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Ed è il pareggio: storia insolita dei mondiali di calcio
Ed è il pareggio: storia insolita dei mondiali di calcio
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E-book420 pagine6 ore

Ed è il pareggio: storia insolita dei mondiali di calcio

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Info su questo ebook


Dalle telecronache di Carosio, alla notte dell’Azteca; dall’urlo di Tardelli al gol di Grosso a Dortmund: i campionati mondiali di calcio hanno da sempre segnato le nostre esistenze, fermando la nazione che mai come in queste occasioni si è unita. E non è solo storia italiana: la rinascita tedesca dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, la rivincita Argentina sull’Inghilterra, la vittoria del Sudafrica affrancato dall’apartheid… Questo volume racconta la storia dei campionati del mondo non solo attraverso partite e statistiche, ma narrando anzitutto i personaggi, gli episodi e le emozioni che hanno reso questo l’evento sportivo forse più famoso del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2022
ISBN9788833465005
Ed è il pareggio: storia insolita dei mondiali di calcio

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    Anteprima del libro

    Ed è il pareggio - Cesare Gigli

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    Ed è il pareggio. Storia insolita dei mondiali di calcio

    di Cesare Gigli

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 978-88-3346-500-5

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2022©

    Saggistica – Sport

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Cesare Gigli

    ED È IL PAREGGIO

    Storia insolita dei mondiali di calcio

    AliRibelli

    Sommario

    Prefazione

    Omaggio a Jules

    1930 in Uruguay: URUGUAY

    1934 in Italia: ITALIA

    1938 in Francia: ITALIA

    1950 in Brasile: URUGUAY

    1954 in Svizzera: GERMANIA OVEST

    1958 in Svezia: BRASILE

    1962 in Cile: BRASILE

    1966 in Inghilterra: INGHILTERRA

    1970 in Messico: BRASILE

    1974 in Germania Ovest: GERMANIA OVEST

    1978 in Argentina: ARGENTINA

    1982 in Spagna: ITALIA

    1986 in Messico: ARGENTINA

    1990 in Italia: GERMANIA OVEST

    1994 in USA: BRASILE

    1998 in Francia: FRANCIA

    2002 in Corea del Sud e Giappone: BRASILE

    2006 in Germania: ITALIA

    2010 in Sudafrica: SPAGNA

    2014 in Brasile: GERMANIA

    2018 In Russia: FRANCIA

    Statistiche e Curiosità

    Ringraziamenti

    A Roberto,

    perché senza di lui questo libro non sarebbe esistito

    Prefazione

    La più clamorosa gaffe detta in una telecronaca non è stata sentita da nessuno.

    Riguarda proprio il titolo dell’opera che state cominciando a sfogliare (o terminando, dipende dalle vostre abitudini di lettura), e fu detta da Nando Martellini, forse il migliore tra quelli che ci hanno raccontato le imprese calcistiche azzurre e non solo, quando Paolo Rossi segnò il 3-2 di Italia Brasile, il 5 maggio 1982. Poiché il risultato di 2-2 era per l’Italia equivalente a una sconfitta, il buon Nando parlò di pareggio. Ma, e chiunque abbia un ricordo anche se vago di quel giorno lo può testimoniare, nessuno ci fece caso, perché nessuno ascoltò la voce di Martellini. Esultavamo, ci abbracciavamo, ed eravamo convinti di assistere a qualcosa di storico.

    Ecco, il racconto dei campionati del mondo di calcio è proprio questo: qualcosa di storico.

    Non solo per l’importanza sportiva dell’evento, che oltretutto nel mondo sempre più dominato dal dio denaro del calcio sta inevitabilmente diminuendo; non solo perché è rimasta una delle poche occasioni dove si può assistere a un evento tutti assieme senza nessuna divisione, ma proprio perché i mondiali di calcio hanno proprio fatto la Storia, quella con la esse maiuscola.

    Come definire altrimenti la guerra scoppiata tra El Salvador e Honduras nel 1969 grazie a una partita di calcio, o la rivincita Argentina sull’Inghilterra con Maradona che prima bara e poi fa il più bel gol del secolo?

    E di episodi del genere, nelle ventuno edizioni dei mondiali fin qui disputate ce ne sono tante. Anche la partita Italia Brasile, dalla cui telecronaca è preso il titolo di questo volume, è storia: se pensiamo al decennio che ha preceduto quei mondiali, e agli anni ’80 con il loro edonismo, vediamo che quei mondiali sono stati uno spartiacque anche per noi Italiani.

    Attraverso i ventuno mondiali, e ventitré capitoli, attraverseremo quasi un secolo di calcio e non solo, preparandoci per l’evento di novembre in Qatar.

