso Napoli si arrese anche il temibile francese Petit Breton, per una serie di incidenti meccanici. La tappa però la contestarono parecchio per alcuni errori di percorso. Reclami e controreclami dei differenti gruppi sportivi. L’Atala approfittò di quella situazione, ma la Legnano per protesta ritirò i suoi, Albini, Dortignac, Brocco e gli altri.

    Fra tante grandi città, in quel Giro 1910 una tappa si concluse anche a Mondovì, nel cuneese, come la stagione successiva, perché in quell’antico borgo era nato Eugenio Magno Costamagna, direttore della «Gazzetta dello Sport».

    Galetti fu ben presto al comando nella classifica a punti, voluta da Armando Cougnet perché con quella a tempi, al Tour de France, in passato, c’erano stati troppi imbrogli. Galetti prevalse con diciotto lunghezze di vantaggio su Pavesi e ventitré su Ganna. Se la classifica fosse stata a tempi avrebbe lasciato l’amico Pavesi a un’ora e venti minuti.

    L’unico spavento il tipografo milanese lo visse nella tappa conclusiva, da Torino a Milano, quando andò a sbattere contro un carro di fieno, complice un cavallo imbizzarrito. Si ruppe un dente, niente di più. All’Arena milanese vinse la tappa Ganna, ma il trionfo in classifica fu quello di Galetti.

    Così andarono le cose nel 1910. L’anno dopo ecco l’arrampicata a Sestriere, quinta frazione, da Mondovì a Torino, di 302 chilometri. Il colle di Sestriere dal versante di Pinerolo. Protagonista dell’arrampicata non fu per l’occasione un piccolo scalatore, bensì il possente bolognese Ezio Corlaita, grintoso e generoso, che staccò i rivali, con la neve ai bordi della strada, fango e sentieri sconnessi. Quasi tutti furono costretti a salire a piedi verso il colle. Il primo a mettersi in evidenza fu il celeberrimo francese Petit Breton, il quale però andò in crisi pochi chilometri dopo il passaggio da Fenestrelle. E balzò al comando Corlaita.

    Chissà in quanti salirono sul colle senza spinte o senza attaccarsi alle rare auto del seguito. O magari addirittura trovando posto di nascosto su certe vetture. Resta un mistero. Uno dei tanti dell’infinita avventura dei forzati della strada.

    In discesa da Sestriere, verso Susa, il bolognese Corlaita venne ripreso da Petit Breton, uno dei fuoriclasse dell’epoca. Poi anche da Galetti e Rossignoli, i duellanti per la vittoria finale, i più regolari. Galetti al Giro 1911 aveva già vinto la prima tappa, una maratona da Roma a Perugia e poi Firenze di 360 chilometri.

    A Torino, nel quartiere Pozzo Strada, in capo a una polverosa e concitata volata, Petit Breton sconfisse Galetti, Corlaita e Rossignoli. Poi venne portato in trionfo su di un’auto verso il centro della città, ricoperto di fiori.

    Correva infatti su biciclette Fiat, dirigeva il reparto il ragionier Follis, cugino degli Agnelli. Ebbero vita breve, però, le bici col celebre marchio torinese, perché con la guerra di Libia del 1912 la casa decise di puntare sulle auto e sui mezzi militari. Petit Breton, favorito al Giro del 1911, venne poi tolto di mezzo da un guasto a quel suo famoso e rudimentale cambio di velocità a tre rapporti, un prototipo inglese della ditta Bowden.

    La città di Torino, in quei giorni in cui arrivò trionfalmente il Giro d’Italia, era ancora turbata per l’atroce suicidio del grande scrittore Emilio Salgari, che venne ritrovato in un bosco con la gola e il ventre squarciato, in mano ancora il rasoio.

    Era sul lastrico, la moglie in manicomio, depresso e sfinito. I suoi libri non avevano ancora ottenuto il successo sperato (Sandokan su tutti). Una storia tragica e pazzesca di famiglia. La moglie Ida, undici anni dopo, morì in manicomio; la figlia Fatima, giovanissima, s’arrese alla tubercolosi. E si suicidarono anche i figli Romero e Omar, mentre Nadir perse la vita in un incidente stradale.

    Salgari

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