Il romanzo del grande Bologna
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Un racconto di passione sportiva che si legge come un romanzo
Sono passati 109 anni da quando – era il 3 ottobre 1909 – un gruppo di studenti stranieri scrisse nero su bianco l'atto fondativo del Bologna Football Club. La birreria in cui formarono il sodalizio non esiste più, ma in compenso a Bologna si sta sviluppando una sensibilità nuova nei confronti della storia del club, grazie soprattutto allo slancio imprenditoriale del nuovo proprietario canadese, Joey Saputo, che nei suoi primi quattro anni di presidenza ha investito oltre 100 milioni di euro.
Per il Bologna FC, il traguardo dei 110 anni sarà decisivo: è qui che si getteranno le basi per la ristrutturazione del Dall'Ara, uno stadio con più di novant'anni di storia, destinato a ospitare ancora le nuove generazioni di tifosi e di campioni. Questo libro, nell'imminenza dei prossimi cambiamenti, ferma il tempo e fissa i momenti fondamentali della storia del club, raccontando la storia senza soluzione di continuità, come una biografia, immersa nel contesto della città in cui il Bologna è nato e si è sviluppato.
Luca Baccolini
è giornalista e conduttore radiofonico di programmi sportivi e culturali. Dal 2010 collabora con la redazione bolognese di «la Repubblica». Con la Newton Compton ha pubblicato 1001 storie e curiosità sul grande Bologna che dovresti conoscere, Il Bologna dalla A alla Z, Storie segrete della storia di Bologna e Il romanzo del grande Bologna.
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Anteprima del libro
Il romanzo del grande Bologna - Luca Baccolini
596
Prima edizione ebook: ottobre 2018
© 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-2528-8
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma
Luca Baccolini
Il romanzo
del grande Bologna
Dal 1909 a oggi la storia di un mito
Newton Compton editori
Indice
Prefazione
prima del bologna football club
Una città nuova
Rombano i motori
Un problema di lingua e di identità
Primi ostacoli
Tempo di firme e di impegni solenni
Il vento della modernità
Una questione di principio
Le prime rivalità cittadine
Derby da bar
Un salto di categoria
I mesi delle rivolte
L’affare si fa serio
Un secondo, provvidenziale trasloco
La storia non chiede permesso
Spirito di gruppo
la nascita del mito
Dalle macerie
Nuovi inizi
Cambio di passo
«Scusi, per il bar…?»
In cerca di prestigio
Più forti del dolore
La stagione delle rivoluzioni
La notte di San Silvestro
Il garzone di bottega
Il vero volto del Bologna
Una strada senza ritorno
L’irresistibile ascesa
1926: la svolta
Lo scudetto contestato
L’era del Littoriale
Ventinove partite, ventinove gol
Un fulmine a ciel sereno
Il presidente eterno
Con gli occhi del mondo addosso
Attacco al potere
Il metodo ungherese
La nostalgia del campione
Nuovi idoli
il tempo del dolore
Il rumore della storia
L’ultima luce
In guerra
Verso l’abisso
La ricostruzione
Anni difficili
Le seduzioni del calciomercato
Gino e Gipo
Lascia o raddoppia?
Guai a rassegnarsi
E se fosse la volta buona?
grandi per l’ultima volta
L’uomo del destino
Laboratorio scudetto
Senza Renato
Le grandi purghe
Addio alle bandiere
le illusioni della modernità
Il coraggio di Mondino, le notti di Pesaola
Il tradimento
Il precipizio
Sottoterra
Ripicche e risalite
La squadra dei sogni
La legione straniera
Di nuovo nel baratro
Il cappotto
Un’apparizione
Un matrimonio difficile
Cadere e due volte risalire
Prefazione
Il Bologna come oggi lo conosciamo non è il frutto del caso, non è sopravvissuto per il susseguirsi di fortunate coincidenze, non festeggerà i suoi 110 anni di vita nel 2019 per intercessioni divine. Ma per quanta determinazione possano averci messo i suoi pionieri, chiusi nelle stanze fumose di una birreria del 1909, per quanto impegno abbia profuso in trent’anni di presidenza Renato Dall’Ara – il patron più longevo – per quanti chilometri abbiano macinato i suoi tifosi dalla prima trasferta organizzata negli anni Venti, l’esistenza di questo club è stata più volte messa a repentaglio da gestioni dissennate. Il confine tra bene pubblico e proprietà privata è sempre stato un territorio scosceso, parlando di una società di calcio. Nel caso del Bologna ancora di più, essendo parte della sua storia più gloriosa intrappolata negli anni del regime. Se questo volume ha un’ambizione, è quella di percorrere il doppio binario tra la grande storia e il calcio giocato privilegiando in questa dialettica il punto di vista dei proprietari, ovvero i custodi che il destino ha scelto, talvolta imposto, per allungare la vita del club. Se ne scopriranno di geniali precursori, di pavidi e di visionari, di folli e di sconsiderati, di sognatori e di filantropi. Perché il calcio ha sempre avuto bisogno di qualcuno sopra le righe per buttare il suo messaggio estetico oltre l’apparente irrazionalità di un gioco col pallone. Il calcio avrà sempre bisogno di qualche matto che dica più forte di tutti: «Andiamo a vincere!». Possibilmente spiegando come. A Bologna quei matti resistono dal 1909. E questa è la loro storia.