    Ma, soprattutto, illudendoci di assistere ancora a qualcosa di poetico, con storie che ci faranno sognare come quella di Rahn nel 1954, piangere come quella di Garrincha o arrabbiarci come nel caso della dittatura militare che organizzò i mondiali Argentini del 1978. Anche se adesso si gioca in una nazione la cui nazionale non ha mai visto ancora un mondiale di calcio; anche se si gioca sotto Natale interrompendo i campionati di tutto il mondo. Anche, infine, se l’indigestione calcistica cui ci hanno obbligato i media hanno reso questo evento non più eccezionale.

    Un ultimo avvertimento. Troverete i racconti delle ultime edizioni meno affascinanti dei primi. Non è colpa mia. Io ce l’ho messa tutta, ma oggettivamente sono stati mondiali molto meno emotivi, e questo si sente. Scusatemi, in ogni caso, e spero che comunque vi divertiate a leggere le avventure di questi uomini, dall’uruguaiano Castro, privo di una mano, al curioso primato del croato Mandzukic, capace di segnare in una stessa finale per entrambe le squadre.

    Buona lettura.

    Omaggio a Jules

    Anche se Parigi non è forse più così centrale in Europa come nel XVIII secolo, quando il detto più comune era Se Parigi starnutisce, l’Europa prende il raffreddore, rimane pur sempre una città che ha fatto la Storia, quella vera, importante.

    Vale la pena, almeno una volta nella vita, andarci e passeggiare sul lungosenna, assieme alle visite obbligate al Louvre ed alla Tour Eiffel.

    Partendo proprio da qui, ed andando verso sud per circa otto chilometri, ci si imbatte in una di quelle piccole cittadine che circondano la capitale francese, Banlieue le chiamano, che al contrario di ciò che evocano oggi (sono purtroppo sinonimo di periferie degradate e covi di fanatici religiosi), sono invece placidi paesini di provincia. Il nome di tale cittadina è Bagneux.

    Il cimitero della cittadina è più grande di ciò che ci si aspetterebbe poiché, gestito dal comune di Parigi, è detto anche cimitero degli Ebrei, per il gran numero di cittadini parigini di quella religione sepolti là. Camminando rasente il muro orientale, vi imbatterete, dopo circa 200 metri di passeggiata tra gli alberi di Avenue du Fort, in una tomba non molto curata. È quella di Jules Rimet, presidente della federazione Internazionale delle Associazione di Football (la FIFA) per 33 anni, dal 1921 al 1954. Se, come noi, siete appassionati di calcio, quando passate di là lasciate un fiore ad omaggiare la persona che ha regalato al mondo le più belle pagine di questo sport.

    Rimet, nato nel 1873 in una piccola città della Franca Contea, Theuley, non proveniva da una famiglia ricca. Suo padre era un commerciante (meglio: un semplice bottegaio), che il giovane Jules aiutava, facendo il garzone nel tempo lasciato libero dalla scuola, dopo che ad 11 anni la famiglia si era trasferita a Parigi in cerca di un futuro migliore. È forse proprio per questa sua origine, e per le sue convinzioni politiche di stampo fortemente cristiano sociale, che Rimet ha sempre visto e pensato lo sport come un mezzo di crescita sociale della persona, e non solo come passatempo.

    In questa visione sociale dello sport avrebbe sempre avuto come avversario Pierre de Coubertin, il Barone creatore delle Olimpiadi moderne, che al contrario di lui vedeva nel dilettantismo la via maestra della sua concezione di sport. A quasi un secolo di distanza, possiamo dire che avevano ragione entrambi: un approccio dilettantistico allo sport era possibile solo per quelle classi che, nate bene, non avevano necessità di lavorare, escludendo così dalla pratica la stragrande maggioranza della popolazione; il professionismo, d’altra parte, ha alla lunga portato a scorrettezze anche estreme per vincere, con tanti scandali che hanno coinvolto, e parliamo della storia recente dei primi anni del XXI secolo, la FIFA stessa.

    Avvicinatosi a quel nuovo e strano sport che si giocava solo con i piedi chiamato football, nato poco più di mezzo secolo prima in Inghilterra e che da qualche decennio stava avendo un notevole successo oltremanica, Rimet decise che organizzarlo per farlo diventare un’opportunità di crescita sociale sarebbe stata la sua missione. Partendo dalla sezione calcio di una piccola polisportiva dell’entroterra parigino che egli stesso aveva fondato, (la Red Star, è già il nome dava un indizio delle sue idee politiche di impronta cristiano sociale), si trovò rapidamente prima a capo della federazione francese di football e, subito dopo la guerra, a capo della FIFA.

