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Le leggende della Formula 1: Storie di asfalto, curve e accelerazioni
Le leggende della Formula 1: Storie di asfalto, curve e accelerazioni
Le leggende della Formula 1: Storie di asfalto, curve e accelerazioni
E-book684 pagine11 ore

Le leggende della Formula 1: Storie di asfalto, curve e accelerazioni

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Info su questo ebook

Quella della Formula 1 è una storia divenuta immortale, che si protrae – sempre più lucente – da oltre settant’anni. Stagione dopo stagione, essa continua a emozionare milioni di appassionati in tutto il mondo. Fatta di eroi capaci di ridonare gioia e spensieratezza nel periodo postbellico, da Nino Farina ad Alberto Ascari fino al campionissimo Juan Manuel Fangio, che lungo gli anni Cinquanta ha dominato incontrastato le piste di tutto il mondo. Fatta di momenti unici e leggendari, di dominatori inarrivabili come Michael Schumacher e Lewis Hamilton (detentori del record di sette Mondiali vinti), ma anche di piloti iconici e sfortunati quali Michele Alboreto, Ayrton Senna e Gilles Villeneuve. E nuovi eroi, Max Verstappen su tutti, il più giovane pilota ad aver esordito in Formula 1. È infine una storia di asfalto, curve e accelerazioni entrate nell’immaginario collettivo: le speranze delle prove libere, le certezze delle qualifiche e la tensione della gara, attesa e temuta, capace di ribaltare tutto in pochi frammenti di secondo. Domenighini racconta e dipinge i protagonisti dello sport che scandisce le nostre vite dal 13 maggio 1950, quando a Silverstone iniziò una storia magica: la storia della Formula 1.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita24 lug 2023
ISBN9788836161638
Le leggende della Formula 1: Storie di asfalto, curve e accelerazioni

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    Anteprima del libro

    Le leggende della Formula 1 - Francesco Domenighini

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    Francesco Domenighini

    LE LEGGENDE DELLA FORMULA 1

    Storie di asfalto, curve e accelerazioni

    A nonno Giovanni.

    Prefazione

    di Stefano Ravaglia

    Settant’anni di Formula 1, trentatré campioni del mondo, sette titoli Mondiali, quelli di Hamilton e Schumacher, record d’ogni tempo. Non sto dando i numeri, o meglio sì, ma mica bastano questi a raccontare un romanzo così vasto come quello della classe regina delle corse automobilistiche. Da appassionato di questo sport, cerco di andare a scovare, tra un ritiro e un pit stop, tra una partenza e un record sul giro, tra un sorpasso e un testacoda, qualcosa di più. Anche la Formula 1, come e più di altri sport, è infatti un’enciclopedia di storie, tra le più variegate: drammi, gioie, rimonte, beffe. C’è tutto. Come mi piace sempre ricordare, il motorsport è l’essenza della competizione. Termini come sorpasso e gara li utilizziamo in qualsiasi altro contesto, perché sono un po’ metafore della vita. In fondo, pensate alla nostra quotidianità: al mattino è come fossimo tutti sulla griglia di partenza, pronti ad affrontare le insidiose curve di un’altra giornata, mentre alla sera vediamo sventolare la bandiera a scacchi. E solo da noi dipende in che posizione ci siamo classificati. Ecco, Francesco Domenighini queste storie ha cercato di metterle insieme, scegliendo innanzitutto le più nobili. Raccontando cioè di tutti coloro che ce l’hanno fatta a scrivere il loro nome e cognome sull’albo d’oro di un’avventura iniziata il 13 maggio 1950, in un posto che è diventata la culla della Formula 1: Silverstone. Da Ascari a Fangio, da Clark a Stewart, da Prost a Senna, fino ad arrivare ai giorni nostri, è come se vi sedeste in macchina anche voi, attraversando settant’anni di corse tra il Mirabeau e l’Eau Rouge, la Parabolica e le Becketts, la Tosa e le Acque Minerali. Attenzione: ci sono tutti i campioni del mondo, ma non solo, perché la bellezza della Formula 1 è anche in quelle storie di piloti iconici e ruspanti che, pur non avendo mai vinto il Mondiale, hanno lasciato traccia nel cuore degli appassionati. E il primo nome che viene in mente in questo senso non può che essere Gilles Villeneuve, forse il più amato ferrarista di sempre. Dalle motoslitte guidate sulle nevi canadesi aveva ereditato quello stile di guida che non guardava in faccia nessuno. Così spericolato, così sgangherato, così affamato. Peculiarità che hanno intenerito persino la personalità d’acciaio di Enzo Ferrari, che lo aveva adottato come fosse suo figlio. E poi Ronnie Peterson, volato via troppo presto a Monza; Stirling Moss, e mai eterno secondo fu così acclamato; o il compianto, dolce e indimenticabile Michele Alboreto, di cui in questo 2021 ricorrono i vent’anni dalla scomparsa. Questo e molto altro tra le pagine che state per leggere. E allora indossate il casco, calatevi nell’abitacolo, stringetevi forte al petto le cinture, impugnate il volante. Si spengono i semafori. Via!

    Introduzione

    Leggenda e mito, l’epicità che si trasforma in realtà cambiando i propri personaggi, non più divinità che dall’Olimpo gestiscono le sorti dell’umanità bevendo ambrosia, ma piloti che ogni volta che si mettono il casco rischiano sempre la propria vita e la Formula 1 è anche questo. È lo sprezzo del pericolo di Gilles Villeneuve, è l’emozione di andare sempre oltre i propri limiti a suon di giri veloci e vittorie di Michael Schumacher, è la tattica di saper gestire pneumatici ormai completamente consumati di Lewis Hamilton, l’intelligenza nel sapersi accontentare quando serve perché ogni punto è importante per la classifica generale di Alain Prost.

    Quaranta campioni sono riusciti a scrivere delle pagine meravigliose nella storia delle quattro ruote, ma chiunque abbia acceso una monoposto e abbia preso una curva a trecento chilometri orari è stato fondamentale per aver reso unico questo sport. Una storia lunga settant’anni, partendo da quel 1950, anno di speranza per dar via a un decennio sereno dopo le atrocità della guerra, fino a oggi con il passaggio all’era ibrida per avvicinarsi a un mondo più ecosostenibile. È la storia campioni possenti che dovevano guidare vetture molto pesanti come Juan Manuel Fangio e Alberto Ascari che diedero vita al primo memorabile dualismo della Formula 1, dopo che Farina aveva aperto le danze vincendo il primo Mondiale di sempre. È la storia del dominio britannico degli anni Sessanta, con la Scozia che si riscopre il centro del mondo grazie a due campioni tanto vincenti quanto diversi come Jim Clark e Jackie Stewart. È la storia dei difficili anni Settanta, dove il mondo cambiava e Niki Lauda usciva dalle fiamme del Nürburgring per poi rivincere il secondo titolo mondiale solo l’anno seguente. È la storia della generazione di fenomeni aperta da quel cavallo pazzo di Nelson Piquet, amante in egual modo di motori e donne, dal Professore aristocratico Alain Prost, dal Leone indomabile Nigel Mansell e da quel Mago e genio assoluto di Ayrton Senna. È la storia delle vittorie dei figli d’arte Damon Hill e Jacques Villeneuve, della grande scuola finlandese di Häkkinen e Räikkönen, dell’uscita dall’anonimato da parte della Spagna grazie a Fernando Alonso e tutti questi avevano un denominatore comune: il Kaiser Michael Schumacher. È la storia dei dominatori dei giorni nostri, delle quattro meraviglie di Sebastian Vettel in Red Bull fino alle sette sinfonie di Lewis Hamilton che va alla ricerca del record assoluto.