PRIMA DEL BOLOGNA
FOOTBALL CLUB
Le origini di una squadra,
in un boccale di birra
Una città nuova
Il 3 ottobre 1909 cadeva di domenica e la specifica non deve suonare puntigliosa, perché i grandi fatti della vita, perlomeno quelli nati dalla volontà e non dal caso, hanno tutti un giorno preciso in cui devono accadere. E anche quando non sembrano averlo, si dovrà riconoscere che un evento capitato di lunedì non sarebbe stato lo stesso il mercoledì o il sabato pomeriggio. Dunque si dirà che il Bologna Football Club nacque di domenica mattina al Circolo Turistico Bolognese di via Spaderie, non la più piccola strada del centro storico, ma nemmeno una via in cui si poteva transitare a gruppetti. Cercarla oggi è sforzo inutile. Due anni dopo quella domenica il comune approvò lo sventramento dell’intera zona, meglio nota come Mercato di Mezzo. Si decise di abbattere il palazzo Lambertini, l’adiacente torre Tantidenari (sede della Società telefonica), nonché interi isolati che sorgevano dall’incrocio di vicoli oggi visibili solo in qualche rarissima fotografia. Gli stradari dell’epoca ne riecheggiano il nome d’uso: via della Canepa, piazza Uccelli, via della Corda. Le attuali via Orefici e via Caprarie non erano allineate come oggi, ma lo divennero proprio dopo quei massicci interventi. Così, sul lato di quella via allargata che chiamiamo via Rizzoli, necessaria oggi per fotografare frontalmente le due Torri, vennero innalzati tre grandi edifici che soppiantarono tutto il reticolo originario. Bologna era presa allora da una frenesia bipolare: distruggere e ricostruire. Le mura che la circondavano, conferendo alla città la sua identità medioevale, furono le prime vittime di un Novecento famelico e ansioso di esprimersi. Ci fu chi si oppose a questa frenesia, come l’urbanista Alfonso Rubbiani o il vate Giosué Carducci, che il 12 settembre 1906, cinque mesi prima di morire, s’era visto recapitare direttamente a casa il premio Nobel. Ma il progresso, o presunto tale, non ammetteva lamentele. E gli accademici dovettero farsene una ragione. Nel 1909 Bologna era una città che tendeva più ai 200.000 abitanti che ai 150.000. Distruggere le mura, oltre che far lucrare i costruttori, quietava la domanda crescente di lavoro e preveniva pericolosi scontenti popolari. Il confine tra città e campagna avrebbe cominciato proprio in questo periodo a farsi un po’ più labile.
