Sfida per la vittoria
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Il 1938 è un anno memorabile per la storia del calcio italiano. La nazionale vince il mondiale in Francia, battendo in finale per 4-2 la temuta squadra ungherese e ripetendo la vittoria del 1934. Mussolini sfrutta prontamente l’eco di quel successo a scopi propagandistici: l’Italia è sul tetto del mondo. Ma il 1938 è anche l’anno delle leggi razziali fasciste e, come in ogni settore della vita sociale, anche nello sport ne pagarono le conseguenze tutti coloro che non erano “puramente ariani”. Così fu per gli allenatori Árpád Weisz (che troverà la morte in un lager) ed Egri Erbstein, costretti a lasciare il Paese di punto in bianco. Da quel momento la situazione politica e gli eventi precipitano, ma neanche l’entrata in guerra porterà alla sospensione del campionato. Il calcio continua a dare spettacolo anche sotto le bombe. Addirittura il 4 luglio 1943 viene assegnata la coppa Barbesino, disputata tra squadre appartenenti a varie divisioni militari e vinta dagli Automobilisti: solo cinque giorni dopo le truppe alleate sbarcheranno in Sicilia. Tante sono le storie di atleti, presidenti, tecnici che imbracciano le armi: calciatori soldati, marinai, fanti, alpini, bersaglieri, persino vigili del fuoco. Questo libro passa in rassegna gli eventi sportivi e le storie individuali, fortunate e sfortunate, degli uomini che fecero la storia del calcio negli anni più bui del fascismo e della seconda guerra mondiale.
Campioni e leggende, eroi e vittime: una storia di grandi successi calcistici negli anni più bui della storia d’Italia
Tra le vicende raccontate nel libro: Piero Rava, terzino della Juventus e della nazionale, volontario nella campagna di Russia Mario Pagotto, terzino del Bologna, deportato nel lager di Hohenstein Árpád Weisz, vincitore dei due scudetti come allenatore del Bologna, deportato ad Auschwitz Egri Erbstein, allenatore del grande Torino, vittima delle leggi razziali Valentino Mazzola, marinaio, attaccante, cannoniere del Venezia e del grande Torino Michele Moretti, il terzino partigiano che sparò al duce Il campionato di guerra e il campionato dell’Italia libera Il campionato Alta Italia vinto dai vigili del fuoco Il dopoguerra e il dominio del grande Torino
Renato Tavella
Nato a Torino e supporter bianconero DOC, dopo le giovanili esperienze calcistiche nella Juventus si è dedicato al giornalismo sportivo. Ha pubblicato vari libri, tra cui Un uomo, un giocatore, un mito: Valentino Mazzola, e i testi per l’infanzia Nel Paese di Giocapalla e Sei favole e una torta. Per la Newton Compton ha scritto Il romanzo della grande Juventus; Dizionario della grande Juventus; 101 gol che hanno fatto grande la Juventus; Il Libro nero del calcio italiano, Nasce un mito: Juventus!, Sfida per la vittoria e, insieme a Franco Ossola, Il romanzo del grande Torino (libro che ha ispirato la fiction televisiva RAI del 2005, Premio Selezione Bancarella Sport e Premio CONI) e Cento anni di calcio italiano (Premio Selezione Bancarella Sport e Premio Paladino d’oro della città di Palermo).
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Anteprima del libro
Sfida per la vittoria - Renato Tavella
Introduzione
Il 1938 fu un anno memorabile per la storia del calcio italiano. La nazionale vinse il mondiale in Francia, battendo in finale per 4-2 la temuta squadra ungherese, con due doppiette di Colaussi e Piola. La retorica fascista, che spingeva molto sulla competitività, soprattutto sportiva, sfruttò la vittoria a fini di propaganda. Vi furono foto ufficiali con Mussolini e cinegiornali per celebrare il trionfale ritorno in patria degli atleti vincitori. Ma il 1938 fu anche l’anno delle leggi razziali, che portarono, tra gli altri, alla fuga e alla successiva deportazione dell’allenatore Árpád Weisz.
Questa contraddizione tra eventi storici drammatici e successi sportivi è una costante del periodo 1938-1945. In Italia, in particolar modo, la passione per il calcio sembra non conoscere attenuanti, nonostante le bombe, la fame, l’occupazione straniera.