    È una storia fatta anche di grande dolore e lacrime, sia per la morte di campioni che avrebbero ancora potuto vincere tanto come Ascari o Senna, sia per quella di leggende che sono state fermate solo dal fato come Peterson e Gilles Villeneuve. È la vicenda anche di Lella Lombardi, unica donna capace di ottenere in Spagna quel memorabile mezzo punto mai più ripetuto nella storia da nessun’altra. Ed è soprattutto la storia di tutti noi, perché lo sport è lo specchio fedele della vita quotidiana, fatta di molte delusioni e qualche soddisfazione, fatta di cadute e pronte risalite, e la Formula 1 lo è ancora di più perché sulle quattro ruote ogni decisione deve essere presa in poche frazioni di secondo. I trentatré racconti per conoscere la storia di questo sport attraverso le leggende che hanno segnato il loro nome nell’albo d’oro della Formula 1 vengono implementati con degli omaggi finali a sette grandi figure iconiche che, nonostante non abbiano mai raggiunto un tale traguardo, sono entrati nell’immaginario comune. Quaranta storie quindi per emozionarsi e capire chi ha vissuto e chi oggi vive sull’Olimpo, l’Olimpo della Formula 1.

    1950:

    Nino Farina, il gentleman di Torino

    Genio e sregolatezza, ha saputo alternare una smisurata passione per le automobili con quella per le donne e la bella vita. Un campione che ha aspettato quasi con ansia la nascita di questo nuovo modo di gareggiare, che già alla fine della guerra aveva raggiunto i quarant’anni, ma la storia si può scrivere a qualsiasi età. Giuseppe Farina, per tutti Nino, è entrato nella storia del Mondiale come il numero uno, il primo a essere riuscito a realizzare i più grandi sogni della Formula 1 quando in quel 1950 non si poteva ancora capire appieno la portata delle sue straordinarie imprese. Avrebbe potuto entrare ancora di più nella leggenda delle corse se avesse dedicato esclusivamente quegli anni alle sfide su pista, ma era un ragazzo che ha sempre amato la vita ed è diventato un’icona anche per questo.

    Nato a Torino nel 1906 è il secondo genito della prestigiosa famiglia degli Stabilimenti Farina, mentre lo zio è il creatore della Pininfarina e le automobili non possono far altro che essere nel suo destino. In realtà è proprio lo sport in generale che lo affascina, pratica il calcio, lo sci e l’atletica ottenendo degli ottimi risultati in tutte le discipline, insomma un ragazzo che doveva solo scegliere dove indirizzare la propria vita. Sono però chiaramente le prime rudimentali vetture a quattro ruote ad affascinarlo e il padre Giovanni gli regala una Temperino dell’epoca già nel 1915, quando ha solo nove anni, e da lì in poi sarà un susseguirsi continuo e naturale a bordo delle monoposto. Alla fine del primo conflitto bellico decide di entrare nell’esercito come ufficiale di cavalleria, anche se cambia presto idea per iniziare l’università e laurearsi in Scienze politiche, in modo tale da riuscire a tenersi stretta la passione per le gare di velocità in macchina. È infatti in questo periodo che Farina si compra la sua prima Alfa Romeo e a diciannove anni partecipa alla Aosta-Gran San Bernardo dimostrando fin da subito una follia che può soltanto essere sintomo di un grande campione. Non voleva far passare nemmeno il padre, tanto da iniziare una durissima lotta fatta anche di sportellate al limite della regolarità e che alla fine lo portano al ritiro. Questo atteggiamento alla guida diventa un suo marchio di fabbrica che non riuscirà mai più a togliersi per tutta la carriera e che lo porta a essere molto poco amato dai suoi colleghi, spesso impauriti dal suo modo di fare. Il ragazzo ha però i numeri del fuoriclasse e negli anni Trenta riesce a entrare in contatto prima con Tazio Nuvolari e poi con Enzo Ferrari che iniziano a spianargli la strada del successo, facendolo sedere su monoposto estremamente competitive che gli permettono di trovare risultati di prim’ordine, come alle Mille Miglia del 1935. Nella leggendaria corsa di quell’anno riesce a ottenere un ottimo secondo posto finale, ma quello che più impressiona è la sua decisione di ovviare alla rottura dei fanali correndo senza illuminazione per non perdere tempo sui primi, ed è assolutamente pazzesco se il tutto è rapportato a un’epoca dove i lampioni erano una rarità. I risultati continuano a essere ottimi e lo stesso Nino si trova a dover ringraziare pubblicamente il suo maestro Nuvolari per averlo limitato in quell’irruenza che era sempre stato il suo tallone d’Achille per tutti i suoi primi anni di carriera. La Seconda guerra mondiale porta oltre a tutti i suoi orrori anche lo stop delle competizioni ufficiali e quando si rientra dal conflitto internazionale per Farina è tempo di spegnere ben quaranta candeline dalla sua torta. Siamo ancora in anni dove si riesce ad arrivare quasi ai cinquanta, anche perché non sono poi così tanti i piloti all’epoca, ma lo stesso Farina si rende conto che sono molti di più gli anni che ha già dedicato alle corse rispetto a quelli che gli restano, eppure c’è ancora qualcosa che sente di dover fare per entrare definitivamente nella leggenda.

    La Formula 1 sta per nascere e sembra essere il futuro dell’automobilismo su pista, proprio per questo motivo le varie scuderie cercano di presentarsi nel 1950 con i migliori piloti in circolazione. L’Alfa Romeo è indubbiamente la casa più importante di quell’annata e nel suo team cala un tris d’assi sensazionale che passerà alla storia come le 3F: Fagioli, Fangio e Farina. Tre campioni con caratteristiche estremamente diverse tra di loro, con il marchigiano che ha addirittura già superato i cinquant’anni essendo nato nel 1898 e che decide di scendere in pista per regalarsi un ultimo brivido, l’argentino che è considerato l’uomo di punta e Nino è la mina vagante che con la sua follia può essere il terzo come il migliore in qualsiasi occasione. La 158 di quella stagione è di un livello assolutamente irraggiungibile per tutte le altre monoposto e la curiosità e la tensione si tagliano col coltello in quel 13 maggio a Silverstone in occasione del primo storico Gran premio. Le qualifiche del sabato dimostrano come la casa milanese abbia fatto le cose in grande e i suoi tre moschettieri chiudono in vetta con distanze minime, ma alla fine è Farina a realizzare la prima pole position nella storia della Formula 1, grazie ai quattro decimi su Fangio terzo e ai due su Fagioli secondo. Alla partenza sono tutti con il fiato sospeso e pronti via il piede del piemontese rimane ben saldo sull’acceleratore riuscendo a mantenersi davanti ai suoi rivali e realizzando già alla seconda tornata quello che sarà il giro più veloce della pista. I suoi due compagni di squadra non hanno certo la minima intenzione di lasciarlo vincere comodamente e i tre iniziano una battaglia all’ultima curva scambiandosi più volte la posizione, ma al giro sessantadue i problemi di lubrificazione del Chueco lo costringono al ritiro e così la lotta al primo storico successo si limita a un duello meraviglioso. Farina corre come un forsennato, ma il più esperto Fagioli fa capire perché è ancora considerato uno dei migliori del mondo tenendogli testa e rimanendo attaccato fino alla fine, l’ultimo rettilineo è da cuori forti. Le due vetture sono molto vicine ma Nino riesce a dare la staccata finale decisiva e con due secondi e sei decimi di vantaggio riesce a completare il primo Gran premio perfetto della storia dove è stato in grado di ottenere la pole, il giro veloce e la vittoria. Quel ragazzo nato in mezzo ai motori si è fatto uomo da un pezzo e ha appena iniziato a fare i primi passi nell’Olimpo e nella leggenda della Formula 1.

