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24 storie di bici
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E-book314 pagine3 ore

24 storie di bici

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Info su questo ebook

Un viaggio che inizia in una bottega immaginaria, quella di Beccaris, meccanico mantovano, che ripara biciclette da cinquan'anni, ma che prosegue raccontando le storie vere di personaggi che hanno fatto delle due ruote la loro scelta di vita: dal mago dei telai ai riders del teatro, dalla recordwoman al viaggiatore in solitaria tra i ghiacci della Siberia. 24 storie che si susseguono a ritmo di pedale e dalle quali la bici emerge come risorsa economica in costante crescita, strumento di svago e di attività sportiva, sempre più mezzo di trasporto non inquinante grazie anche alla pedalata assistita. Quello della bici è un mondo variegato e ricco di sorprese, che si lega al passato e si apre al futuro, con promesse di sostenibilità e di ritrovata armonia con la natura.

La bici è quella cosa che,
forse, un giorno ci salverà.
Dario Pegoretti

LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2021
ISBN9788863458848
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    Anteprima del libro

    24 storie di bici - Alessandra Schepisi

    Il prodotto bici

    — 1 —

    La Storia in una bottega

    Danilo Collalti

    Tutti mi chiamano Beccaris, ma non è il mio vero nome. Quando ho aperto bottega e partita Iva ho scelto il nome di questa via: Cicli Beccaris. Mi pareva suonasse bene. Ho lavorato una settimana per costruire l’insegna con i neon e ci ho speso una cifra, una cifra notevole, ma dicono che l’immagine è importante, che l’abito fa il monaco.

    Primo errore: per due anni dall’apertura i neon non li ho mai accesi perché era vietato sprecare energia in austerity.

    Secondo errore: non ho buttato l’insegna, così costosa e ben fatta, quando il comune di Mantova ha cambiato nome alla via. Così ho anche scoperto chi fosse il generale Fiorenzo Bava Beccaris, quello che nel 1898 «ha vilmente trucidato 83 persone colpevoli solo di reclamare un pezzo di pane» (citazione della professoressa Corà, cliente con bici a telaio Rondinella e retina elastica salva-gonna).

    Così, a distanza di cinquant’anni, mi ritrovo con il nome di questa canaglia e con un segreto da custodire.

    Cinquant’anni sono passati; anzi quarantotto per l’esattezza, da quel 2 dicembre 1973, la prima domenica di austerity. Avevo aperto il negozio il giorno prima. Me la ricordo bene quella domenica, e mi ricordo bene anche il suo odore. Perché si pensa che la città possa avere solo quello dei tubi di scappamento e dei gas di scarico, ma quando i motori si spengono, gli odori cambiano improvvisamente e viene fuori il profumo del pane fresco appena sfornato, dei mercati rionali, la fragranza del caffè, le note verdi dei viali alberati.

    Ecco, io me li sento addosso gli odori di quella domenica. Quello del caffè, poi, non ne parliamo. Non potrei stare senza caffè io. Ora che i bar sono chiusi per la pandemia, mi attacco come non mai alla mia vecchia moka. E poi non solo gli odori, anche i suoni, lo scampanellio delle bici, il vociare dei bambini, come se si fosse sollevato un velo.

    A ricordarmi tutto questo, ogni giorno, c’è una foto che ho appesa qui in bottega: una signora felice a cavallo, padrona di una strada vuota di macchine con un tram che sferraglia in lontananza. Nelle domeniche di austerity c’erano cavalli, ma anche monopattini, pattini, portantine, carriole, risciò. Le strade erano invase dai trabiccoli più strani. Biciclette, poi, non ne parliamo. Qualcuno disse che l’inventiva degli italiani aveva superato ogni limite. Io dico che quelle domeniche alla fine hanno portato uno sprazzo di felicità. E a me anche tanta fortuna.

    Già il primo giorno avevo la fila di gente che voleva comprare una bici o far riparare la propria impolverata e acciaccata, tirata fuori dal sottoscala. Insomma, ho cominciato proprio alla grande.