    Nonostante il successo che il football stava ormai acquisendo in tutta Europa e non solo, mai come negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra l’organismo che lo regolava a livello mondiale stava vivendo una profonda crisi: i rancori che il conflitto mondiale aveva lasciato in Europa, ed il fatto che ci fosse un far west regolamentare circa la definizione di giocatore dilettante o professionista aveva ridotto la FIFA a sole 18 federazioni affiliate, quasi tutte europee e con esclusi i maestri britannici. In quel 1921, Rimet divenne segretario della federazione dopo tre anni di anarchia, e rendere la FIFA un organismo veramente planetario, per non parlare di organizzare un campionato del mondo di calcio, erano obiettivi che l’istituzione aveva ormai solo sulla carta.

    Ma Jules Rimet era un pragmatico, e sapeva che se si voleva portare la pratica di questo sport, emergente al punto da essere diventato un fenomeno di massa, a tutti, incluse le classi meno agiate, bisognava eliminare il finto moralismo dell’essere dilettanti e aprire le porte anche al professionismo. Riuscì così a recuperare le 4 federazioni britanniche, almeno per il momento. Era il 1924. Non parteciparono ai giochi, questo no, ma si dissero disponibili a collaborare con la FIFA. L’IFAB, l’organismo che sin dal 1886 dettava le regole del football, rimaneva però ancora saldamente in mano ai maestri di oltremanica, che avevano sì ammesso la FIFA nel 1913, ma in assoluta posizione minoritaria (due i voti della FIFA, contro i due per federazione che avevano Scozia, Galles, Irlanda ed Inghilterra). Situazione che non cambierà fino al 1958.

    La vetrina dove esporre il calcio a livello internazionale erano le Olimpiadi, e pur di raggiungere l’obiettivo la FIFA decise di organizzare – per la prima volta seriamente dopo le non brillantissime prime edizioni – il torneo di calcio in quella sede, non curandosi della diatriba tra chi faceva lo sport da amateur e chi lo praticava invece come un lavoro. Con tale torneo Rimet riuscì a far affiliare alla FIFA anche nazioni sudamericane importanti come Uruguay e Brasile, passando sopra al fatto che avessero già la loro federazione continentale, cosa che il buon Rimet non vedeva di buon occhio, tanto da opporsi alla creazione di un organismo europeo – la futura UEFA – fino a che resse il timone del football mondiale. L’UEFA, infatti, fu fondata nel 1955, l’anno dopo il suo pensionamento.

    Certo, la distinzione tra professionismo e dilettantismo, nel caso del calcio, era molto labile: si decise che gli unici soldi da dare agli atleti delle squadre di calcio sarebbero stati dei rimborsi spese, lasciando però libere le singole federazioni di deciderne l’ammontare massimo: una soluzione transitoria e non molto chiara, che non piacque alle quattro federazioni inglesi dello Home Championship (il campionato che giocavano tra di loro), che parlarono apertamente di shamateurism (crasi tra vergogna e dilettantismo nella lingua di Shakespeare). Se il calcio alle Olimpiadi fosse stato un insuccesso, il rischio che si potesse creare una federazione alternativa alla FIFA, basta sull’asse Inghilterra-Sud America era reale. Del resto, erano gli Uruguayani stessi a dire che se l’Inghilterra era la madre del football, l’Uruguay ne era il padre.

    Ma Jules poté tirare un sospiro di sollievo: l’edizione del 1924 delle Olimpiadi, tenutasi a Parigi, vide il torneo di calcio avere un notevole successo, con la partecipazione di squadre extraeuropee come Egitto, USA e soprattutto Uruguay, fresco vincitore della Coppa America. Quest’ultimo sbaragliò la concorrenza, stupendo giocatori e spettatori con un gioco tecnico, una grinta notevole (quella che ancora adesso chiamano la garra quechua, la grinta dei quechua, una popolazione locale che però ha poco o punto giocato a pallone…) e soprattutto di Andrade, un centromediano nero che venne visto all’inizio come un fenomeno da baraccone, e che invece era un giocatore di tecnica sopraffina. Per dare un’idea della sorpresa che la celeste, questo il soprannome della squadra uruguaiana dal colore della maglia, diede, è sufficiente raccontare questo aneddoto: il turno preliminare prevedeva l’incontro dei sudamericani con la Jugoslavia. La squadra vincente sarebbe stata poi ammessa agli ottavi di finale del tabellone principale. La neonata nazione balcanica mandò qualcuno a studiare gli allenamenti degli avversari. Sapendolo, gli uruguaiani sbagliarono apposta tutto, tanto che il rapporto degli osservatori fu sarà una passeggiata. Risultato: 7-0 per l’Uruguay, che in quell’edizione vinse tutte le partite subendo solo due gol.