Rombano i motori
Tutto sembrava scomparire e rinascere, in questi anni veloci, che obbligavano a levare gli occhi al cielo per scrutare i prototipi degli aeromobili, e la fame atavica di potenza veniva risvegliata dai rombi delle prime auto da corsa. Se l’uomo era al centro di tutte le cose, alle estreme conseguenze dell’Illuminismo e del Positivismo, anche Bologna era al centro di tutto. O piaceva pensarla così. Di qua, comunque, passava la Coppa Florio sul nuovo circuito tra Borgo Panigale e San Giovanni in Persiceto, una delle piste più estese dell’epoca, che vide trionfare la Fiat di Felice Nazzaro in sole 4 ore, 25 minuti e 21 secondi; sempre qui, a due chilometri in linea d’aria dalla cinta muraria che fu, i Prati di Caprara destinati a pastorizia ed esercitazioni militari si attrezzavano per ospitare il primo aeroporto per velivoli dell’esercito (nessuno sospettava ancora che vi potesse sorgere anche il primo campo da calcio della storia cittadina). Più che sete di sport – un concetto dai contorni ancora un po’ vaghi – c’era sete di meraviglia, di cose stupefacenti, di fatti sensazionali da raccontare e ingigantire a piacimento. La piazza della Montagnola, usata nel Medioevo come anticamera delle pubbliche esecuzioni, si riempiva con le baracche del mercato e con la sua pittoresca fauna simbiotica: ermafroditi, donne barbute, giocolieri, macisti capaci di sollevare enormi pietre, fingendo sforzi titanici per nascondere il fatto che fossero concave all’interno; e poi domatori di animali esotici, serpenti a due teste, leoni spelacchiati, prestigiatori e sensitivi. Un giorno si vendette anche pregiata carne di squalo, se piaceva l’idea e se l’intelletto non indagava troppo sulle tipicità dell’itticoltura adriatica. Ci provò anche Buffalo Bill, a prendersi la sua quota di credulità popolare, tornando due volte sul luogo del delitto: la prima nel 1890, carico di cavalli, finti pellirossa e pop corn sgranocchiante, novità assoluta. La seconda nel 1906, inscenando la solita battaglia a salve tra cowboy e indiani. Ne portò ottocento, di uomini, e cinquecento, di quadrupedi sellati. Ma la caccia al bisonte e l’odio tra sudisti e nordisti non riuscivano più ad appagare il pubblico bolognese, disincantato quanto bastava per capire che l’epico scotennatore del West, in realtà, era un abile circense da esportazione. Un mese dopo l’ultima apparizione di Buffalo Bill, al secolo William Cody, l’8 maggio 1906 veniva fondato il più attrattivo Automobile Club Bologna, e benché in circolazione, a quella data, risultassero solo 66 vetture e 165 motocicli (un esemplare ogni 1300 abitanti), cominciarono a sorgere le prime polemiche sul traffico. Bologna, del resto, era nata coi portici, non con i boulevards. Tra le prime vittime del dibattito popolare, oltre ai motori a scoppio, ci furono le insospettabili biciclette, instrumentum diaboli per eccellenza per la Chiesa (che ne vietò per qualche tempo l’utilizzo ai propri dipendenti tonacati), stigmatizzato da Cesare Lombroso, che vedeva nel biciclo un incentivo a delinquere, grazie alla rapidità della fuga che concedeva. Nessuna significativa eccezione fu sollevata invece sul gioco del calcio, non mal visto, ma certo tollerato abbastanza per far muovere i primi passi ai suoi pionieri. «Qualche matto che insegue una palla», disse un tranviere, che forse, da lì a poco, si sarebbe unito ai primi curiosi a bordo campo.
Un problema di lingua e di identità
Nell’ottobre 1909 in Italia molte squadre esistevano già. La Juventus da dodici anni, il Genoa – la più anziana società italiana praticante il calcio ancora attiva – addirittura da sedici, con sei scudetti in bacheca. Molte altre realtà, invece, avevano ancora da essere: per veder nascere Fiorentina e Roma sarebbe stato necessario aspettare altri diciassette e diciotto anni. In questa prospettiva, il Bologna non rientra nella lista delle cinquanta squadre più antiche d’Italia. Fino al 1900 si contavano diciotto società fondate ufficialmente, di cui cinque ancora esistenti nel panorama professionistico (Genoa, Juventus, Ascoli, Milan e Messina). Arrivare primi in questa corsa, comunque, non garantiva longevità. Spesso, erano proprio i sodalizi sportivi nati sull’onda dell’entusiasmo a naufragare al primo ostacolo. Il calcio, del resto, era un fenomeno che non si reggeva nemmeno su certezze lessicali. Come definire questa nuova disciplina d’importazione inglese era una questione affiorata persino sulle pagine dei quotidiani. La «Gazzetta dello Sport» affrontò il tema sin dal 1907, due anni prima della pubblicazione del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, che avrebbe inaugurato la lunga stagione dell’autarchia linguistica. Da Football a Calcio, insomma, la rivoluzione si compì in contemporanea alla nascita del Bologna. Chi, all’epoca, cominciò a parlare di calcio dovette forse scontrarsi con orecchie ostili, esattamente quello che capiterebbe a chi, in un discorso al bar, oggi dicesse d’aver visto una bella partita di football. Farebbe lo stesso effetto di un nostalgico futurista che ordinasse una polibibita al posto di un cocktail. Quando i primi ventiquattro aderenti al Bologna Football Club stilarono il proprio regolamento interno, il calcio non era un fenomeno inedito in città. E a rivendicare il diritto di primogenitura di una realtà calcistica erano quelle società di ginnastica che tra l’ultimo quarto di Ottocento e gli albori di Novecento avevano dato vita anche a sezioni dedicate al football. Virtus e Sempre Avanti, tra il 1909 e il 1910, furono le due primissime rivali del Bologna dentro le mura. Furono derby a tutti gli effetti, necessari per stabilire la supremazia cittadina. Soccombere avrebbe potuto significare la fine prematura del progetto per la diaspora o il disinteresse degli affiliati. Ma non andò così.