    A Montecarlo è però la giornata di Fangio che in qualifica riesce a staccarlo di ben due secondi e sei decimi e in gara viene coinvolto nel disastroso incidente di inizio Gran premio, una sua collisione con González lo porta a terminare anzitempo la giornata causando un’incredibile fiammata alla Rossa dell’argentino. El Chueco riesce così a rimontare in classifica e a Berna ottiene la seconda pole position con Farina ancora alle sue spalle ma in gara è abile a non forzare troppo la macchina, a differenza del compagno di squadra che rompe il motore a dieci tornate dal termine e le altre due Alfa iniziano a battagliare. Il piemontese e il marchigiano duellano come a Silverstone, questa volta ancora più vicini e ci vuole l’occhio attento del commissario di gara per capire chi dei due ha tagliato per primo il traguardo. È ancora Nino il più veloce tra i due veterani delle corse riuscendo a salire sul gradino più alto del podio per soli quattro decimi di vantaggio su Fagioli, il torinese è di nuovo in vetta al Mondiale. Il Gran premio di Spa diventa uno snodo decisivo per l’assegnazione del titolo iridato e già dalle qualifiche si capisce come non mancherà lo spettacolo dato che Farina e Fangio girano allo stesso identico tempo con la pole che va all’italiano per averlo realizzato per primo. È la solita avvincente guerra tra i tre titani dell’Alfa che si interscambiano le posizioni, ma ecco a pochi chilometri dal termine il fattaccio. La trasmissione di Nino inizia a non rispondere più a dovere ed è quindi impossibilitato a lottare per le prime posizioni, dimentica tutta la sua irruenza capendo che è il momento di amministrare e di usare l’intelletto. Decide quindi di guidare al risparmio, perché con una classifica così corta è un attimo perdere il primo posto e allora lascia ai due compagni la lotta al primato e perde anche il podio in favore della Talbot di Louis Rosier chiudendo quarto, guadagnando tre punti che si riveleranno d’oro. Il soprasso in classifica di Fangio arriva però a Reims al termine di un weekend perfetto dell’argentino e da dimenticare per Farina che, nonostante una grande partenza, è costretto al ritiro dopo soli diciassette giri per un problema alla pompa della benzina e, a un solo Gran premio dalla fine, la classifica è diventata più dura che mai. Comanda El Chueco con ventisei punti, seguito da Fagioli a ventiquattro e ora Farina è solamente terzo a quota ventidue, a Monza dovrà dunque tenere sotto stretta sorveglianza entrambe le due Alfa. La scuderia milanese è orgogliosa delle sue tre bocche da fuoco e vuole essere il più trasparente possibile nell’assegnazione della monoposto nel circuito decisivo che consegnerà alla storia il primo campione del mondo di sempre e così le 3F estraggono a sorte il numero della propria vettura. Quel giorno c’è anche un’altra importante novità, infatti la 158 è stata una splendida macchina che ha permesso di dominare i rivali, ma a Milano si sta già guardando al futuro e così ecco nascere proprio nel giorno più importante l’Alfa Romeo 159, un vero e proprio gioiello.

    Le novità, per quanto belle e piacevoli, hanno però bisogno di tempo per essere collaudate al meglio ed è per questo che Fagioli e Farina hanno qualche problema in qualifica, tanto da essere passati perfino dalla Ferrari di Ascari che chiude a un solo decimo da Fangio in pole. Nino sapeva bene che non avrebbe avuto molte altre occasioni in carriera e così fa fruttare tutta la sua potenza già in partenza per bruciare i suoi avversari sullo scatto e prendersi immediatamente la vetta della corsa sorprendendo, e non poco, Manuel. È lotta a due per il primo posto, anche se i quattro punti che li separano garantirebbero il successo al sudamericano anche in caso di seconda piazza, ma ecco a metà corsa che il radiatore dell’argentino inizia a perdere acqua ed è costretto al ritiro. Prova a sostituire Taruffi, ma è tutto inutile perché anche quell’Alfa cede e ora Farina non può sbagliare, deve rimanere concentrato verso quell’obiettivo che sembrava svanito e ora è a portata di mano. La Ferrari prima di Ascari e poi di Serafini è ben distanziata e soprattutto Fagioli non riesce a superarla inchiodandosi al terzo posto e l’arrivo al traguardo è trionfale, grazie a un favoloso vantaggio di oltre un minuto sulla Rossa e un minuto e trentacinque sul marchigiano. A quarantaquattro anni Nino Farina è il primo storico campione del mondo nella storia della Formula 1, un successo dettato dalla voglia di vincere e di strappare quel trionfo che sembrava cosa fatta già all’inizio da parte di Fangio.

    Il clima però in casa Alfa Romeo non è dei più distesi e soprattutto il Chueco non è ancora intenzionato a non avere un ruolo di spicco all’interno del team. Il Mondiale poi non è più una sola lotta interna al biscione, anche la Ferrari ha attuato miglioramenti importanti e a Milano iniziano a capire che se vogliono confermarsi i più forti di tutti devono concentrarsi anima e corpo su un solo pilota. Già dal via in Svizzera è l’argentino a portarsi a casa qualifica e vittoria, mentre Farina deve masticare amaro con un terzo posto dietro anche alla Rossa di Taruffi, ma non ha intenzione di rimanere a guardare tutto l’anno. Torna a vincere un Gran premio a Spa, quando Fangio ha problemi alla ruota durante un pit stop, rifilando distacchi abissali alle Ferrari di Ascari e Villoresi in una giornata fortemente segnata dall’umidità che costa ben otto cambi pneumatici all’Alfa. Si tratta comunque di un piccolo momento di gloria all’interno di una stagione contrassegnata dalla lotta al vertice tra Fangio e il Cavallino rampante e con soli altri due terzi posti in Italia e Spagna chiude la classifica generale solamente in quarta posizione.

    A fine anno arriva la sofferta decisione di cambiare scuderia e team, così lascia l’Alfa Romeo per passare a casa del suo altro grande maestro: Enzo Ferrari. Il nuovo regolamento ha permesso in quel di Maranello di dare vita a una macchina eccezionale, la Ferrari 500F2 che riesce a creare distacchi abissali sulla concorrenza, ma in quella squadra il leader indiscusso è Alberto Ascari. Farina però vuole sfruttare il Gran premio di apertura in Svizzera per vincere, contando anche la non partecipazione del compagno milanese, ma non va oltre la pole position del sabato perché un problema meccanico lo costringe al ritiro e così, una volta rientrato il primo pilota, è un suo dominio. Ascari vince le restanti sei gare e Nino gli fa da fido scudiero riuscendo in ben quattro occasioni a portarsi a casa un ottimo secondo posto, oltre che a un’altra pole a Silverstone, chiudendo dunque nella posizione d’onore dietro all’irraggiungibile compagno di squadra. Gli anni passano anche per i grandi campioni e il 1953 segna l’inizio della sua ascesa nel magico mondo della neonata Formula 1, ma vuole a tutti i costi regalarsi un ultimo successo in carriera da dedicare al grande Enzo. Ascari è ancora l’uomo più veloce di tutti, con il rientro di Fangio è fondamentale non far perdere punti preziosi al milanese e dopo un anno dominato manca solo la matematica per confermarsi il migliore al mondo al Nürburgring, quando ci si trova ancora al terz’ultimo circuito. Nelle qualifiche Alberto è devastante guadagnando un vantaggio di quasi quattro secondi sul Chueco, ma in gara è costretto a fermarsi per un problema al motore e così deve essere Nino a fermare il tentativo di rimonta dell’argentino. Grazie a una straordinaria partenza era riuscito a superarlo e a mettersi in seconda posizione, con il ritiro del compagno capisce che può tornare a vincere un Gran premio e inizia a correre di grinta e passione come ha sempre fatto, anche se alle volte corre dei rischi inutili. Quel giorno però nulla si può mettere tra lui e la vittoria e rifila più di un minuto di vantaggio a Fangio vincendo così per l’ultima volta in carriera una gara di Formula 1. È il suo vero ultimo Mondiale, perché nei due anni successivi si presenterà ai box Ferrari in sole cinque occasioni, riuscendo però ancora a togliersi qualche soddisfazione e stabilendo a Buenos Aires, nel 1955, uno stranissimo record. Le condizioni climatiche torride presenti nella Capitale argentina avevano costretto la stragrande maggioranza dei partecipanti a prendersi un cambio durante la gara, come capitò allo stesso Farina che entrò a far parte sia del gruppo che chiuse secondo, con González e Trintignant, e anche terzo, sempre con il francese e Maglioli.

