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Le leggende del Milan. Sopra il Milan c'è solo il cielo
Le leggende del Milan. Sopra il Milan c'è solo il cielo
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E-book201 pagine3 ore

Le leggende del Milan. Sopra il Milan c'è solo il cielo

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Il Milan è la squadra italiana che ha vinto più trofei in campo internazionale grazie a una serie di campioni dal talento straordinario e di stelle del calcio conosciute in tutto il mondo. Dall’inglese Herbert Kilpin al cannoniere svedese Gunnar Nordahl, dal barone Niels Liedholm, esempio di sportività, a José Altafini, autore della doppietta che laureò il Milan prima squadra italiana sul tetto d’Europa, da Cesare e Paolo Maldini, padre e figlio che alzarono entrambi la Coppa dei campioni a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro, a Gianni Rivera, primo giocatore nato in Italia a vincere il Pallone d’oro. E poi Franco Baresi, Ruud Gullit, Marco van Basten, fino ad arrivare al bomber ucraino Andriy Shevchenko e a Kaká, sintesi di potenza atletica e classe sopraffina. Tutto ciò è confluito nelle pagi­ne che seguono, nient’affatto asettiche e imparziali, semmai impregnate di un sentimento profondo. Un libro di parte, scritto da un milanista per i milanisti, che ripercorre la storia del Diavolo e delle leggende che hanno fatto sognare milioni di tifosi.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita7 nov 2020
ISBN9788836160808
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    Anteprima del libro

    Le leggende del Milan. Sopra il Milan c'è solo il cielo - Antonio Carioti

    Introduzione

    Di mestiere faccio il giornalista. Ma nella mia attività professionale non mi sono mai occupato di calcio. Quando scrivo del Milan, al quale ho dedicato altri due libri oltre a questo, non lo faccio da giornalista, ma da semplice tifoso, mosso esclusivamente dalla passione. Una passione sbocciata quando andavo alle scuole elementari, ai tempi di Gianni Rivera, poi proseguita cercando di essere il più possibile vicino ai colori rossoneri, con l’abbonamento allo stadio di San Siro (anche quando abitavo a Roma) e con le trasferte in Italia e all’estero, compresi due lunghi viaggi in Giappone nel 1989 e nel 1990.

    Al tifo poi si somma la propensione per lo studio della storia, che mi ha indotto a interessarmi delle vicende passate. Quelle relative alla fondazione del Milan, al suo rilancio grandioso negli anni Cinquanta, ai primi allori europei, conquistati quando io ero troppo piccolo per assistervi. Tutto ciò è confluito nelle pagine che seguono, nient’affatto asettiche e imparziali, semmai impregnate di un sentimento profondo. È un libro di parte, scritto da un milanista per i milanisti, anche se credo che possa essere letto con qualche interesse da generici appassionati di sport.

    La parte più difficile, come può immaginare chiunque professi una fede calcistica, è consistita nello scegliere chi escludere dalla rassegna delle leggende. Trenta ritratti sono maledettamente pochi. Tanto più che, dal mio punto di vista, era impensabile tenere fuori gli allenatori. In una galleria di mitiche figure rossonere non potevano mancare Nereo Rocco e Arrigo Sacchi, non solo per le grandi vittorie ottenute, ma anche e soprattutto per le loro spiccate personalità, inimitabili. E poi c’erano due campioni straordinari – Nils Liedholm e Carlo Ancelotti – dei quali bisognava comunque parlare in quanto calciatori. Si poteva forse fermarsi a metà e non considerare le loro gesta in panchina? Sarebbe stato irragionevole. E che senso avrebbe avuto considerare solo due tra i grandi tecnici rossoneri ed ignorarne altri non meno vincenti?

    Solo che in questo modo la lista degli eroi da includere si allungava. E ancora più difficile diventava espungere nomi tanto amati dall’elenco dei campioni. Ho cercato di rimediare con i doppi ritratti, tre capitoli nei quali ho messo insieme coppie di giocatori che ritengo plausibile abbinare. Scelte soggettive, s’intende, delle quali mi assumo l’intera responsabilità. Ciò nonostante le assenze ci sono, alcune molto dolorose perché si tratta di campioni che ho ammirato dal vivo e osannato sugli spalti. Non sto nemmeno a fare esempi: del resto ciascun milanista avrà motivi validi per rimproverarmi uno o più nomi depennati.