È significativo che l’entrata in guerra non comportò l’interruzione del campionato. Molte vicende singolari riguardano quei giocatori che indossarono la divisa militare e che però, al riparo dai rischi del fronte, continuarono ad allenarsi e a giocare le partite domenicali. Le diverse divisioni militari disputarono numerose sfide, avvalendosi di campioni come Valentino Mazzola, marinaio. Con l’Italia divisa si disputarono addirittura diversi tornei: quello a nord della Linea Gotica aveva i crismi di un vero e proprio campionato.
Calciatori vi furono sia tra i partigiani che tra i difensori della Repubblica di Salò. E le connessioni tra sport e storia sono davvero numerose e significative: Michele Moretti, l’uomo che sparò al duce eseguendone la condanna a morte, aveva giocato a lungo come terzino nella Comense.
Quelle che troverete nelle prossime pagine sono tutte vicende esemplari, nel bene e nel male, della storia di un periodo in cui davvero gioie sportive e tragedie umane si intrecciarono.
L’inizio della fine (1938-1940)
Autunno 1938
Un dovere sacrosanto
Era arrivato il momento di decidere: il servizio militare, prima o dopo, andava espletato, era un dovere sacrosanto. Questo pensava Piero con insistenza, in quei primi giorni d’autunno, parlandone sovente durante la cena con papà Carlo e mamma Margherita.
Le sorelle più grandi, Virginia e Celestina, si erano sposate da poco, così lui era rimasto il solo a vivere con i genitori nella nuova abitazione di via Drovetti, quasi all’angolo con corso Francia.
Una residenza scelta perché vicina alla stazione di Torino Porta Susa, dove il papà era un rispettato capostazione, e pazienza se ora a Piero toccava allungare per andare ad allenarsi. Soltanto un anno prima, invece, allo stadio Mussolini andava anche a piedi, tanto poco lontane erano le case dei ferrovieri in cui era cresciuto al polo Nord
, ovvero la zona cuscinetto di rare costruzioni e vasti campi aperti, che confinava con il popolare borgo San Paolo e con il quartiere aristocratico della Crocetta.
A ben guardare, adesso aveva perfino un’auto nuova e più veloce: allo stadio ci arrivava in meno di dieci minuti. Ceduta la Balilla anzianotta, acquistata con l’aiuto della famiglia dopo il diploma di geometra, viaggiava da alcuni giorni a bordo di una Topolino 9500 fiammante. L’aveva comprata con le ottomila lire ricevute dalla Federcalcio per aver vinto la coppa del mondo. Un premio consistente, se ne rendeva ben conto, per di più se pensava ai suoi amici delle case dei ferrovieri che cantavano speranzosi, a squarciagola: «Se potessi avere mille lire al mese…», ripetendo il ritornello in voga.
Il lauto compenso, tuttavia, l’aitante e poderoso terzino della Juventus Piero Rava riteneva di averlo giustamente meritato. Era stato infatti tra gli artefici indiscussi del successo della nazionale guidata da Vittorio Pozzo. Ricordiamoli, i protagonisti azzurri campioni del mondo 1938: Olivieri (Lucchese), Foni (Juventus), Rava (Juventus), Serantoni (Roma), Andreolo (Bologna), Locatelli (Ambrosiana), Biavati (Bologna), Meazza (Ambrosiana), Piola (Lazio), Giovanni Ferrari (Ambrosiana), Colaussi (Triestina). Completavano la rosa: Monzeglio (Roma), Ferraris
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(Ambrosiana), Pasinati (Triestina), Bertoni (Genova), Campatelli (Ambrosiana), Ceresoli (Bologna), Chizzo (Triestina), Genta (Genova), Masetti (Roma), Olmi (Ambrosiana), Perazzolo (Genova).
Uno squadrone, si usava dire all’epoca. Capace di zittire i prevenuti francesi padroni di casa, che fin dalla partita d’esordio avevano subissato di fischi gli azzurri. Al momento del saluto fascista da parte dei giocatori, prima di ogni calcio d’inizio, altri boati di disapprovazione si erano levati poi dai numerosi fuoriusciti italiani riparati in Francia all’avvento del fascismo. Salvo che in ultimo, per la finale, un po’ tutti si erano ammorbiditi, e avevano approvato con un caloroso applauso la vittoria della nazionale italiana sull’Ungheria per 4-2. L’Italia si era laureata campione del mondo per la seconda volta consecutiva, dopo il successo del 1934.