    Ferrari lo adorava anche se gli ha sempre rimproverato quel suo modo di fare spesso troppo irruento e alla ricerca dello spettacolo, perché Nino è stato uno splendido esteta della velocità. È diventata famosa la frase del Drake quando disse:

    Era l’uomo dal coraggio che rasentava l’inverosimile. Un grandissimo pilota, ma per il quale bisognava stare sempre in apprensione, soprattutto alla partenza e quando mancavano uno o due giri all’arrivo. Alla partenza era un poco come un purosangue ai nastri, che nella foga della prima folata può rompere; in prossimità del traguardo era capace di fare pazzie, ma, bisogna pur dire, rischiando solo del proprio, senza scorrettezze a danno di altri. Così, aveva un abbonamento alle corse dell’ospedale.

    Forse è proprio in queste righe di uno dei grandi maestri della Formula 1 che si può spiegare perfettamente chi è stato e cosa ha rappresentato, perché anche una volta terminata la sua carriera non riuscì a modificare la sua guida e questo gli fu fatale. A costargli la vita è stato un incidente stradale proprio mentre si stava dirigendo a Reims per assistere al Gran premio del 1966 e da allora riposa in pace nel cimitero di Torino.

    Un ragazzo nato tra le macchine da corsa, un’intera esistenza dedicata alla velocità e alla realizzazione del suo più grande sogno. Ha amato la vita come pochi altri hanno saputo fare, baciato anche da quel talento naturale che lo ha reso per sempre un immortale della Formula 1. È stato il primo in tutto, prima pole, prima vittoria di un Gran premio e soprattutto primo Mondiale vinto, perché dopo di lui ce ne sono stati tanti, ma nessuno è arrivato prima di Nino Farina.

    1951, 1954-1957:

    Juan Manuel Fangio, El Chueco

    È stato il pilota più vincente per mezzo secolo in Formula 1, è stato il punto di riferimento con il quale tutti hanno sempre dovuto confrontarsi nel corso della storia e, prima del nuovo millennio, nessuno è mai riuscito a superarlo. Un esempio di dedizione alla causa e di incredibile abilità al volante che gli hanno permesso di diventare il primo vero imperatore in Formula 1. Juan Manuel Fangio non è semplicemente stato un pilota incredibile, capace di inventare traiettorie difficili solamente da pensare, ma è anche colui che ha permesso a questo splendido stile di gare automobilistiche di diventare lo sport straordinario e globale che conosciamo oggi. Perché per appassionare la folla e il popolo è fondamentale avere subito a che fare con un mito da venerare.

    Nato a Balcarce, una cittadina vicina a Buenos Aires, ha chiare origini italiane, i genitori erano nati a Castiglione Messer Marino, in provincia di Chieti, e il padre Loreto aveva raggiunto nonno Giuseppe che era già partito per il Sudamerica riuscendo a crearsi una sua fattoria. Dal suo amore per Herminia, anche lei di origine abruzzese, nacque il piccolo Juan Manuel nel 1911, il quarto di sei figli, e quegli erano gli anni del boom del fútbol in Argentina. La grande quantità di europei che stava cercando fortuna nel Nuovo Continente portò con sé anche la passione per questo sport nato in Inghilterra circa mezzo secolo prima e che stava per rivoluzionare il mondo. Anche il piccolo Fangio è decisamente affascinato da questo pallone che rotola e i racconti dell’epoca vogliono che sia pure abbastanza bravo, tanto da essere in grado di dare un particolare effetto con il piede sinistro alla palla e per farlo doveva piegarsi leggermente tanto che sembrava storcersi, da qui nasce il soprannome che lo accompagnerà per tutta la vita: El Chueco. Sembra esserci un futuro radioso per lui, ma ecco che la malasorte lo colpisce nel 1927 con una gravissima polmonite, contratta proprio al termine di una partita, e per i primi giorni è costretto a barcamenarsi tra la vita e la morte. La madre non lo molla per un istante e sono due mesi lunghi dove regna la paura, ma Manuel è forte e, dopo sessanta giorni di totale inattività, può finalmente tirare il tanto atteso sospiro di sollievo, per il calcio, però, non c’è più scelta e deve sospendere per sempre la sua attività preferita. Per sua fortuna con il lavoro in officina, che già ha iniziato nel 1924, riesce a distrarsi imparando a guidare quelle vetture così rare in quegli anni. Questa sua esperienza si rivela estremamente utile quando, nel 1932, viene chiamato alla leva obbligatoria e diventa ben presto l’autista personale del comodamente, forse non il compito più ambito per un ragazzo di soli ventun anni, ma senza dubbio molto meno stressante e impegnativo rispetto a quelli ai quali erano chiamati gli altri cadetti.

    Tornato a Balcarce capì quale fosse la sua strada e così, grazie anche all’aiuto dei genitori, riuscì ad aprirsi un suo garage dedicandosi sì alla riparazione delle vetture, ma anche e soprattutto alla creazione di una propria macchina da corsa. Dopo aver svolto i primi percorsi vicino alla propria cittadina, riesce a farsi notare nel 1936 da grossi investitori del settore e inizia così a guidare una Ford Model A nei campionati nazionali, fino alla consacrazione nel 1940 con la Chevrolet. A entrare nel mito è stato senza dubbio il «terribile calvario», come venne definito dallo stesso Fangio, del Gran premio del Norte, una devastante traversata del continente iniziata da Buenos Aires e terminata a Lima prima di far ritorno nella Capitale argentina, per un assurdo conto totale di diecimila chilometri. Inutile dire che i problemi erano all’ordine del giorno, prima di tutto i continui sbalzi di temperatura dal caldo torrido dei deserti all’umidità delle foreste, senza considerare poi un incidente con la macchina di un comune cittadino in Bolivia. Dopo quindici giorni di inferno e di agonia è lui però il primo di tutti a tornare dove tutto era iniziato e dopo quell’esperienza nulla poteva spaventare El Chueco; quelle gare erano davvero al limite della follia umana e qualche anno dopo una rischia di diventare fatale. La sospensione delle attività causa Seconda guerra mondiale blocca per molti anni Manuel e probabilmente l’astinenza dalle corse gli ha fatto dimenticare quel terribile tragitto e così, nel 1948, decide di iscriversi alla Buenos Aires-Caracas-Buenos Aires, per un totale di poco superiore ai 9500 chilometri. Guidare di notte è sempre un rischio, soprattutto durante la traversata peruviana vicina all’oceano Pacifico, e con una fitta nebbia dove risulta impossibile vedere ecco arrivare l’errore fatale. Fangio prende troppo velocemente una curva e cade da un burrone causando ferite importanti a se stesso e, soprattutto, al suo copilota Daniel Urrutia; la corse all’ospedale di Chocope è disperata ma per l’amico è troppo tardi. La tristezza e lo sconforto sono enormi e per quel ragazzo di origine italiane sembra veramente giunto il momento di dire addio al mondo delle corse. Qualcuno però ha bisogno che il nome dell’Argentina venga tenuto alto: il capo di Stato Juan Perón lo porta nella sua neonata scuderia e, alla guida di una Maserati, lo spedisce in Europa per farsi onore portando gloria a tutta la Nazione perché ormai si fanno sempre più insistenti le voci della nascita di un nuovo tipo di corse.