Primi ostacoli
I visionari che fondarono il Bologna avevano giocato a calcio per molto meno tempo di un dodicenne di oggi e a stento conoscevano il significato della parola allenamento
. Ma l’ostacolo più alto da superare, al di là della vita privata che richiamava all’ordine ogni affiliato, era un altro. Ed era il problema più temuto: trovare il pallone e difenderlo a ogni costo. Lungi dal palesarsi l’epoca del Modello T
– il pallone ufficiale dei mondiali uruguaiani del 1930 – all’alba del Novecento sfera
faceva rima con chimera
. Possederne un esemplare equivaleva ad assommare i ruoli di arbitro, presidente, allenatore e infine decisore ultimo del gioco. Questo perché era quasi impossibile che una squadra di calcio, ai suoi albori, avesse in dotazione più di un pallone alla volta. E così anche i primi firmatari del sodalizio rossoblù non poterono far altro che preservare la loro palla di cuoio cucita, trattandola come il Graal. Per averla, si rivolsero direttamente ai bottegai di Milano, una delle poche città italiane a trattare il prodotto. Carissimo, s’intende, perché importato dall’Inghilterra.
Risolto in due settimane, e con una colletta, il problema sferico, si pose subito quello degli indumenti. Una squadra, per essere tale, doveva proporre una divisa e dei colori sociali credibili. Ma siccome le spese per le riunioni al Circolo, il pallone, la cancelleria e l’affitto del campo avevano già pericolosamente cominciato ad alzarsi, il ventiduenne Arrigo Gradi tolse tutti dall’imbarazzo ripescando due vecchie casacche conservate dai tempi del collegio. Si trattava di un paio di camicioni con bottoni, a scacchi rossi e blu. Venivano dall’istituto Schönberg di Rossbach, cantone di San Gallo in cui già si praticava il gioco del football. Possedere due divise significava aver risparmiato il venti per cento del lavoro e della spesa. Non fu difficile fabbricare le altre otto, lasciando al portiere libertà di scelta sui colori, poiché fossero scuri e coerenti con la divisa dei compagni. Per i calzoncini ci si arrangiò con una spilla da balia. Bianchi o neri che fossero, bastava che non lasciassero scoperto il ginocchio. Gradi, che in rossoblù avrebbe giocato fino al 1915 con i galloni di primo capitano, ebbe gioco facile a imporre i ricordi del suo collegio. Per i firmatari del Circolo era importante partire senza complicazioni cromatiche. E se mai si fosse posta la questione del rosso e del blu, nessuno avrebbe sfigurato a spiegare le origini extraterritoriali di quella maglia. Quei giovani avevano fretta. E in questa frenesia incarnavano bene lo spirito di un tempo che stava mettendo in discussione il tradizionale esercizio fisico, la noiosa, ripetitiva e attempata ginnastica
, a favore della gagliarda imprevedibilità della corsa libera dietro il pallone. A patto, s’intenda, di possederne uno.