    Il successo della manifestazione e il rientrato rischio di scissione fece balenare a Rimet l’idea che fosse finalmente possibile organizzare un Campionato del Mondo per nazioni, sponsorizzato dalla FIFA. L’obiettivo per cui la FIFA era nata, nel 1904, poteva finalmente compiersi.

    Avrebbe dato l’egida della FIFA anche al torneo olimpico, se il Comitato organizzatore delle Olimpiadi fosse passato sopra alla concezione dilettantistica per quanto riguarda il calcio, ma, come detto prima, de Coubertin da questo punto di vista era inflessibile. Nel 1928, quindi si sarebbe ripetuta la stessa formula del dilettantismo con rimborso spese al torneo calcistico olimpico.

    La ripetizione del compromesso dello shamateurism però irritò profondamente i maestri britannici, tanto da convincerli, e stavolta per un periodo ben più lungo, al lasciare di nuovo la FIFA. Iniziava così quello splendido isolamento che, lungi dal confermare la supremazia britannica sullo sport che loro stessi avevano inventato, li avrebbe invece fatti retrocedere al rango di potenza di seconda fascia.

    Non avevano tutti i torti, del resto: gli uruguaiani vincitori del torneo di Parigi rimasero lontano dalla loro nazione per oltre due mesi, ed era difficile sostenere che fossero tutti in ferie dal loro lavoro per tutto quel tempo, avendo solo dei rimborsi spese.

    Il torneo olimpico del 1928 ad Amsterdam fu comunque, se possibile, un successo ancora maggiore: oltre all’Uruguay campione uscente, dal Sudamerica stavolta arrivarono altre due squadre: l’Argentina vincitrice del torneo continentale del 1927, ed il Cile. Ben sei squadre su 17 (oltre alle tre squadre sudamericane, parteciparono anche USA, Egitto e Messico) non erano europee. L’Uruguay si confermò campione sugli eterni rivali dell’Argentina. Le due nazioni che si affacciano sul rio della Plata o River Plate, in inglese, hanno sempre combattuto su tutto: dal calcio al tango. Quella finale fu, all’epoca, definita la più bella partita del secolo. Ottima terza l’Italia, che era nella fase iniziale del suo decennio d’oro: dopo aver perso in semifinale di misura 3-2 contro gli Uruguayani, vinse il bronzo con clamoroso 11-3 sull’Egitto.

    Ancora prima dello svolgersi delle Olimpiadi del 1928, comunque, la decisione della FIFA era presa: negli anni pari alterni a quelli delle Olimpiadi, si sarebbe tenuto il Campionato Mondiale di Calcio, aperto stavolta a tutti, professionisti e no. Rimet ed il suo instancabile aiutante Delaunay, suo successore alla Federazione calcistica francese e creatore, quasi trent’anni dopo, dell’UEFA, fecero indagini presso tutte le federazioni affiliate, sia sull’eventuale creazione del torneo sia sulla sua formula, e le risposte furono positive. Nonostante quest’apertura, comunque, le nazionali britanniche continuarono il loro splendido isolamento. Convinte della propria superiorità, non si affiliarono alla FIFA se non nel 1950, venti anni e tre edizioni dei mondiali dopo. Possiamo dire, con ragionevole certezza, che fu un errore dai quale le quattro federazioni generatrici dell’Association Football non si sarebbero più riprese, se non a sprazzi.

    Non è quindi vero che il mondiale fu deciso perché nel 1932 a Los Angeles le Olimpiadi non avrebbero previsto il calcio in quanto sport non amato negli USA. La decisione fu presa ben prima, e poi gli USA, ironicamente, proprio nella prima edizione dei mondiali, quello del 1930, ottennero il loro miglior risultato calcistico, come vedremo. La sensazione è che invece la mancanza del calcio nel 1932, ufficialmente attribuita proprio al fatto che il calcio non era più sport dilettantistico fu un dispetto dell’eterna lotta tra il nobile de Coubertin ed il plebeo Rimet. Tanto più che nel 1936 il calcio era ben presente alle Olimpiadi, e con un dilettantismo molto diluito (si parlò ipocritamente di formazioni universitarie).

    Il merito quindi della creazione di quello che è l’evento attualmente più seguito al mondo è quindi da attribuire esclusivamente a Rimet ed a Delaunay. La leggenda dei mondiali di calcio era cominciata.

    Il personaggio, come tutti quelli che sono entrati nella storia a tutto sbalzo, non è esente da critiche: il successo del calcio come veicolo di crescita sociale era così forte, per Rimet, da passar sopra anche alle sue convinzioni politiche: come vedremo non ebbe problemi, lui dichiaratamente cristiano sociale, ad affidare un’edizione dei campionati all’Italia fascista, che ne fece un potente strumento propagandistico, e a gestire il calcio anche nella Francia occupata dai nazisti (si dimetterà solo quando gli boicotteranno la sua idea di professionismo imponendo solo sette giocatori di professione per squadra).