Al rientro la comitiva venne ricevuta a Roma, a Palazzo Venezia dal duce. Ossequiosi e militareschi saluti romani dei dirigenti accompagnatori, del tecnico Vittorio Pozzo e dei giocatori, una maschia stretta di mano di Mussolini che disse sbrigativo: «Bravo Rava!». A seguire furono scattate le foto ufficiali da tramandare ai posteri e fu consegnato il premio in denaro.
Era la seconda volta che Piero stringeva la mano al duce, che riceveva i complimenti dal capo del fascismo. Era già successo due anni prima, dopo il suo esordio in serie
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con la Juventus, la squadra che amava e in cui era cresciuto e si era messo in luce al punto da indurre Vittorio Pozzo a convocarlo per la squadra olimpica. Dovevano farne parte atleti di qualità che non avessero ancora giocato nella nazionale maggiore, meglio ancora se giocatori-studenti. E lui rientrava a buon diritto nella casistica: era di qualità calcistica superiore e non aveva ancora esordito in nazionale, per giunta era un universitario, iscritto alla facoltà di Economia e commercio.
L’avventura iridata dell’estate 1936, smentendo i pronostici pessimistici di giornalisti e tifosi, si concluse con il successo di Piero Rava e compagni. Nell’imponente stadio di Berlino, capitale della Germania di Hitler, di fronte a centomila spettatori l’Azzurra squadra goliardica – come veniva indicata dai giornali – sconfisse l’Austria 2-1 e in un tripudio si aggiudicò l’oro di Olimpia.
Un successo inatteso quanto straordinario, che il capo del fascismo volle celebrare, alla sua presenza, con una cerimonia in piazza di Siena a Roma. Il programma prevedeva anche la consegna di onorificenze per i componenti la squadra rossoblu del Bologna, vincitori dell’ultimo scudetto. Sfilarono dunque al cospetto di Mussolini i petroniani campioni d’Italia 1935-1936 con i dirigenti e l’allenatore Árpád Weisz. Ma la mascella del duce si fece ancor più volitiva e solenne allorché strinse la mano ai ventidue prodigiosi protagonisti dell’impresa olimpica: Venturini (Sampierdarenese), Foni (Juventus), Rava (Juventus), Baldo (Lazio), Piccini (Fiorentina), Locatelli (Ambrosiana), Frossi (Ambrosiana), Marchini (Lucchese), Bertoni
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(Pisa), Biagi (Pisa), Gabriotti (Lazio). Completavano l’organico: Negro (Fiorentina), Scarabello (Spezia), Cappelli (Viareggio), Girometta (Brescia), Giuntoli (Alessandria), Nicolini (Livorno), Petri (Lucchese), Puppo (Piacenza), Tamietti (Venezia), Vannucci (Pisa), Giani (Sestrese).
A soli ventidue anni, Piero Rava era già entrato a fare parte della più bella storia del calcio. Ma non aveva ancora espletato il servizio militare e prima o poi doveva decidersi, era un dovere sacrosanto. Né gli sembrava leale chiedere un ulteriore rinvio per motivi di studio, dato che tra allenamenti e partite l’università la frequentava oramai di rado. Dopo un ultimo scambio di vedute con papà e mamma decise di servire la patria: il giorno appresso avrebbe fatto la richiesta, in quanto universitario, di entrare a fare parte della Scuola ufficiali di Torino.
Al Littoriale di Bologna
Il robusto terzino Mario Pagotto, campione d’Italia 1937-1938 con il Bologna, il servizio militare l’aveva concluso da alcune stagioni. Era stato congedato nel 1932 e aveva lasciato la caserma degli alpini, dov’era di stanza, per fare ritorno a Fontanafredda, il paesino in provincia di Udine in cui era nato e viveva con i genitori e cinque fratelli. Una famiglia semplice, di contadini, che si strinse felice intorno a Mario quando nel 1933 debuttò nel Pordenone, e che due anni dopo l’accompagnò da lontano con apprensione e gioia allorché raggiunse Bologna per il provino e fu ingaggiato dalla società emiliana. L’assenso al suo tesseramento venne ratificato dal tecnico Árpád Weisz in persona.
Ungherese di Solt, cittadina distante un centinaio di chilometri da Budapest, Weisz contava su un discreto passato da giocatore ma, soprattutto, aveva mostrato una caratura superiore attraverso i prestigiosi risultati ottenuti come tecnico.