Tempo di firme e di impegni solenni
Chi furono i veri animatori della lista dei ventiquattro? A stento il presente ne conserva traccia. Molti di quei nomi andrebbero invece scolpiti col rispetto che si deve agli inventori, agli esploratori e ai pionieri d’ogni campo. In attesa che la storia risarcisca quel debito, valga l’elenco fornito dalla solerte cronaca de «il Resto del Carlino» del 4 ottobre 1909: Louis Rauch, presidente; Guido Della Valle, vice presidente; Enrico Penaglia, segretario; Sergio Lampronti, cassiere; Leone Vincenzi ed Emilio Arnstein, consiglieri; Pietro Bagaglia, addetto ai campi da gioco; Arrigo Gradi, capitano; i signori Centofanti, Tampellini e Zecchi delegati rappresentanti del Circolo Turistico Bolognese presso il quale s’è depositato l’atto fondativo. La scelta di quel circolo non fu casuale. Data per scontata la necessità di individuare un luogo da affittare per indire l’assemblea costituente, si decise di coinvolgere il club con più aderenze al mondo dello sport. Non che in quegli anni mancassero polisportive e circoli ginnici. Ma per sua natura il neonato Bologna Football Club voleva essere sganciato dalle sorti di altre società affiliate. Il Circolo Turistico, espressione di una società che nel turismo (e nel cicloturismo!) trovava identità e sfogo al proprio tempo libero, si configurava come terreno ideale per far debuttare una squadra di calcio. Anche il cavalier Carlo Sandoni, rappresentante della ngi (Navigazione generale italiana) nonché presidente del Circolo, benedisse l’iniziativa e volle presiedere ai lavori mattutini, al primo piano della Birraria Ronzani della defunta via Spadarie. Che a sua volta il Circolo Turistico non avesse una sede propria, ma fosse domiciliato in una birreria, non deve stupire. Anche il Bologna Football Club, fino ai primi anni Venti, avrebbe trovato dimora in alcuni dei più frequentati bar del centro o avrebbe addirittura affittato porzioni di locanda come spogliatoi di fortuna. La dimensione sociale del luogo pubblico trovava allora la sua più felice applicazione. Ed era cura degli inquilini assicurarsi di lasciare tutto in ordine, una volta terminati i lavori. In cambio, l’oste si garantiva consumazioni e nuova clientela per l’avvenire.
Più che di uno stadio, il Bologna Football Club aveva bisogno di giocatori. Il fatto di essersi costituito come società non presupponeva la disponibilità immediata di un parco atleti su cui contare. Con un’affermazione che oggi scandalizzerebbe sovranisti, autarchici ed esterofobi, si può dire che il Bologna nacque e mosse i primi passi grazie agli stranieri. Senza la loro energia, senza quel pragmatismo e quello zelo che rendeva solenni anche i gesti più semplici, non si sarebbero costruiti i binari sui quali poi il club avrebbe transitato con le proprie forze.
Straniero, ovvero svizzero, era il ventinovenne Louis Rauch, professione dentista, primo e più giovane presidente della società. Era arrivato a Bologna su invito del professor Beretta, il pioniere italiano della Stomatologia. I due si erano conosciuti in Svizzera, il sodalizio crebbe e Rauch decise di trasferirsi in Italia. Non ci fu nemmeno bisogno di adattarsi: un mese e mezzo dopo essere diventato presidente del Bologna, il dentista svizzero divenne anche padre di Isotta, chiaro segnale del destino che questa città gli aveva mandato. Spagnolo era invece Antonio Bernabéu Yeste, rampollo di una famiglia secolare, perfettamente conscia del fatto che spedire l’erede a Bologna significava una cosa sola: farlo educare al Real Collegio di Spagna, il luogo eletto dal 1364 per accogliere selezionati studenti spagnoli di rango. A differenza del fratello Santiago, che da futuro líder máximo del Real Madrid avrebbe conteggiato 71 trofei in 35 anni di regno, Antonio non aveva mire presidenziali. Si limitò, diciannovenne, a figurare tra i firmatari di quel 3 ottobre 1909, giocando poi tredici partite ufficiali con otto reti. Il calcio, per Bernabéu, fu una cura per alleviare la perdita della madre Antonia, morta due mesi prima del suo arrivo a Bologna. E grazie al calcio s’integrò nel tessuto cittadino anche Emilio Arnstein, il più vivace animatore della compagnia che fondò il club, di cui fu un generoso factotum: fondatore, presidente, segretario, calciatore e all’occorrenza anche arbitro. Era nato nel 1886 a Wotitz, nella Boemia centrale, dunque cittadino dell’Impero austro-ungarico. Da Trieste, dove aveva fondato con qualche amico inglese la squadra delle Black Stars, era arrivato in città nel 1908. E senza far passare neanche un anno nella sua nuova residenza diede vita alla nuova società, seguendo il principio del se non trovo una squadra già pronta per giocare, ne fondo una nuova
. Due anni dopo, nell’aprile 1911, Arnstein riuscì anche a far incontrare le due società della sua vita, nella prima amichevole all’estero del Bologna. Si giocava a Trieste. E ancora doveva passare molto tempo per poterla chiamare Italia.