    Ma a conti fatti, ha avuto ragione lui: storie sportive immortali come Il Maracanazo, giocatori diventati icone del ventesimo secolo come Pelé e Maradona, o squadre leggendarie come L’Ungheria di Puskás, senza di lui non avrebbero avuto quella risonanza mondiale che ancora oggi fa sognare i tifosi e ispirare gli sportivi. Il suo pragmatismo fece storcere il naso a chi prese in considerazione la sua candidatura al Nobel per la pace nell’anno della sua morte, il 1956. Ma il suo nome rimarrà per sempre abbinato comunque ad un evento di festa per l’umanità intera. Lasciatelo un fiore, su quella tomba, se potete.

    1930 in Uruguay: URUGUAY

    Il 18 maggio 1929 (per gli amanti della precisione era un sabato), dopo ben 25 anni di gestazione, l’obiettivo per cui la FIFA era stata fondata fu raggiunto: venne formalmente istituita ed organizzata la prima Coppa del Mondo di Calcio.

    A quale nazione assegnare quella prima edizione era comunque una questione spinosa. Anche se le squadre britanniche erano fuori dalla federazione, e lo rimarranno fino a dopo la Seconda guerra mondiale, sembrava naturale dare tale onore ad un’europea. Non solo perché il calcio era nato nel vecchio continente, non solo perché europei erano tutti i maggiorenti della federazione, ma soprattutto per una questione, potremmo dire, culturale. Nonostante i successi nelle ultime due Olimpiadi dell’Uruguay, infatti, non vi era dubbio alcuno che il calcio vero fosse quello europeo, che si trattasse del calcio danubiano di Hugo Meisl, di quello Italiano di Vittorio Pozzo o del nuovo sistema di Herbert Chapman, che proprio allora stava cominciando ad avere successo in Inghilterra visto il cambio di regola che portava, dal 1925, i giocatori ad essere in fuorigioco quando avevano solo un giocatore davanti, e non più due. Ma di questo parleremo più avanti.

    E poi, tutti i più prestigiosi trofei calcistici per squadre nazionali erano europei, fatta salva la Copa America: tutte le nazionali continentali erano allora nel pieno della prima edizione della Coppa Internazionale, che prevedeva incontri di andata e ritorno ed una classifica finale nel più classico dei round robin (o, come era stato autarchicamente ribattezzato allora dal regime fascista, girone all’italiana), mentre le britanniche avevano il loro Home Championship che consideravano come la sola vera Coppa del Mondo. Del resto, non era forse l’Inghilterra la madre del football? E quindi le altre nazioni, cosa pretendevano?

    Ma come ospitanti si candidarono non solo tre europee (Olanda, Svezia e Italia), ma anche due sudamericane, Argentina e Uruguay. Dopo una breve riunione, in campo rimasero solo Italia ed Uruguay. Per l’Italia si schierò la Svezia; per l’Uruguay, l’Argentina.

    A chi dare quindi l’organizzazione del primo mondiale di calcio? Mentre l’Italia nel 1929 non aveva ancora quella struttura federale definitiva che il fascismo stava dando al calcio tramite Leandro Arpinati (il primo campionato di serie A nacque proprio nell’ottobre di quell’anno), l’Uruguay era forte di notevoli argomenti sportivi e politici: aveva vinto le ultime due edizioni delle Olimpiadi (nel 1924 a Parigi e nel 1928 ad Amsterdam), avrebbe degnamente festeggiato il centenario della propria indipendenza (1830), avrebbe costruito uno stadio tutto nuovo per l’occasione, dove si sarebbero giocate tutte le partite, e soprattutto avrebbe pagato le spese di viaggio a tutte le nazioni che avessero deciso di partecipare (e fu l’unica nazione ad offrirsi per questo). E poi, a leggere i verbali di quel congresso, tali argomenti furono esposti alla platea dal rappresentante argentino, la nazione storicamente rivale: il rio della Plata in questo caso univa le due rivali nel nome dell’orgoglio sudamericano.

    Rimet, che sapeva quanto doveva alle nazioni sudamericane per aver reso la FIFA un organismo globale, spinse in favore dell’Uruguay (meglio ancora: di Montevideo, visto che fu l‘unico caso di Coppa del Mondo di calcio disputatasi in una sola città). Fu una decisione alla fine unanime, perché quando si vide che la preferenza per la nazione sudamericana stava montando, l’Italia ritirò, con grande scorno, la candidatura decidendo di non partecipare alla competizione, e trascinando in tale boicottaggio tutte le nazionali europee più importanti. Questo fatto porterà ad avere solo una minima rappresentanza del vecchio continente alla competizione. L’Uruguay si legò al dito tale atteggiamento, come vedremo, e non avrebbe più messo piede in Europa per le competizioni ufficiali fino al 1954.