    Nel 1950 ha inizio il primo storico Mondiale di Formula 1 e i suoi trentanove anni lo portano a essere uno dei più anziani del circuito, ma tale è la sua classe che nel primo anno europeo era stato in grado di mettersi in mostra come uno dei migliori piloti in circolazione e così è l’Alfa Romeo a portarlo a Milano alla guida della più importante monoposto dell’epoca. Il Biscione vive i momenti di maggior splendore nella propria storia e la prima annata è un dominio senza discussione della scuderia meneghina che deve solo capire chi dei suoi tre piloti di punta può diventare campione del mondo. Il primo Gran premio della storia viene disputato a Silverstone, il 13 maggio 1950, e le prime quattro posizioni sono tutte Alfa: Nino Farina ottiene la prima pole position della storia staccando Manuel di soli quattro decimi, al terzo posto dietro a Luca Fagioli, e i tre continueranno a darsi battaglia anche il giorno dopo. Le distanze restano sempre minime e non sono rari i cambi di posizione in vetta, ma al giro numero sessantadue ecco il fattaccio con la vettura dell’argentino che accusa problemi di lubrificazioni ed è così costretto al ritiro quando si trovava in piena corsa per il primo posto. Farina vince completando la doppietta del giorno prima ma El Chueco non ha assolutamente voglia di fare il comprimario e, sapendo che le occasioni a sua disposizione non sono tante, riesce a rifarsi già a Montecarlo con un fine di settimana da incorniciare. La sua prima pole position non è per nulla risicata, anzi, dimostra di essere uno schiacciasassi e al compagno di squadra torinese infligge un pesantissimo distacco di due secondi e sei decimi mettendo subito le cose in chiaro su chi fosse Juan Manuel. Ad aiutarlo nella rimonta in classifica generale arriva anche la dea bendata, sotto forma del suo connazionale González che si scontra con Nino eliminandolo dai giochi dopo solo un giro, e la scalata di Fangio al primo trionfo è entusiasmante dato che riesce a doppiare anche il grande Alberto Ascari, che chiude secondo con la sua Ferrari.

    Un campione che aveva appena iniziato a mettere il turbo e che dimostra già nella prima stagione di avere una marcia in più sui rivali, solo la foga lo limita. In Svizzera conferma la pole position ma è Farina a vincere perché El Chueco non riesce a gestire la sua monoposto e un problema elettrico lo porta al secondo ritiro stagionale, permettendo così al suo principale rivale per il titolo di ritornare con nove punti di vantaggio. Mancano solo tre Gran premi al termine e un doppio zero, in un Mondiale fatto esclusivamente di sei gare, è un duro colpo; per provare a vincere serve il guizzo del campione che arriva già in Belgio, quando il sudamericano riesce a bruciare in partenza il proprio compagno, andato in pole il giorno prima, mantenendo per tutta la giornata il primo posto, nessuno può immaginare che quello è il giorno della vittoria del pilota piemontese. I problemi di trasmissione lo avevano rallentato, ma aveva dimostrato grande senso tattico capendo che ogni punto sarebbe stato prezioso e così non si interessa più della vittoria, punta a chiudere con un prezioso quarto posto che regala tre punti d’oro. Al momento sembra essere di fronte alla grande rimonta di Fangio che a Reims compie l’ennesimo capolavoro del Mondiale portandosi a casa pole, con quasi due secondi di vantaggio sul principale rivale al titolo, e uno straordinario primo posto dando un margine di oltre venticinque secondi a Fagioli secondo, con Nino costretto al ritiro. Manca un solo circuito e Manuel è per la prima volta in vetta alla classifica generale con due punti di vantaggio sull’altro suo compagno Fagioli e addirittura quattro su un Farina, passato persino al terzo posto.

    Sarebbe stata proprio Monza, la terra più amata dalle automobili italiane e distante pochi chilometri dalla sede dell’Alfa Romeo, a decretare il primo campione del mondo della storia e sicuramente sarebbe stata una festa per la scuderia di casa, ma come fare a dimostrare che non ci sarebbero stati dei favoritismi nei confronti di qualcuno? La dirigenza era orgogliosa dei propri piloti e per questo motivo decide di fare estrarre a sorte a tutti e tre il numero di monoposto da utilizzare in gara per dimostrare trasparenza e lealtà nei confronti di tutti. Non è l’unica novità di giornata perché l’Alfa Romeo 158, che è stata indiscutibilmente superiore rispetto alle altre, si era già evoluta in quella 159 che fa il suo debutto proprio nel circuito lombardo e a Fangio la monoposto piace tantissimo: ottiene l’ennesima pole position staccando Farina di un secondo e otto decimi e Fagioli di addirittura cinque secondi e sette decimi. La nuova vettura ha creato non pochi problemi ai due italiani, tanto che al secondo posto si è piazzata la Ferrari di Ascari e una folla festante è pronta a conoscere il primo campione della storia. Il più battagliero è Farina, che riesce subito a prendersi la prima posizione, ma a Manuel in questo caso basterebbe anche il secondo posto perciò continua a guidare con tranquillità fino al giro ventiquattro dove si rompe il radiatore della sua vettura. È la fine del sogno Mondiale, rientrato ai box si scambia con la vettura del compagno Taruffi, tra i fischi del pubblico, ma la monoposto non è la stessa dei tre che si contendevano il titolo e comunque, a fine Gran premio, i punti sarebbero stati dimezzati. El Chueco riesce a risalire fino alla seconda posizione dopo una decina di giri ma il motore è stato decisamente portato ben oltre il proprio limite e la sua rottura porta alla definitiva conclusione dei suoi sogni di gloria.

    La 159 sembrava però essere costruita su misura per lui e, soprattutto, era stato chiaro a tutti che l’unica cosa che poteva tenerlo dietro ai suoi rivali in pista erano dei problemi meccanici. La stagione 1951 parte quindi con l’argentino grande favorito, anche perché Farina e Fagioli dimostrano di non trovarsi pienamente a proprio agio con la nuova monoposto; ora il pericolo non è più interno ma è rappresentato dal ferrarista Alberto Ascari. Già dal primo Gran premio in Svizzera il sudamericano si dimostra smanioso come non mai di vincere, rifacendosi così dello smacco subito la stagione precedente, e a Berna si porta a casa pole e vittoria senza dare possibilità di replica ai rivali. I problemi meccanici però continuano a bersagliarlo, come a Montecarlo quando si ritrova una ruota incastrata durante il rientro ai box, oppure a Reims dove subentra nella vettura di Fagioli per poter proseguire e vincere il Gran premio, ottenendo però solo cinque punti dei nove totali. Qualcosa a Milano si è inceppato e la conferma si ha a Silverstone dove la battaglia per la vittoria finale è tutta argentina tra Manuel e il ferrarista González, è una gara meravigliosa ed emozionante con i due connazionali che continuano con sorpassi e contro sorpassi fino a quando la Rossa riesce a dare la staccata decisiva e vincere il primo Gran premio della sua storia, che coincide inevitabilmente con la prima storica sconfitta dell’Alfa Romeo in Formula 1.