Il vento della modernità
Un organizzatore di un doposcuola riderebbe dell’ingenuità con cui a inizio Novecento s’allestivano i preparativi d’una partita. Ai Prati di Caprara, poco fuori porta San Felice, dove ancor oggi s’intravede l’ex area militare, le sfide degli amatori rossoblù potevano somigliare alle sortite improvvisate nei parchi pubblici. Non c’erano porte di legno, né aree di rigore. I pali si facevano con le giubbe lasciate a terra, come ai giardini. Solo dopo qualche settimana di casi da moviola sul dentro-fuori-palo-rete si decise di piantare due travi sormontate da una corda, che garantivano almeno una sommaria precisione sulle traiettorie. L’incombenza di rimuovere questi pali di fortuna, lasciando libero il campo al Genio Militare toccava in genere agli sconfitti. Chi assisteva a questi allenamenti carbonari lo faceva rigorosamente in piedi, attratto più dalla bizzarria degli uomini in calzoni a tre quarti che da uno spettacolo ancora difficile da decifrare. Non va dimenticato che fino all’Ottocento la palla era stata giocata quasi esclusivamente con le mani. Il calcio fu il primo sport a vietarne categoricamente l’utilizzo. Per questo non deve stupire la meraviglia di chi, all’epoca, trovava curioso il goffo incespicare degli atleti su prati quasi sempre sconnessi, con divise non tagliate su misura e atteggiamenti agonistici quantomeno bislacchi rispetto agli sport che non prevedevano contatti fisici. Ma ormai il cambio epocale si stava consumando. La vittoria politica del calcio si concretizzò quando da sport di nicchia si trasformò in fenomeno sociale, espressione di una mentalità cosmopolita, aperta al progresso.
Bologna, indubbiamente, era tutto questo. E lo dimostrò anche sull’altro grande fronte dell’intrattenimento intellettuale: il teatro musicale. Se il calcio fu un’invenzione inglese d’importazione, il melodramma tedesco passò in Italia grazie a Bologna. I presupposti culturali grazie ai quali fu possibile allestire per la prima volta in confini nazionali il Lohengrin di Richard Wagner non furono tanto diversi dall’approccio dei pionieri del pallone cittadino: una vorace e implacabile curiosità. Fosse vissuto abbastanza per vedere i primi calci, anche Camillo Casarini – il sindaco che impose
la prima opera wagneriana a Bologna nel 1871, aprendo così un caso politico di pericolosa esterofilia nell’Italia appena riunificata – avrebbe senz’altro incoraggiato la nascita d’uno stadio. Non fece in tempo a goderne, ma qualche collega ci avrebbe pensato al posto suo. Il Bologna, del resto, era ancora una squadra senza fissa dimora e dalla sua fondazione all’inaugurazione dello stadio in cui gioca tuttora sarebbero trascorsi quasi vent’anni.
Una questione di principio
L’anno zero, il 1909, era passato. Il 1910 imponeva subito di fare le cose sul serio. Convocato un nuovo direttivo, il Bologna si diede come presidente Pio Borghesani. Il predecessore Louis Rauch restava nei ranghi come trainer, per quanto la figura dell’allenatore fosse ancora circonfusa di alea. Il passo indietro di Rauch aveva motivazioni pratiche: il sodalizio con il luminare Beretta gli aveva portato clienti oltre ogni previsione, così che la scelta di aprire uno studio dentistico di proprietà si rivelò necessaria. E azzeccata, perché dopo la prima clinica ne sarebbero seguite altre due. Un cambio di presidente oggi farebbe tremare i menabò dei giornali. All’epoca ci si poteva ancora scambiare i ruoli all’interno dell’organigramma senza impressionare nessuno. Ma non fu un passaggio indolore. Il dentista svizzero si sentiva un fedele servitore della sua squadra, espressione della città che lo aveva adottato, reso padre e forse anche ricco. Il Bologna Football Club doveva restare un’emanazione pura di valori sportivi. E di conseguenza ammettere solo chi, quei valori, si sentisse di rappresentare al massimo grado. Fu quindi per lui un duro colpo sapere dal compagno di squadra Guido Nanni, nato a Borgo Panigale ma di origine svizzera, della volontà di estendere l’affiliazione al club anche ai rivali della Sempre Avanti, la polisportiva nata nel 1901 che aveva da poco creato il proprio