    Immaginiamoci adesso un campionato del mondo la cui sede è decisa solo un anno prima, da giocare in uno stadio che non esiste, e con una formula ancora da definire, mancando il numero certo di partecipanti. Eppure, tutto questo accadeva solo meno di un secolo fa.

    Ma la piccola nazione sudamericana mise l’aggressività, la garra per cui era famosa nel calcio, anche nell’organizzazione. Il nuovo stadio fu costruito in meno di un anno: una volta individuata la zona (nel parco Batlle al centro di Montevideo, ironicamente limitato dalla Avenida Italia), i lavori, diretti dall’architetto Juan Scasso (che fortunatamente non tenne fede al proprio cognome) cominciarono nel luglio del ’29, procedendo speditamente: 24 ore al giorno di lavoro, con tre turni di 8 ore per gli operai ed i manovali, aiutati da potenti riflettori nelle ore notturne. Lo stadio, della capacità di 90.000 posti si sarebbe chiamato del Centenario, avrebbe avuto una forma ovale ispirata al Colosseo, e sarebbe stato sormontato da una torre (chiamata Torre de los Homenajes, Torre degli Omaggi) alta cento metri. Adesso è stato definito Monumento Internazionale del football, anche se la capienza è stata ridotta a 60.000 spettatori, e non è più lo stadio più grande del Sudamerica come veniva presentato allora.

    Il 28 febbraio 1930 era il termine ultimo per le iscrizioni al campionato, e per la FIFA la situazione non poteva essere più fallimentare: si erano iscritte solo nove squadre nazionali, nessuna delle quali europea: le principali squadre del vecchio continente infatti (Italia, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Svizzera) erano, come detto, nel pieno della Coppa Internazionale, (e Rimet, che non voleva particolarismi, si era sempre opposto a queste competizioni parziali, tanto da essere contrario anche alla creazione di organismi continentali come l’UEFA) ed erano indispettite dalla scelta dell’Uruguay come prima nazione ospitante. Del resto, tra il viaggio di andata, la competizione e il viaggio di ritorno sarebbero passati oltre due mesi: troppi per chi, ed erano tanti, aveva impegni anche extracalcistici. Oltretutto, la crisi economica cominciata nell’ottobre del 1929 con il crollo della borsa di New York non invitava di certo a spese impegnative come una trasferta di due mesi in Sudamerica, anche se pagata.

    Rimet era disperato, tanto da rivolgersi alle quattro squadre britanniche, come detto non iscritte alla FIFA, che come era prevedibile rifiutarono sdegnosamente, ribadendo che per loro il campionato del mondo era l’Home Championship, il torneo che all’epoca disputavano Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord. Interpellò anche l’Italia, fresca vincitrice della Coppa Internazionale dopo il 5-0 rifilato all’Ungheria in terra magiara grazie alla tripletta di Meazza, che neanche si degnò di rispondere. A questo rifiuto, che era un boicottaggio per quanto silente, i giornali sudamericani risposero malignando che gli italiani rifiutarono la partecipazione per timore di ritorsioni dovute al saccheggio degli oriundi, ossia il fatto che parecchi sudamericani una volta venuti a giocare in Italia vennero naturalizzati sfruttando il fatto che quasi tutti avevano antenati nati nel belpaese e poi emigrati. Polemica, questa, destinata a ripetersi, come vedremo, per le seguenti due edizioni, e che si esaurì solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il primo torneo mondiale di football rischiava di trasformarsi in un fallimento totale.

    Poi, ad aprile del 1930, il quasi miracolo. La Francia (patria di Rimet e Delaunay), il Belgio, la Romania (su pressioni del re Carlo II, il quale oltre a compiere scelte tecniche sulla formazione, s’impegnò a non far perdere il lavoro per i due mesi di assenza ai calciatori selezionati) ed il giovane regno di Jugoslavia accettarono di partecipare.

    Doveva partecipare anche la Bulgaria, anzi addirittura fino al 4 luglio la sua partecipazione era certa, tanto che una velina ripresa dai giornali italiani annunciavano la partecipazione dei bulgari come certa, e un manifesto dei mondiali metteva la bandiera bulgara in bella mostra. Ma le difficoltà del viaggio e – di nuovo, l’assenza dal lavoro per più di due mesi costrinsero i bulgari a rinunciare.