    Altre due rapide precisazioni prima di cominciare. Il lettore si accorgerà che, nel rievocare le imprese dei fuoriclasse rossoneri, ho privilegiato in genere gli eventi sportivi in quanto tali rispetto al contorno di polemiche, aneddoti, pettegolezzi (detesto la parola gossip). Per me il football è soprattutto quanto avviene sul campo. Adoro il calcio giocato, anche non giocato benissimo, purché la contesa sia viva, mentre il calcio parlato mi annoia e a volte decisamente m’infastidisce. Non amo affatto i giocatori che si comportano come le stelle dei social network. Io li preferisco taciturni e riservati, dediti alla causa della maglia che indossano, anche se capisco che oggi gli stimoli esterni risultano a volte irresistibili per ragazzi molto giovani, tanto più che i mass media sono sempre alla ricerca del personaggio bizzarro o maledetto da mettere in vetrina.

    Un altro punto da precisare. Nel libro si parla in prevalenza delle vittorie ottenute dal Milan, ma non mancano le sconfitte, perché anch’esse appartengono alla storia e vanno vissute con la massima serenità possibile. Non sono tra coloro per i quali il 25 maggio 2005 a Istanbul «non è avvenuto nulla». Al contrario, quella partita stregata tengo a ricordarla, perché è stata una delle finali europee giocate meglio dal mio buon vecchio Diavolo, nonostante l’esito infausto. Quando si accanisce la sorte avversa, l’uomo non può nulla, ma resto convinto che, andando oltre la rabbia e il dispiacere del momento (chi era allo stadio come me sa di che cosa parlo), si possa guardare alla serata turca con la consapevolezza di esserne usciti a testa alta, dopo aver dominato per quasi tutto l’incontro.

    Adesso però bando ai cattivi ricordi. C’è ben altro, tanto altro, da riportare alla memoria nelle pagine che seguono.

    Herbert Kilpin

    Il pioniere venuto da Nottingham

    Finalmente in campo per una bella partita a pallone, come nella natia Inghilterra. Ma il tecnico tessile Herbert Kilpin, immigrato a Torino nel 1891 per ragioni di lavoro, capì immediatamente che gli italiani interpretavano il football un po’ a modo loro:

    Mi avvidi presto di due cose assai curiose: prima di tutto non c’era l’ombra dell’arbitro; in secondo luogo mi accorsi che, a mano mano che la partita s’inoltrava, la squadra italiana avversaria andava sempre più ingrossandosi. Ogni tanto uno del pubblico, entusiasmato, entrava in giuoco.

    Insomma, bisognava mettere un po’ in riga quei neofiti pasticcioni, primi praticanti nel nostro Paese dello sport di squadra istituzionalizzato a Londra nel 1863.

    A farlo fu appunto Kilpin, insieme all’agente di commercio Edoardo Bosio e agli altri fondatori del primo club italiano, l’Internazionale di Torino. A loro si deve, come scrivono Fabrizio Turco e Vincenzo Savasta nel prezioso libro Il calcio dimenticato, «una rivoluzione copernicana» nel modo d’intendere il football, secondo le regole e i moduli agonistici ormai consolidati nel Regno Unito.

    A noi però Kilpin interessa per un’altra ragione. Quando si arrivò a disputare i primi campionati italiani di football, la sua Internazionale fu sconfitta in finale due volte dal Genoa, nel 1898 e nel 1899. E il baffuto inglese, dopo il secondo insuccesso, fece una solenne promessa agli avversari: «Fonderò a Milano una squadra che vi batterà». Nel frattempo infatti si era trasferito nella metropoli lombarda, dove non vedeva l’ora d’impiantare lo sport per cui andava pazzo. Un sogno che si realizzò il 13 dicembre 1899 presso l’Hotel du Nord et des Anglais (l’attuale Principe di Savoia), in quella che oggi è piazza della Repubblica. Per la verità la data è rimasta a lungo incerta: in un primo tempo si parlava del 16 dicembre, ma una verifica sulla «Gazzetta dello Sport» dell’epoca porta a concludere che fosse proprio il 13. Allora venne fondato il Milan Foot-Ball and Cricket Club, destinato a diventare una delle squadre più vincenti a livello mondiale.

    Il primo presidente è Alfred Ormonde Edwards, stimato ingegnere, viceconsole della Gran Bretagna a Milano. Tra i dirigenti troviamo Edward Nathan Berra, nato a Londra da una famiglia ebrea di fede politica mazziniana e nipote del famoso sindaco di Roma Ernesto Nathan. Ma soprattutto quel giorno partecipa alla fondazione il diciottenne Piero Pirelli (figlio di Giovan Battista, fondatore dell’omonima azienda), futuro presidente del club e costruttore dello stadio di San Siro.

    Comunque la figura carismatica, il trascinatore inarrestabile, l’autentico padre del Milan è Kilpin. Lui fungerà nel contempo da allenatore e giocatore, lui sceglie la simbologia destinata a galvanizzare milioni di tifosi. «Saremo una squadra di diavoli, i nostri colori saranno rosso come il fuoco e nero come la paura che incuteremo agli avversari», è la frase leggendaria che gli viene attribuita.