    Sembra essere il definitivo crollo del mito e l’ulteriore conferma si ha al Nürburgring, dove González e Ascari dominano le qualifiche relegando Fangio così solamente al terzo posto, solo la fortuna corre in soccorso del Chueco. A vincere è ancora la Rossa, ma questa volta con l’italiano ed è una grande notizia dato che la Ferrari non riesce a dare continuità di risultato con lo stesso pilota e così il vantaggio sul milanese, a due soli Gran premi dalla fine, è di undici punti. Basta dunque una vittoria a Monza per riprendersi quello che gli era stato tolto l’anno precedente, ma l’Italia continua a risultare amarissima per l’argentino. La qualifica era stata molto promettente, grazie all’ottimo vantaggio di quasi due secondi ottenuti dal suo principale rivale, ma in gara è la scuderia di Maranello a dettare un ritmo insostenibile e Fangio è costretto a inseguire le due vetture rivali portando a un surriscaldamento eccessivo del motore, tanto da mandarlo in fumo, si ritira così ancora una volta da quella che sembra essere una pista maledetta. La vittoria di Ascari accorcia le distanze a soli tre punti, saranno quindi Pedralbes e la Spagna a incoronare il nuovo campione del mondo al termine di una battaglia epica e memorabile. La sensazione che possa arrivare la seconda beffa consecutiva sembra diventare una certezza a termine delle qualifiche con l’italiano che supera Fangio di quasi due secondi e guadagna la pole position che lo avvicina al titolo, ma la Ferrari commette un clamoroso harakiri. La scelta di montare gomme più larghe in vista della gara è un regalo tanto inatteso quanto gradito e, dopo soli quattro giri, è Fangio ad aver preso il comando della gara imponendo un ritmo insostenibile per l’ottimo avversario che subisce addirittura due doppiaggi. Questa volta è tutto vero. È stato un Mondiale soffertissimo e difficilissimo, iniziato dando l’idea di essere una semplice passeggiata ma che invece si è trasformato in un’interminabile corsa a ostacoli, ricca di trappole e insidie. Quel giorno in Catalogna era l’ora del Chueco, finalmente sul gradino più alto, per la prima volta campione del mondo.

    Tutti erano in palpitante attesa per la stagione successiva, per rivedere l’attesissimo duello tra i due campioni, ma a bloccare tutto c’è ancora la maledetta Monza durante una gara di Formula 2. Partecipare a una corsa all’ultimo minuto è sempre un rischio, e la stanchezza gli giocò un bruttissimo scherzo portandolo a schiantarsi contro il muretto, volò fuori dalla sua vettura dando l’impressione che sarebbe accaduto il peggio. La paura è enorme ma alla fine se la cava solo con la rottura di una vertebra e tanto tanto riposo che gli costa la partecipazione al Mondiale 1952. Il suo accordo con l’Alfa Romeo è ormai giunto al termine e sono in tante a volerlo dalla propria parte, a bruciare la concorrenza è la Maserati che riesce a metterlo sotto contratto per il 1953, ma la A6GCM è un cantiere ancora ben lontano dall’essere completato. La vettura non è all’altezza della Ferrari di Ascari e, dopo tre Gran premi, la differenza è inquietante: tre successi per la Rossa e altrettanti ritiri per l’argentino, costretto quindi a correre solo per la gloria in tutte le restanti gare del Mondiale. Riesce a rimontare in classifica con tre secondi posti consecutivi tra Francia, Germania e Inghilterra e, finalmente, trova la tanto attesa rivincita su quel circuito che lo aveva fatto così penare. Alberto si è confermato per il secondo anno consecutivo campione del mondo e a Monza dovrebbe essere una semplice passerella, se non fosse che vuole vincere a tutti i costi davanti al pubblico di casa e la sua irruenza lo porta a una dura collisione con Farina, estromettendo entrambi dalla gara e permettendo così a Fangio di vincere comodamente due anni dopo l’ultima volta. Il successo finale gli consente addirittura di superare l’ex compagno Farina e di concludere così al secondo posto mettendo bene in chiaro a tutti come la voglia e la fame di successi non si era di certo interrotta nonostante i suoi quarantadue anni. All’orizzonte c’è una nuova straordinaria avventura.

    Dopo aver legato il suo nome all’Italia nei suoi primi anni in Formula 1, è da poco subentrata una nuova e interessante realtà dalla Germania destinata a cambiare completamente le gerarchie dell’epoca e non solo: la Mercedes. Le frecce d’argento hanno però bisogno di più tempo per poter iniziare il Mondiale e così a Fangio viene concesso di iniziare con la sua vecchia scuderia, quell’anno il sudamericano è assolutamente fuori categoria per tutti i suoi rivali e nessuno riesce a dargli fastidio, né su Maserati né su Mercedes. Con la 250F è grandioso in rimonta su Farina nel Gran premio di casa, a Buenos Aires, riuscendo a recuperare dalla terza posizione di partenza fino al successo, mentre a Spa è un martello pneumatico che non lascia scampo agli avversari prendendosi pole, giro veloce e vittoria senza che mai venga messo in discussione il suo dominio. È la sua seconda e ultima gara stagionale con la casa modenese prima di proiettarsi al futuro, sedendosi su una W196 che sa di rivoluzione creando un nuovo concetto di aerodinamicità che permette di volare annichilendo i rivali. Fangio è un campione tale da non aver bisogno di dover imparare a conoscere la nuova monoposto e nei primi tre Gran premi arrivano altrettante pole position, seguite da due vittorie nette e un quarto posto a Silverstone a causa di alcuni problemi tecnici. Su cinque gare ne ha già vinte quattro e tanto è il distacco dal ferrarista González che non lascia possibilità di replica al connazionale, El Cabezón però vuole provare a ritardare il successo finale ottenendo il primo posto nelle qualifiche a Berna relegando per la prima volta quella Mercedes in seconda posizione. È però solo un fuoco di paglia perché pronti via ed ecco che la freccia d’argento torna al comando per non lasciarlo più, infliggendo al ferrarista quasi un minuto di distacco, mettendo così il definitivo punto esclamativo su chi fosse il più forte della stagione 1954. Mancano ancora due Gran premi alla fine, ma ormai la storia è già stata scritta perché è El Chueco, per la seconda volta, a diventare campione del mondo con un vantaggio che non si era mai visto in passato.