    Mi ha portato tanta fortuna anche nella vita perché in una di queste domeniche mi sono trovato la morosa. Era freddo, ma giravamo dalla mattina alla sera in bici insieme, assomigliava a Sylva Koscina, ancora adesso le somiglia tantissimo, ma lei si arrabbia quando glielo faccio notare, siamo ancora insieme. In quei giorni era disorientata perché era appena arrivata a Mantova dalla Calabria; anch’io ero spaesato dal salto che m’aveva portato lì da Roma.

    Accanto alla foto della signora a cavallo, ne ho appesa un’altra che ho scattato qualche giorno fa per le strade della mia Mantova: anche qui poche macchine e saracinesche abbassate per il coprifuoco. Allora era per la crisi energetica, oggi per la pandemia. E di nuovo la bici padrona delle strade.

    Avevo diciassette anni quando ho aperto il negozio. I miei erano appena rientrati a Mantova, dopo aver passato anni felici nella Capitale. Ho dovuto seguirli controvoglia, mi sembrava impossibile trovare un altro mondo, altri amici fuori da Roma. A pensarci, sorrido e guardo le radici che oggi mi legano a questa meravigliosa città racchiusa tra i tre laghi.

    L’unica cosa del periodo romano che oggi ricordo con estrema chiarezza sono le estati delle scuole medie passate a dare una mano nel negozio più antico della città: Bici Collalti. Lo stesso negozio dove poi ho lavorato tre anni da garzone. A imparare con gli occhi, come si diceva allora.

    Quella bottega è sempre lì, a due passi da Campo de’ Fiori, gestita sempre da un Collalti – Danilo – con il figlio Cristiano che gli dà una mano. Una storia che vi voglio raccontare. Mettetevi comodi, accendete la radio e seguitemi.

    Quanto sei bella Roma in bici

    Danilo Collalti, classe 1968, gestisce insieme a suo figlio Cristiano, il negozio che porta il nome della sua famiglia: Collalti bici in via del Pellegrino 82, il più antico di Roma, forse il più antico d’Italia, fondato nel 1899 da Rinaldo, allora appena quattordicenne, e che attraverso quattro generazioni ha visto la Prima guerra mondiale, il fascismo, il secondo dopoguerra, la ricostruzione e infine la pandemia. La storia d’Italia attraverso la bicicletta.

    Danilo, come è nato il negozio?

    Mio nonno Rinaldo cominciò con quaranta bici a noleggio: le costruiva, le riparava e insegnava anche ai reali ad andarci. All’epoca la bicicletta era uno status symbol, costava tanto e il ricco la voleva avere, ma non era capace e allora mio nonno si era inventato le lezioni private.

    Le costruiva proprio lui con le sue mani?

    Sì, completamente… ho ancora il vecchio tornio che usava mio nonno, funzionante, la macchina per la sella, quella per i cerchi, tutto. Con il tempo aveva costruito una piccola azienda; anche perché aveva sei figli e ognuno aveva cominciato presto a fare la sua parte. Poi c’è stata la Seconda guerra mondiale e lì la famiglia ha fatto la sua scelta politica, quella di schierarsi contro il fascismo. Iniziarono a non mandare i figli alla scuola del Duce. Mio nonno li mandava a quella privata per non dovergli mettere la camicia nera. Piano piano la cosa si è evoluta, sono entrati nella Resistenza, facevano parte dei Gap, i Gruppi di resistenza patriottica.

    Un giorno d’inverno li vennero a prendere, era il 4 gennaio 1944. Mio nonno Rinaldo e suo figlio Luigi vennero deportati: sessant’anni uno, trent’anni l’altro. Partirono dalla stazione Tiburtina, li spedirono al campo di sterminio di Mauthausen, poi ad Auschwitz e infine a Linz, insieme ad altri quattrocentosettantotto poveri uomini. Tornarono in diciotto, come i mesi di prigionia che si fecero. Mio nonno e mio zio resistettero perché erano operai e quindi lavoravano nelle aziende che costruivano armi. Erano tornitori e si occupavano dei percussori per pistole e fucili. Erano molto bravi e hanno resistito fino all’ultimo. Poi, quando la guerra è finita, furono liberati e tornarono a casa. Mio zio morì dopo cinque giorni, per via degli stenti. Mio nonno, invece, ha resistito, nonostante fosse il più anziano del campo e avesse ormai sessantadue anni.