Esponente di quel calcio danubiano a cui guardavano con interesse i movimenti del football di tutta Europa, venne assunto una prima volta dall’Ambrosiana nel 1926-1927 e nella stagione successiva mise a segno un colpo passato agli annali: nel corso di un torneo estivo disputato a Como, scoprì il diciassettenne Giuseppe Meazza e non ebbe remore a lanciarlo in serie
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. Il Pepp lo ripagò segnando due reti d’autore. Che diventarono trentuno, elevandolo al rango di capocannoniere, nel campionato 1929-1930, vinto dall’Ambrosiana allenata appunto da Weisz e ricordato, in particolare, per essere stato il primo torneo a girone unico.
Peppino Meazza, in un lampo, venne ribattezzato il Balilla e fu innalzato a emblema sportivo del fascismo, anche con l’ausilio di accostamenti pubblicitari – ben pagati – che affiancavano il suo volto sorridente a brillantine, dentifrici e altri prodotti.
Mario Pagotto, in quel periodo ancora sprovvisto di abbinamenti pubblicitari e senza alcun soprannome, stava intanto intensificando il suo tirocinio sportivo a Pordenone e sognava, sperava di riuscire presto a giocare anche lui contro Meazza.
Come la maggior parte degli sportivi italiani, Mario conosceva di fama il Balilla e Árpád Weisz, di cui leggeva le gesta sulla «Gazzetta dello Sport», dalle cui pagine apprese, con sorpresa e inquietudine, che l’allenatore ungherese era stato ingaggiato per guidare il Bologna solo alcune ore prima che anche lui ricevesse la desiderata convocazione della società emiliana per un provino.
Nell’estate del 1935 il buon Mario – il suo vero nome era Rino, ma in famiglia e per tutti era Mario – conobbe finalmente da vicino il tecnico magiaro. L’incontro avvenne negli spogliatoi del Littoriale, l’impianto in mattonato rosso ai piedi di San Luca, qualche minuto prima di sfilare in campo per la prova. Prova che Mario Pagotto superò, come già scritto, con il benestare autorevole di Weisz.
Il tecnico, tuttavia, di lì a poco disse a Pagotto, senza giri di parole, che lo considerava «un prezioso cavallo da tiro, ma non sarebbe mai diventato un purosangue».
Giusto il contrario di quel che dichiarava a proposito del terzino titolare: «Fiorini, per molta parte della stagione è sempre in forma. Durante questo periodo non si passa e ne sanno qualcosa i suoi avversari. Copre i cento metri in undici secondi, salta in alto e in lungo come uno specialista, quando spicca il volo per prendere un pallone alto pare di vedere una scultura, talmente perfetto è il suo gesto armonico».
I calorosi tifosi bolognesi, che ogni giorno si davano appuntamento al Caffè Otello di via Orefici, al pari di Weisz avrebbero voluto Dino Fiorini in nazionale al posto di Piero Rava. Ma era il suo stile di vita, dicevano, a bocciarlo nella considerazione severa di Vittorio Pozzo. A Dino piacevano le ragazze ed era fin troppo contraccambiato; spavaldo, viaggiava sempre in moto o guidava una Lancia fuoriserie; e poi al Conte Spazzola – così era chiamato per i capelli impomatati – mica gliela potevi tagliare quella sua lingua lesta e sfrontata.
Dino Fiorini era nato nel 1915 a San Giorgio di Piano, un paese distante una manciata di chilometri da Bologna che diede i natali anche a Mario Melloni, il giornalista polemista dell’«Unità» meglio conosciuto come Fortebraccio, nonché all’attrice Giulietta Masina, moglie del regista Federico Fellini. Con i rossoblu aveva mosso i primi passi calcistici ma la mamma Argentina, vedendolo abbandonare la scuola per giocare al pallone, si era preoccupata. Da tipica donna emiliana, pratica e senza peli sulla lingua, non aveva avuto tentennamenti a dire al presidente Dall’Ara che suo figlio non doveva giocare, doveva piuttosto lavorare «per portare a casa dei soldi». Il presidente si era messo a ridere di cuore e aveva risposto: «Signora mia, suo figlio i soldi li guadagnerà proprio dando dei calci al pallone».