    Anche Francia e Belgio avevano dovuto rinunciare ad alcuni dei loro migliori giocatori (la Francia addirittura all’allenatore) perché impossibilitati a lasciare il loro lavoro, e Romania e Jugoslavia non erano, in quel momento, squadre di grido (la Jugoslavia aveva giocato 36 partite in 10 anni, con il non invidiabile score di 12 vinte, 4 pari e ben 20 perse, tra cui l’umiliante 7 a zero che l’Uruguay gli rifilò alle olimpiadi del 1924; la Romania addirittura solo 24 partite), ma la rappresentanza del vecchio continente era salva.

    Il 21 giugno 1930 si partì per l’Uruguay. Il piroscafo Conte Verde era quanto di più lussuoso ci si potesse permettere per arrivare in Sud America. Lungi dall’avere tratte aeree (l’impresa di Lindbergh era solo di tre anni prima), andare da un continente all’altro era possibile, allora, solo per nave. Era l’orgoglio, assieme al suo gemello Conte Rosso, dei Lloyd’s Sabaudi di Genova. Quasi 19.000 tonnellate di stazza, circa 130 metri di lunghezza per 30 di larghezza, 19 nodi di velocità, avrebbe portato passeggeri ed equipaggio da Genova a Montevideo in 14 giorni. Varato nell’ottobre del 1922, aveva fatto il viaggio inaugurale nel giugno del 1923, solo 7 anni prima. Nave nuovissima, quindi. Un equipaggio di circa 450 persone trasportava 400 passeggeri in prima classe, 550 in seconda e 1.450 in terza. Triste la storia di questo piroscafo, che in soli 13 anni divenne, da simbolo di gioia sportiva e vacanziera, a relitto vittima della guerra mondiale. Sequestrato a Shangai dai giapponesi dopo l’otto settembre del 1943, fu bombardato e inabissato dai B-52 statunitensi.

    Dopo essere partito da Genova il giorno prima assieme alla nazionale rumena, la nave fece il suo primo scalo a Villefrenche-sur-mer, poco oltre il confine tra Italia e Francia. Li si imbarcarono i nazionali francesi, gli arbitri europei (tra cui il belga Jean Langenus, che avrebbe arbitrato la finale) e Jules Rimet, con in una valigia la coppa che avrebbe premiato la nazionale vincitrice. Fu consegnata subito al comandante, affinché la conservasse nella cassaforte di bordo.

    Creata dall’orafo francese Abel Lefleur, rappresentava la vittoria alata in piedi su di un basamento ottagonale, era di argento ricoperta d’oro e pesava quattro chili, di cui quasi due del giallo e prezioso metallo. Si chiamava, all’epoca, Coppa della Vittoria, ed ha avuto una storia travagliata, fino a scomparire definitivamente nel 1983, probabilmente fusa per farne dei lingotti. Non tutta, però! Nel 2015, il primo basamento, quello usato fino al 1950, fu ritrovato nei sotterranei della FIFA a Zurigo. Grande deve essere stata l’emozione nel riprendere quel basamento ottagonale, che recava scritti i nomi di Italia ed Uruguay (i soli vincitori, fino al 1950, del trofeo) da parte degli scopritori…

    Il giorno dopo, a Barcellona, si imbarcò il Belgio (la Jugoslavia aveva preso un’altra imbarcazione), e si poteva finalmente attraversare l’Oceano: l’avventura stava per cominciare. Nessuno sapeva cosa stesse facendo, ossia inaugurare l’evento sportivo che, assieme alla finale dei 100 metri piani delle Olimpiadi, avrebbe attirato più spettatori nel mondo. Forse solo Rimet ne aveva un vago sentore. In quel momento era però solo felice per essere riuscito a realizzare il suo progetto. Così felice da osar chiedere al famoso cantante lirico Scialiapyne, a bordo anche lui, se avrebbe potuto allietare la serata dell’attraversamento dell’equatore con un concerto. Il basso, di umore non certo accondiscendente, declinò in modo brusco affermando non solo che senza il suo agente non avrebbe fatto nulla, ma che non vedeva il perché doveva regalare il suo talento gratis in quell’occasione. Se a lei calzolaio le chiedessero di fare 12 delle sue migliori scarpe perché si passa l’equatore, cosa risponderebbe? disse a Rimet, calcando la mano sull’origine non nobile del francese. Ma neanche tale piccolo inconveniente tolse il buon umore a Rimet. Le squadre facevano esercizi fisici sulla nave, i giocatori erano pronti e preparati per l’evento e la coppa era al sicuro. Mancavano le europee nobili, è vero, e di sicuro almeno l’Italia di Vittorio Pozzo e Meazza, o l’Austria di Hugo Meisl e Sindelar, per non parlare dei maestri britannici, avrebbero reso tale campionato veramente l’esibizione del miglior football mondiale. Ma sarebbero arrivate di sicuro, con il successo della manifestazione. E poi, comunque, erano presenti Uruguay e Argentina, finaliste del torneo di Calcio dell’ultima Olimpiade in quella che più di uno definì la più bella partita del secolo, che si sarebbero date battaglia.