    Nato a Nottingham il 24 gennaio 1870, figlio di un macellaio (curiosamente come Nereo Rocco), già da piccolo Kilpin si era innamorato perdutamente del football e a tredici anni aveva cominciato a giocare in un club amatoriale della sua città intitolato a Giuseppe Garibaldi, eroe molto popolare in Inghilterra. Evidentemente nel suo destino c’era l’Italia. E con il Milan, dopo l’esperienza torinese, ha finalmente in mano una squadra da plasmare secondo le sue idee. Apprezza birra e sigarette: si dice addirittura che ogni tanto durante le partite attinga a una fiaschetta di whisky nascosta dietro il palo di una porta. Tuttavia nel corso della stagione agonistica osserva una dieta rigorosa e mantiene ritmi di vita regolari. Severo nei metodi di allenamento, pretende dai giocatori il massimo impegno. Ovviamente è il primo a dare l’anima con straordinaria grinta, nel ruolo di mediano o terzino, incurante delle botte. È tanto preso dal football che il giorno stesso del suo matrimonio lascia sola la sposa per andare a giocare una partita e la sera torna da lei con il naso rotto. Per il suo piglio autoritario viene soprannominato il Lord.

    I risultati si vedono presto, ma non immediatamente. Iscrittosi il 15 gennaio 1900 alla Federazione italiana del football (Fif), il Milan fissa la sua sede presso la Fiaschetteria toscana di via Berchet e adotta come campo di gioco il Trotter di piazza Doria, dove adesso sorge la Stazione centrale. Tutto è pronto per l’esordio in campionato, che vede però i rossoneri sconfitti in semifinale dalla Torinese, il nuovo club di Bosio. L’ex compagno di squadra di Kilpin, quel 15 aprile, segna tutte le reti di un pesante 3-0.

    È una brutta botta, ma ci vuol altro per abbattere il Lord di Nottingham e i suoi ragazzi. Il riscatto arriva il 27 maggio 1900, quando il Milan affronta la Juventus e la sconfigge 2-0, aggiudicandosi la Medaglia del re intitolata a Umberto I, il sovrano poi ucciso a Monza due mesi dopo dall’anarchico Gaetano Bresci. Nessuno può immaginarlo, ma quel match è l’inizio di un duello infinito, che oltre un secolo dopo giungerà al culmine con la finale europea tutta italiana giocata a Manchester, non lontano dalla città natale di Kilpin. A decretare la prima vittoria del Milan sulla Juventus sono i gol di Giannino Camperio e David Allison. Quest’ultimo, attaccante di talento, riveste anche il ruolo di capitano rossonero.

    L’anno dopo invece è Kilpin ad assumere l’incarico di capitano. E il Milan diventa inarrestabile sotto la sua guida: benché giochi a centrocampo, svetta anche come marcatore. Si comincia in marzo con il bis della Medaglia del re conquistata nella stagione precedente. Battuta la Juventus 3-0, il Genoa rifiuta la ripetizione della finale dopo un pareggio 1-1. Ma la competizione più importante resta il campionato. Si parte con una vittoria sulla Mediolanum, altra compagine milanese, poi è Kilpin che segna la rete decisiva del successo in semifinale a Torino, sul campo della Juventus, il 28 aprile 1901. Gli avversari vanno in vantaggio due volte, ma vengono sempre raggiunti, fino al gol del Lord rossonero che fissa il risultato sul 3-2. Ma ora bisogna andare a giocarsi tutto nella tana del lupo, o meglio nel nido del Grifone, insomma contro quel Genoa che si è aggiudicato tutti e tre i precedenti tornei ufficiali. Kilpin non ha paura, anche se i suoi sono sfavoriti. Freme dalla voglia di mantenere la promessa di due anni prima. Ed è appunto il battagliero atleta britannico, sul campo genovese di Ponte Carrega, a siglare la seconda rete di una netta vittoria per 3-0 che il 5 maggio 1901 regala al Milan il primo scudetto (ma allora non si chiamava così) della sua storia. Kilpin ha rotto il monopolio dei rivali storici genoani e la sua squadra appare la potenza emergente del football italiano.

    Una conferma sonante arriva dalla successiva Medaglia del re, che i rossoneri si aggiudicano definitivamente vincendola per la terza volta. Kilpin realizza durante il torneo cinque reti, tre delle quali nella finale contro la Torinese allenata da Bosio, che viene travolta 7-0 il 23 febbraio 1902. Clamorosa anche la disfatta inflitta al Genoa in semifinale per 4-1. Il Milan ha ormai acquisito una gran fiducia nei suoi mezzi, forse troppa. Accetta infatti di disputare in trasferta la partita decisiva per il successivo campionato, sempre a Ponte Carrega. Ma questa volta vince il Genoa 2-0.