    Il 1955 vede la conferma in tutto e per tutto della W196, il divario costruito sulle rivali è tale da rendere assolutamente dominante ancora una volta la Mercedes. Fangio è a dir poco eroico nella gara di debutto, nella sua Buenos Aires, quando sbaraglia non solo la concorrenza ma anche, e soprattutto, il caldo torrido tremendo che si abbatte sulla Capitale argentina che costringe la maggior parte dei piloti a doversi dare il cambio per riuscire a portare a termine quella gara devastante. Lo fanno praticamente tutti, ma l’idolo di casa, e campione del mondo, non può di certo permettersi di omologarsi alla massa. La sua Mercedes è in ottime mani e al traguardo è impressionante il vantaggio di quasi un minuto e mezzo sulla Ferrari seconda, risulta ancora più stupefacente constatando che è stato in grado di dominare con così tanto distacco nonostante la monoposto sia stata guidata da González, Farina e Trintignant per arrivare fino in fondo. A fare paura quell’anno c’è la Lancia di Alberto Ascari anche se quell’epico duello sta per terminare per sempre, la morte del pilota lombardo nell’autodromo di Monza lascerà un enorme vuoto nel cuore dell’argentino. I due, infatti, erano rivali solamente in gara, fuori erano uniti da una vera amicizia oltre che da un incredibile rispetto che unisce due miti intramontabili dell’automobilismo. La scuderia torinese è troppo segnata dal lutto e praticamente dà l’addio al Mondiale, non presentandosi in Belgio, e di fatto consegna a Fangio il suo terzo titolo iridato, quello del record che fino a quell’anno condivideva proprio con Ascari. Il sudamericano vince largamente sia in Belgio sia in Olanda prima di chiudere al secondo posto ad Aintree, dietro al compagno Stirling Moss, ed è proprio in Gran Bretagna che arriva il successo matematico. Lo stesso londinese sembra essere stupito da quel risultato e, a fine gara, si avvicina proprio al Chueco per chiedergli se fosse stato colpito da generosità nei suoi confronti, concedendogli la vittoria davanti al suo pubblico, e la risposta è più chiara che mai: «No, oggi sei stato tu il migliore». La verità non la si saprà mai, ma quello è il giorno del trionfo Mercedes per il secondo anno consecutivo, e questa volta non deve essere condiviso con la Maserati come l’anno precedente. La Germania è diventata una solidissima realtà anche in Formula 1, eppure stava per accadere l’impensabile che avrebbe stravolto per sempre il mondo delle corse. Durante la 24 ore di Le Mans è Pierre Levegh a perdere il controllo della propria Mercedes 300SLR e l’impatto contro il muretto, a oltre duecentocinquanta chilometri orari, è devastante, con conseguenze mai più replicate nella storia dell’automobilismo. Il pilota muore sul colpo e la vettura diventa una sorta di mitragliatrice impazzita con pezzi che volano da ogni parte causando l’uccisione addirittura di ottanta spettatori, in assoluto la più grande disgrazia di sempre. L’avvenimento sconvolge la casa tedesca che inizialmente ritira le vetture dalla corsa, negando a Fangio quella che sembrava essere una sicura vittoria, e dopo qualche mese arriva la decisione definitiva di non correre più con il proprio marchio. Passeranno oltre cinquant’anni prima di un ritorno sui propri passi in quel di Stoccarda, ma intanto il tre volte campione del mondo si trova incredibilmente senza una monoposto a poche settimane dall’inizio del Mondiale 1956.

    Dopo il dramma di Alberto Ascari la Lancia aveva deciso di defilarsi dalle corse, ma la propria D50 era sicuramente una monoposto di grande valore ed estremamente performante e così in quella stagione viene donata alla Ferrari che, per onorare al meglio il compianto milanese, decide di accaparrarsi le prestazioni del Chueco che accetta di buon grado. La voglia e la determinazione di portare al trionfo la vettura del suo amico scomparso era tanta, forse anche in tutto il circuito della Formula 1 c’era la speranza di una sua vittoria e questo porta a qualche abbuono non di poco conto. L’esempio lampante lo si ha durante il primo Gran premio della stagione, nella sua Buenos Aires, dove un problema tecnico lo costringe a rientrare ai box prima del tempo per dare il cambio al proprio compagno Luigi Musso per poter ripartire. Nulla di strano e di irregolare, se non fosse che dopo soli quattro giri un suo errore in curva, proprio in quella dedicata ad Ascari, lo porta a sbandare e finisce fuori pista, ad aiutarlo a uscire dal pantano di pensa il pubblico di casa. Azione palesemente non consentita, nonostante ciò riesce a proseguire la corsa iniziando un duello all’ultimo respiro con Stirling Moss e, nel tentativo di mantenere la posizione, è l’inglese a rompere il motore regalando all’argentino il successo. La Maserati è furibonda per l’accaduto e chiede giustizia ma la Federazione che fa orecchie da mercante e conferma il successo in pista. È chiaro che quello non sarà un anno semplice. I problemi si ripetono a Montecarlo dove questa volta è Fangio a danneggiare la vettura portandola al ritiro e questa volta è Collins a fermarsi per farlo subentrare, la rimonta però è imperfetta e si chiude con un secondo posto che fa sorridere Moss. La macchina è veloce e performante, eppure l’argentino sembra proprio non esserci con la testa quando bisogna entrare in zona punti.

    Nei primi quattro Gran premi riesce a ottenere sempre la pole ma, dopo i problemi nelle prime due prove, ecco il crollo a Spa, con la rottura della trasmissione che lo costringe al ritiro, seguito immediatamente dai problemi meccanici a Reims che lo confinano in un misero quarto posto. Fangio è nervoso e non riesce a nasconderlo, tanto che accusa la dirigenza della Rossa di non aiutarlo nella difesa titolata, anche perché in Belgio e in Francia è il compagno Collins a trionfare e a portarsi in vetta al Mondiale, con sei punti di vantaggio sul compagno di squadra a tre gare dal termine. La Ferrari ora doveva gestire due galli in un pollaio, da una parte il giovane rampante di venticinque anni voglioso di diventare per la prima volta campione e dall’altra il navigato lupo di mare che, a quarantacinque anni, non aveva la benché minima idea di alzare bandiera bianca. In questa situazione però non va dimenticata la Maserati di Stirling Moss che a Silverstone vuole fare la voce grossa andandosi a prendere la pole position, ma la scuderia modenese ha grandi problemi di gestione e così è Manuel a volare verso il primo vero successo stagionale che lo porta ad accorciare sul compagno di squadra. Vincere aiuta a vincere, ed è così che al Nürburgring arriva un trionfo sensazionale condito da pole position, giro veloce e un primo posto favoloso ottenuto con oltre quarantasei secondi di scarto su Moss secondo, mentre Collins è costretto al ritiro già all’ottavo giro. Con la sola Monza da doversi ancora disputare, sono ben otto i punti di vantaggio sull’inglese e sul francese Behra che, a suon di piazzamenti, è rimasto sempre nelle prime posizioni. Il margine dava sicuramente tranquillità, ma il circuito lombardo è stato croce e delizia per la sua carriera e ancora una volta sta per rivelarsi fatale. Al giro ventitré Behra è costretto al ritiro, uscendo quindi dalla corsa al titolo, ma solo dodici passanti successivi lo sterzo della sua D50 crolla improvvisamente e quando la Ferrari richiama ai box Musso per il cambio vettura arriva il clamoroso rifiuto del romano che, trovandosi inaspettatamente terzo, non vuole perdere quella grande occasione. Sembra la fine per il grande campione, Moss è primo con Collins lì, alle sue spalle, pronto a balzare in testa visto che la vittoria lo consegnerebbe alla storia come campione, eppure ecco che accade l’impensabile. Peter decide di fermarsi e dare il cambio alla leggenda delle quattro ruote dicendogli una frase che, tra mito e realtà, è diventata iconica e splendida descrizione di quello che era il mondo delle corse negli anni Cinquanta: «Maestro, sono ancora giovane e avrò tempo per vincere un titolo, lei forse no, prenda la mia auto e vinca». Il destino però sa essere veramente crudele e non rende giustizia ai grandi uomini perché solo due anni dopo Collins perderà la vita a seguito di un incidente durante il Gran premio di Germania, aveva solo ventisette anni, non riuscendo mai a coronare quel grande sogno di diventare il migliore di tutti. Risalito a bordo della sua D50, Fangio riesce a ottenere il secondo posto e a laurearsi così per il terzo anno consecutivo campione, il quarto della sua fantastica carriera. L’anno in Ferrari era stato trionfale ma allo stesso tempo travagliato, il rapporto tra l’argentino e il grande Enzo non fu mai dei migliori e quando a fine anno El Chueco batté cassa la separazione fu la logica conseguenza.