    Loro la Resistenza l’avevano fatta con Antonio Giolitti e Trombadori che erano parte del gruppo a cui facevano riferimento. È stata una famiglia molto attiva e hanno sempre avuto un negozio di biciclette. I fratelli hanno continuato l’attività anche sotto la guerra, le due ruote erano particolarmente richieste, l’unico modo di spostarsi era quello.

    Quale materiale veniva usato per la bici?

    Sempre le classiche tubazioni. Quando non si trovava più nulla, mio nonno andava dai vecchi stracciaroli. All’epoca si andava da quelli che avevano il deposito del ferro, si prendevano le reti dei letti che avevano tubi di spessore e robustezza simili a quelli dei telai da bici, si smembravano e si tornava a saldare. Poi lui le verniciava da solo, come poteva, con quello che trovava. Le selle se le stampava, poi il tappezziere gli faceva tutta la cucitura; le manopole erano quelle dell’epoca, di panno o di legno, qualsiasi cosa. I raggi se li faceva da solo, con il tornio e una macchina apposita; toccava agli adulti saldarli, perché era il lavoro più pericoloso. Il più giovane, quello che aveva più tempo, si metteva a fare le nipples, i piccoli e strani dadi che tengono avvitati i raggi al cerchione. C’era pure una gerarchia legata all’età, alla difficoltà e alla pericolosità dei singoli lavori che concorrevano alla realizzazione dell’intera bicicletta.

    All’epoca queste biciclette chi le comprava?

    Durante la Prima guerra mondiale in tutta Roma c’erano poche macchine, quindi erano soprattutto i reali e i ricchi a comprare le biciclette. Dopodiché, piano piano, la bici ha cominciato a essere utilizzata anche dalle persone benestanti. Era uno status symbol, poi è diventata una necessità. Come accade oggi, del resto. A un certo punto, con l’avvento del boom economico, la bicicletta diventò il mezzo di trasporto della povera gente. Ora le ragioni sono diverse perché è l’unico mezzo per muoversi in sicurezza ed evitare il contagio.

    Il negozio è sempre rimasto aperto o per un periodo è stato chiuso?

    Il negozio è stato chiuso dalla fine del 1941 fino alla metà del 1942. Poi ha riaperto per qualche mese con la produzione, la riparazione, la vendita, il noleggio, tutto ciò che poteva portar soldi. Poi la guerra ha fatto il resto. Per via dei bombardamenti nessuno poteva più circolare, quando hanno ripreso a pedalare le biciclette divennero utili per consegnare volantini e informazioni ai partigiani. Mia zia era ostetrica, oltre a dare una mano in negozio, curava le mogli dei partigiani e le faceva partorire. Avendo accesso ai medicinali non era soggetta al coprifuoco e quindi girava in tutta libertà a tutte le ore del giorno e della notte.

    Per fare il volantinaggio, mio nonno prendeva le biciclette, faceva un rotolo di carta, lo metteva sotto il tubo della sella e così si trasportavano le informazioni. Nel momento più difficile furono scaricate proprio qui, in negozio, le armi della battaglia di San Paolo. Portate qui e smistate ai combattenti.

    Quella della mia famiglia è una storia importante, perché è sempre stata molto attiva nell’ambito delle due ruote. Una volta, sotto il fascismo, c’era il coprifuoco e avevano emanato un’ordinanza con il divieto di far viaggiare i veicoli a due ruote. Mi pare che fosse il 1944. I miei zii aggiunsero in officina una terza ruota, così la bicicletta poteva camminare. Erano fatti così: non stavano mai fermi.

    Invece tuo padre quando ha rilevato il negozio?

    Mio padre ha cominciato nel 1974, dopo la morte di mio nonno ultranovantenne, e ha continuato fino al 1986, perché poi ha avuto una brutta malattia: una sclerosi multipla. Quindi sono subentrato io, da giovanissimo, a sostituirlo come potevo. A sedici anni già lavoravo da solo in negozio.

    Qual è stata l’evoluzione del mercato dagli anni Settanta in poi?