Renato Dall’Ara era di Reggio Emilia. Aveva l’occhio lungo e sapeva muoversi nell’ambito del regime: dal nulla si era arricchito con un’azienda di produzione di maglieria, diventata tra le più importanti d’Italia. Precettato alla presidenza dal Partito nazionale fascista, a quel tempo l’autentico proprietario della squadra petroniana, aveva sostituito Gianni Bonaveri nel 1934 e subito si era trovato a gestire una grana: Monzeglio, il terzino campione del mondo e tra i pilastri dell’ultimo scudetto, voleva trasferirsi alla Roma, dove avrebbe guadagnato molto di più.
Facciamo un passo indietro e poi uno in avanti.
Aveva percorso parecchia strada, Eraldo Monzeglio, dal giorno in cui lasciata Vignale Monferrato, dov’era nato nel 1906, era stato assunto come operaio alla Eternit di Casale. Giovane diciassettenne, venne visto con riguardo da Umberto Caligaris, il leggendario difensore della Juventus e della nazionale, al tempo architrave dei nerostellati casalesi. Il popolare Caliga gli fece da padre calcistico e lo accompagnò all’esordio in serie
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con il Casale.
Nel destino di Eraldo vi era però Bologna per il servizio militare e successivamente un decoroso ingaggio da parte della squadra rossoblu. Nel 1935, quindi, quando Eraldo era giunto alla soglia dei trent’anni, gli offriva dei quattrini sonanti Antonio Scialoja, il presidente della Roma. La giallorossa squadra della capitale, dove pulsava l’epicentro del fascismo a cui Monzeglio aderiva, senza riserve, in maniera convinta. Sportivo a tutto tondo e uomo leale e coerente con le proprie idee, riconoscente a chi gli aveva fatto del bene, quando di lì a pochi anni, nel 1940, seppe della morte improvvisa di Caligaris, si precipitò al funerale e acquistò subito la tomba vicina a quella dell’amico, per esservi un giorno seppellito accanto.
Chiamato a decidere sul trasferimento di Monzeglio alla Roma, il presidente Dall’Ara, notoriamente sensibile alla voce incassi-spese, diede il consenso e di fatto spalancò a Fiorini il posto di terzino titolare nel mitico Bologna che «tremar il mondo fa». Ovvero la squadra che Dino da bambino, accompagnato dal papà Cesare, aveva ammirato al vecchio campo Sterlino vincere i titoli negli anni Venti sotto la guida tecnica di Hermann Felsner, un austriaco colto e geniale che aveva indirizzato il successo dei gloriosi Angiolino Schiavio e Gianni detto il Gatto magico, Gasperi il Terzino volante, Muzzioli soprannominato Teresina e poi Geppe Della Valle, Eraldo Monzeglio e ancora gli altri epici rossoblu.
Nel nuovo e moderno stadio Littoriale, dove ai piedi della fallica Torre Maratona campeggiava una gigantesca statua equestre di Mussolini, anche Dino aveva cominciato a scrivere pagine gloriose per la leggenda del suo Bologna. La squadra allenata mirabilmente da Árpád Weisz che interruppe la tirannia della Juventus del quinquennio anni Trenta, conquistando due scudetti consecutivi: nel 1935-1936 e nel 1936-1937.
Nel 1936-1937 la coppia dei terzini titolari era formata da Fiorini e Gasperi. Indisposto quest’ultimo, il tecnico ungherese fece esordire Mario Pagotto nel tandem difensivo con Fiorini.
Nessuno lo sapeva, né poteva immaginarlo, ma quel giorno un sottile filo del caso e del destino unì Weisz a Pagotto e a Fiorini.
Piazza Maggiore in festa
La prima avvisaglia della piega che avrebbero preso gli eventi si ebbe nell’autunno del 1938, allorché il tecnico ungherese, constatata l’indisponibilità di Fiorini, modificò l’assetto della squadra inaugurando un’inedita retroguardia Pagotto-Ricci. La nuova coppia difensiva debuttò il 16 ottobre 1938, alla quinta giornata di campionato, vincendo al Littoriale contro la Lazio. Dopo la vittoria, Árpád Weisz sparì all’improvviso da Bologna.
Ignorò l’accaduto il «Resto del Carlino», il quotidiano caro ai bolognesi. L’assenza di Weisz fu notata però dai tifosi presenti allo Sterlino, il vecchio stadio divenuto campo d’allenamento.