    Per i ragazzi di Kilpin è una brusca battuta d’arresto. E le stagioni seguenti non sono felici. Bisogna aspettare il 1905 per una significativa rivincita. Eliminato in campionato dai cugini dell’Unione sportiva milanese (nata nel 1902) con un rocambolesco 7-6, il Milan vince però il torneo denominato Palla Dapples, sconfiggendo gli eterni contendenti del Genoa.

    È il viatico per il ciclo trionfale delle due successive annate, con Kilpin, non più giovanissimo, impegnato a contrastare gli attaccanti in posizione arretrata. Nello spareggio a Torino con la Juventus del 29 aprile 1906, con il campionato in palio, la difesa rossonera mantiene la porta inviolata: 0-0. La Federazione decide che la partita si ripeta a Milano e i piemontesi danno forfait: è il secondo trionfo tricolore per Kilpin e i suoi diavoli. In precedenza è arrivata anche la Palla Dapples, vinta sconfiggendo in finale proprio la Juventus per 3-2. Il doppio successo si ripete nel 1907, anno davvero memorabile. Succede tutto in aprile. Il giorno 7 il Milan va a Genova e batte l’Andrea Doria 2-0, conquistando il terzo campionato con un punto di vantaggio sul Torino nel girone finale. Il 21 e il 28 aprile affronta lo stesso Torino in una doppia finale per la Palla Dapples. Il primo match finisce con una vittoria per 2-0, il secondo in pari, 3-3. Kilpin, che ha ormai trentasette anni, segna un gol in entrambe le gare. È il canto del cigno del campione inglese, il sigillo di una leggenda.

    L’anno dopo la Federazione ha la malaugurata idea di escludere dal campionato le squadre che schierano giocatori stranieri. E il Milan, estromesso dal torneo, è scosso da dissidi societari che portano alla scissione da cui nasce l’Internazionale. Kilpin, deluso da questi eventi, decide di lasciare la squadra, ma prima si prende la soddisfazione di battere ancora il Genoa, nella finale di Palla Dapples del 26 aprile 1908, per 3-0. Con l’addio del Lord svanisce l’incantesimo di un Milan che dovrà attendere oltre quarant’anni per imporsi nuovamente al vertice nazionale.

    Il fondatore-capitano-allenatore dei rossoneri muore giovane di malattia alcuni anni dopo, il 22 ottobre 1916. E solo in anni relativamente recenti la memoria del pioniere inglese è stata rinverdita e valorizzata per merito di Luigi La Rocca, grande tifoso e storico del Milan, che ne ha recuperato le spoglie. Ora l’uomo che portò il calcio a Milano (e, assieme a Bosio, in Italia) riposa nel Cimitero monumentale della metropoli lombarda. Il suo nome è iscritto nel famedio tra i personaggi più illustri e gli è stata intitolata una rotonda vicino alla sede del club da lui fondato. Grazie Herbert, non ti saremo mai abbastanza riconoscenti.

    Gunnar Nordahl

    Il Pompiere che incendiava gli stadi

    Ebbe modo di pentirsi, quel pomeriggio del 5 febbraio 1950, Gianni Agnelli. Poco più di un anno prima, dopo che la sua Juventus aveva soffiato al Milan con un tiro mancino l’attaccante danese Johannes Pløger, l’Avvocato aveva voluto fare sfoggio di signorilità verso la meno influente società rossonera, facilitandola nell’ingaggio di un centravanti svedese che era nel mirino della Vecchia Signora, tale Gunnar Nordahl. Solo che adesso quel poderoso attaccante, 92 chili di muscoli per un metro e ottanta di altezza, stava facendo impazzire i difensori della Juve al Comunale di Torino. Era la prima partita ripresa in televisione nel nostro Paese, in forma meramente sperimentale. E i bianconeri avevano segnato in apertura con John Hansen. Solo che poi era cominciato lo show di Nordahl. Una girandola incredibile.

    Lo svedese ottiene in fretta il pareggio su azione di calcio d’angolo. Quindi in tre minuti, dal ventitreesimo al ventiseiesimo, manda al tappeto la Juve: prima gli assist vincenti per i due connazionali, Gunnar Gren e Nils Liedholm, che portano il risultato sul 3-1, poi la quarta rete, una marcatura personale dello stesso Nordahl. Sul finire del primo tempo lo juventino Carlo Parola, dopo un contrasto rude, assesta un vistoso calcione al centravanti del Milan. E l’arbitro lo fa accomodare negli spogliatoi. Nella ripresa la Signora, in inferiorità numerica, diventa una preda facile. La punisce di nuovo Nordahl, seguono i gol di Renzo Burini ed

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