    Ci fu un boom della bicicletta nel periodo dell’austerity: le due ruote presero molto piede per via della crisi petrolifera. Poi è stato un crescendo fino agli anni Ottanta. Successivamente c’è stata una fase di aggiornamento e progresso: nascevano le prime mountain bike, che venivano dall’estero, ci fu di nuovo un’esplosione delle vendite nel 1986, confermata nel 1990. Da lì in poi la bicicletta ha iniziato un trend di crescita regolare. Il boom vero e proprio, con vendite massicce, tanta riparazione e parecchio noleggio, c’è stato dal 2004 al 2008. Non si faceva in tempo a preparare e a mettere in mostra la bici, che era già venduta; era un costante riempire e svuotare il negozio di materiale. Un boom proseguito nel 2020 al quale hanno contribuito il bonus mobilità e la pandemia, con la paura del contagio e la necessità di scappare all’aria aperta.

    Come hai visto cambiare il cliente negli anni?

    È cambiato a partire dagli anni Novanta. Il cliente della domenica, che voleva solo noleggiarla perché non aveva la bicicletta, non la capiva, voleva però conoscerla. Per tanti anni, di venerdì, sabato e domenica eravamo aperti solo per il noleggio, e infatti eravamo sempre pieni. Poi piano piano il mercato si è riempito, la gente le bici le ha comprate, adesso il noleggio si è specializzato in maniera turistica, con la bici elettrica e in tanti altri modi.

    Prima, a capire la bicicletta era solo l’appassionato, adesso la gente la usa per andare a lavorare, per il tempo libero, ha addirittura più di una bicicletta: sportiva, city bike, elettrica o gravel

    Secondo te il boom di vendite di bici continuerà anche nei prossimi anni?

    Le vendite che si sono fatte con il decreto mobilità hanno dato un bell’incremento, anche se ormai il mercato è abbastanza saturo. Credo sia un’onda lunga, perché ci si muove in maniera diversa, e anche il comune di Roma lo ha capito progettando 150 chilometri di piste ciclabili che stanno ancora ultimando. Ho visto più persone vicino alla bicicletta. Per me è un’onda che durerà almeno due o tre anni, anche se si deve trovare una soluzione sui tempi di consegna del materiale perché la domanda è molto alta e la produzione spesso non riesce a starle dietro.

    Roma potrà diventare una città tipo Amsterdam?

    Sì, occorre solo organizzarla al meglio. Allora sì che l’onda di cui parlavo potrebbe diventare uno tsunami. Roma è bella a piedi come è bella in tram, perché riesci a vedere tutto, però in bicicletta è qualcosa di particolare. Potremmo essere veramente la Capitale del mondo se la bicicletta prendesse piede. Amsterdam e, Copenaghen, sono città piccole e molto piane. Roma ha i sette colli, è grande, è una città complessa, non ha ancora un’educazione civica adeguata, ma con la pandemia siamo un po’ tornati indietro negli anni, a quando, ai tempi del film Ladri di biciclette, le persone andavano in bici. Un mezzo povero che una volta acquistato pretende poco e riesce a dare tanto. Io ho visto molta gente tirare fuori dalle cantine biciclette che non usava da anni e che ha portato qui a riparare. Le persone hanno capito che ci si può muovere anche in bici come una volta, quando Roma era caotica, ma umanamente caotica e i rumori non erano i tubi di scappamento, ma le ruote delle carrozze trainate dai cavalli, le risate, le scampanellate.

    24 Storie Di Bici

    Sogno di tornare a una Roma

    umanamente caotica quando

    per le strade si sentivano le risate

    e le scampanellate.