    Fangio ormai non è più giovanissimo da qualche anno, ma finché è sulla cresta dell’onda non vuole abdicare e così decide di far ritorno a uno dei suoi più grandi amori: la Maserati. È anche un modo per placare le polemiche e i malumori del Gran premio di Buenos Aires dell’anno precedente e a Modena, nel 1957, hanno fatto veramente le cose in grande. La 250F non ha rivali e bisogna solo capire chi vincerà tra Manuel, Moss, Behra, o se verrà fuori qualche altra sorpresa dalla scuderia. Il ritorno a casa lo galvanizza e diventa inarrestabile già dalla sua gara preferita ottenendo subito la vittoria nella sua Argentina. Va a Montecarlo e a Rouen dove ottiene pole e successo e, dopo tre circuiti, sembra già essere tutto in cassaforte con il sudamericano che è troppo più forte rispetto alla concorrenza. La rottura del motore in Gran Bretagna gli costa il successo, ma al Nürburgring è pronto a compiere un vero e proprio capolavoro tattico e di guida. Prima della gara decide di studiare approfonditamente la strategia delle Ferrari di Hawthorn e Collins, capisce che sfrutteranno una tattica sulla distanza, senza effettuare soste, per questo decide di anticipare la concorrenza riempiendo solo metà serbatoio per prendere velocità. L’idea paga ma al tredicesimo giro i meccanici Maserati non riescono a svitare una ruota e gli fanno perdere un’infinità di tempo facendolo passare da un vantaggio di trenta secondi a un ritardo di quarantotto dalle due Rosse. A quel punto Fangio ha un solo obiettivo in testa: vincere per diventare quel giorno un cinque volte campione del mondo. Rientrato dai box è una furia e il ritmo che inizia a imporre è devastante riuscendo a effettuare il giro più veloce in ben nove occasioni solamente nei dieci giri successivi, realizzando una rimonta incredibile. Il primo che gli si para davanti è Collins e il sorpasso è da pelle d’oca. Il rettilineo sotto la galleria non è certo il più indicato per scambiarsi le posizioni, eppure l’argentino dimostra di avere un coraggio leonino e, buttandosi a tutta velocità, riesce a rimanere in pista e superare l’inglese guadagnando così una posizione prima della seconda straordinaria stoccata. Hawthorn viene prima avvicinato e poi superato all’interno in una curva strettissima che costringe El Chueco a piazzare due ruote sull’erba per evitare il contatto. La rimonta è completa ed è arrivata al termine di una gara pressoché perfetta che lo porta, per la quarta volta consecutiva, sul trono di migliore al mondo. Non ci sono discussioni su chi abbia dominato la stagione e il 1957 si tinge ancora una volta con i colori festanti dell’Argentina: è sempre e solo Juan Manuel Fangio l’eterno imperatore della Formula 1. Sembra incredibile, e nessuno al momento lo può sapere, ma quel capolavoro in Germania rimarrà anche la sua ultima vittoria di sempre in Formula 1, dato che a Pescara e a Monza si accontenta di due secondi posti dietro a Moss. È la fine di un mito che adesso, ormai vicino ai cinquant’anni, ha capito che non è più il caso di continuare a sforzare il suo corpo e così, nel 1958, corre solo a Buenos Aires e a Reims; proprio in Francia, una volta sceso dalla monoposto, affermerà la fatidica frase: «È finita». Continuerà ancora la sua vita nel mondo dell’automobilismo perché un amore così grande e così forte non può essere sopito, ma in quel 1958 era davvero arrivata la fine di un’era straordinaria e magica. Morì nel 1995, all’età di ottantaquattro anni, nella sua Buenos Aires, quando ancora era il più grande vincitore di tutti i tempi.

    Pilota dal talento naturale, pioniere della Formula 1 ai suoi albori e uomo capace di straordinarie imprese riuscendo sempre a rialzarsi, anche dalle peggiori cadute. Ha segnato indiscutibilmente un decennio e si è consacrato al mondo come un punto di riferimento dell’automobilismo che ha permesso a milioni di giovani di appassionarsi a questo splendido e meraviglioso sport. Senza di lui, forse, non sarebbe stato lo stesso, senza di lui non avremmo toccato con mano fin da subito l’essenza del mito, ma per tutti gli anni Cinquanta lui era lì a trasformare l’impossibile in possibile e a costruire uno straordinario impero, l’Impero del Chueco Juan Manuel Fangio.

    1952-1953:

    Alberto Ascari, un mito italiano

    Un uomo nato già con i guanti da pilota e il casco in testa, un uomo che ha rivoluzionato per sempre il mondo dei motori, un uomo pronto a ogni possibile rischio per poter superare qualsiasi limite. È stato uno dei più grandi pionieri della Formula 1 e il suo straordinario talento è stato fondamentale per la crescita di questo sport. Alberto Ascari ha fatto appassionare tutta l’Italia alle sue imprese e il tragico finale che lo ha coinvolto è entrato tristemente nelle più significative e dolorose perdite nel mondo dello sport nazionale. Sono passati tanti anni da quel fatale incidente, ma i miti e le leggende rimangono sempre impresse nel cuore della gente.

    Nato a Milano nell’estate del 1918, proprio quando la Prima guerra mondiale era prossima alla conclusione, tocca immediatamente con mano i primi prototipi di vetture ad alta velocità. Il padre Antonio è infatti uno dei più grandi piloti dell’epoca, una passione che gli impedirà di veder crescere il proprio figlio perché perde la vita in occasione del Gran premio di Montlhéry. Il piccolo Alberto ha solo sette anni il giorno della tragedia e la mamma Elisa cerca in tutti i modi di allontanare il figlio dal proseguire le orme del padre, ma è già troppo tardi. Quel breve periodo li aveva fortemente uniti e il bambino voleva a tutti costi emulare le gesta gloriose del padre per rendere sempre più accesa e viva la memoria. Il suo cognome importante è senza dubbio un lasciapassare nei grandi circoli automobilistici, il padre, fra le altre cose, era stato anche un grande amico di un giovane ragazzo cresciuto in Emilia e che avrebbe fatto la storia delle quattro ruote: Enzo Ferrari. Nonostante le strade fossero aperte per un suo immediato inserimento nel mondo dell’automobilismo, decise inizialmente di virare sul motociclismo e a diciannove anni era già una splendida realtà. L’esordio con la Bianchi arriva nel 1937, quando ha soltanto diciannove anni, e i risultati sono subito di rilievo. La scuderia milanese lo relega inizialmente come pilota di scorta eppure, nel 1938, in cinque gare disputate riesce a conquistare il podio al primo posto in ben due occasioni. Le moto erano sicuramente affascinanti e Ascari aveva grande talento anche con le due ruote, ma dentro di sé c’era una passione che non poteva più essere sopita e così è proprio Ferrari a convincerlo a seguire le orme del padre.

    La paura per la sua prima nella Mille Miglia del 1940 è enorme e gareggia nella categoria 1,5 litri con l’Auto Avio Costruzioni 815. L’inizio è dei più promettenti. Alla partenza a Brescia scatta bene e nei primi chilometri mantiene il primato, fino a quando un guasto meccanico non rovina la giornata costringendolo al ritiro. La Seconda guerra mondiale però è ormai in pieno svolgimento e non vi sono possibilità di poter continuare a correre, inoltre la sua officina diventa un importante punto di riferimento per l’esercito italiano: qui gran parte dei veicoli militari vengono riparati ed è costante il rifornimento che viene spedito alle truppe impiegate nella campagna africana tra Libia ed Egitto. Sono anni molto difficili, anche perché Milano è una delle città più colpite dai bombardamenti ma, nonostante il Belpaese stesse passando uno dei periodi più bui e tormentati della propria storia, per Alberto c’è tanto da sorridere. Nel 1942, infatti, sposa il suo grande amore Maria Antonietta, per tutti Mietta, e dopo un solo anno nasce il piccolo Antonio, seguito nel 1947 dalla sorellina Patrizia. Ormai Ascari è un padre di famiglia, la guerra è finita e in Italia la fame e le difficoltà economiche la fanno da padrone, con due bambini piccoli non c’è tempo per le corse, e la carriera del figlio d’arte sembra già giunta al termine. Negli anni precedenti, però, aveva condiviso sogni e passioni con Luigi

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