    Otto giorni dopo la partenza da Genova, il Piroscafo arrivò a Rio, dove imbarcò il Brasile, o meglio, mezzo Brasile. Alle prese con una delle tante lotte tra i carioca di Rio e i paulista di S. Paolo, infatti, nessuno di questi ultimi rispose alle convocazioni (tranne uno, tale Araken del Santos che però era in rotta con la sua società. Questo implicò anche uno scalo in quella città, a dimostrazione che nella storia del calcio Santos è una predestinata). Questo, per la nazionale bianca (non ancora verdeoro), voleva dire rinunciare a giocatori del calibro del difensore Del Debbio (che sbarcherà in Italia, nella Lazio, l’anno successivo) e soprattutto di Arthur Friedenreich, il più famoso calciatore brasiliano prima di Pelé e accreditato di oltre 1220 gol: il fenomeno dell’epoca. Come loro abitudine, comunque, i brasiliani erano convinti della propria superiorità e, come vedremo, destinati ad una delle loro tante débâcle (ma attenzione: è pur sempre l’unica squadra che ha partecipato a tutti i mondiali, e quella che a oggi ne ha vinti di più: cinque).

    Le squadre giunsero a Montevideo il 4 luglio 1930. Erano tredici, numero strano per organizzare un campionato. Si escluse, da subito, la formula dell’eliminazione diretta: le nazionali che avevano fatto oltre due settimane di viaggio per andare, letteralmente, all’altro capo del mondo (ed almeno altrettante ne avrebbero dovuto fare per ritornare a casa) non volevano rischiare di essere presenti per soli 90’. Non è un caso che, mentre i mondiali del ’34 e del ’38, giocati in Europa, furono ad eliminazione diretta (come del resto i tornei olimpici), nel ’50 in Brasile si tornò ad una formula a gironi che addirittura non prevedeva neanche la finale.

    Gironi, dunque. Round robin, con le prime avrebbero poi fatto semifinali e finali (con successiva estrazione). Un girone sarebbe stato da quattro, gli altri da tre. In caso di arrivo a pari punti ci sarebbe stata una partita di spareggio, mentre per semifinali e finale ci sarebbe stata la ripetizione.

    Lo Stadio del Centenario, dove si sarebbero dovute giocare tutte le partite, nonostante tutti gli sforzi, non era ancora pronto. Si diede la colpa alle incessanti piogge che colpirono la nazione sul lato orientale del Rio de la Plata, ma il sospetto è che lo si volesse inaugurare, come poi avvenne, il 18 giugno, giorno esatto del centenario della costituzione Uruguayana, e con una partita della nazionale di casa. Poco male, comunque: le partite dal 13 al 17 giugno sarebbero state giocate nei due stadi delle squadre di Montevideo: il piccolo Pocitos (casa del Penarol) ed il Gran Parque Central (dove giocava il Nacional). Quest’ultimo, edificato nel 1900 e tuttora esistente, è uno dei più antichi stadi ancora funzionanti. Per dare un’idea del periodo, in quello stadio solo 10 anni prima ci fu un duello tra José Batlle Y Ordones, ex presidente della nazione rioplatense (proprio quello cui fu dedicato il parco dove stava sorgendo lo stadio Centenario) e Washington Beltrán, deputato dell’opposizione e giornalista del quotidiano El Pais di Montevideo. Un duello con pistolettate da 25 passi, terminato con l’uccisione del giornalista da parte del presidente. Fatte le debite proporzioni, immaginiamoci un duello a San Siro tra Renzi e Travaglio a colpi di pistola…

    Le fasce per il sorteggio – che si effettuò il sette luglio, solo una settimana prima dell’inizio del torneo, furono così composte: una di europee, una composta dalle squadre forti dell’epoca, ossia Uruguay, Brasile, Argentina ed – inspiegabilmente con gli occhi di oggi – gli USA, che fino ad allora avevano giocato solo 11 incontri ufficiali (ma vedremo che forse un motivo c’era), una composta dalle restanti sudamericane ed infine il Messico.

    Fu l’Argentina a trovarsi nel girone da quattro, assieme a Francia, Cile e Messico. Il secondo girone – quello del Brasile – fu con l’incognita Jugoslavia e la cenerentola Bolivia (che ancora doveva vincere la sua prima partita ufficiale). C’era poi il terzo girone, con i padroni di casa, la Romania ed il Perù, ed infine quello con USA, Belgio, e Paraguay. Questi giorni ed incontri:

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