    —Danilo Collalti

    24 Storie Di Bici IL MERCATO DELLA BICI

    La bicicletta negli ultimi anni stava già vivendo una fase di rinascita, ma la pandemia ha impresso una accelerazione. Desiderio di stare all’aria aperta, necessità di una mobilità in grado di assicurare il distanziamento sociale e il cosiddetto bonus bici, hanno portato a un incremento delle vendite. E tutto questo nonostante la chiusura della produzione per almeno due mesi imposta dal lockdown. Secondo l’Ancma, Associazione Nazionale Ciclo Motociclo Accessori di Confindustria, nel 2020 sono stati venduti 2.010.000 pezzi con un +17% sul 2019, dato non così lontano da quel 20% del 1973, anno della crisi petrolifera e delle domeniche senz’auto. Un mercato che vale 1,5 miliardi di euro, trainato soprattutto dalle e-bike con +44%, ma crescono anche le bici tradizionali, +14 per cento. Bene anche la produzione con un +6 per cento. L’Italia, con tre milioni di pezzi l’anno, resta il primo produttore europeo di bici, il sesto per fatturato dopo Portogallo, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Romania. Un mercato che, sempre secondo Ancma, dovrebbe tenere gli stessi livelli nel 2021 anche se la produzione, frenata dalla difficoltà di reperire la componentistica in gran parte delocalizzata in Asia, ora è in affanno e non riesce a stare dietro alla domanda crescente di bici. Dati in linea con quelli europei: per Conebi, Confederazione dell’Industria Europea della Bicicletta, il mercato ha segnato nel 2020 una forte crescita con oltre 21,5 milioni di bici vendute. Nei prossimi 10 anni gli europei dovrebbero acquistare 10 milioni di biciclette in più all’anno, arrivando nel 2025 a 25 milioni e nel 2030 a 30 milioni, con un +47% sul 2019: più del doppio del numero di automobili attualmente immatricolate ogni anno in Europa.

    — 2 —

    L’artista dei telai

    Dario Pegoretti

    Beccaris, eppure suona bene questo nome. Sento in questa esplosiva doppia c le mie due passioni più forti: i cicli e il caffè. La bicicletta e la pausa. Pausa (al massimo) di dieci minuti, dentro (al caffè concentrato) un mondo intero.

    «Acidità delicata, retrogusto con note fruttate e sentori di cioccolato fondente», è questo il mio preferito: Lazzarelle, caffè artigianale tostato nel carcere femminile di Pozzuoli. Il fornitore ufficiale è uno dei miei clienti più affezionati. Alberto, bici-stakanovista ungherese, freno a contropedale e portaracchetta da tennis. Me ne regala un pacco ogni volta che viene a pulire e a oliare la bici. E lo fa un giorno sì e un giorno no. Ora vorrebbe pure che gli riverniciassi il telaio, anche se è quasi nuovo. Per me è un delitto.

    Una bici, soprattutto quella di una certa età, nasce con una verniciatura che è parte integrante della sua storia. Ogni striscio è una medaglia, ogni acciacco la rende più affascinante. Come l’innamorata rimasta bellissima, che, mano nella mano, guardi negli occhi in casa di riposo.

    Alberto è passato oggi e l’ho invitato nel retrobottega per i miei dieci minuti di pausa. Lo faccio raramente con i clienti. Prima l’ho fatto sedere, poi gli ho offerto il caffè con tanto di cremina di zucchero montata a mano. Quindi ho provato a fargli cambiare idea, cominciando a spiegare il telaio, la sua nascita, la sua vita, che si può raccontare come la biografia di un’esistenza.

    Nel mio piccolo mi arrangio: aggiusto i telai di acciaio e ci provo con quelli di alluminio; il carbonio e il titanio non fanno per me. Non sono alla mia portata. Ma in Italia ci sono veri maestri artigiani che i telai li fanno da zero con le proprie mani: Pinarello, Cinelli, Colnago, De Rosa, Masi, Gios, Galmozzi e ci aggiungo pure Bonetti – e non i telai sgangherati da quattordici dollari l’uno, quelli usa, scoppia e getta¹.

    Con tutti quei maestri ho avuto la fortuna di scambiare chiacchiere e idee. E continuo a scambiarle con i loro figli: quelli di sangue, come Valentino Campagnolo, e quelli d’arte, come la miriade di telaisti che portano avanti la tradizione nei piccoli laboratori, con bici normali e bici strane.

    I grandi telaisti italiani sono sia dentro che fuori dal distretto della bicicletta e dei suoi componenti: tra Vicenza, Bassano e Treviso. A volte li si trova fino a Bologna o addirittura a Chieti, dove ci sono i border-line, quelli contagiati dai telai delle moto.

    Fino all’anno scorso, però, non avevo mai sentito parlare dei telai e della verniciatura di Pegoretti, poi ho capito perché. Le sue bici erano diverse da quelle che tengo in negozio, erano fuori dal mio mondo di limatori di tubi. Un altro livello: opere d’arte tecnicamente perfette, a cui il maestro aveva dato pure un’anima.

    L’ho capito ascoltando un’intervista alla radio e alla prima occasione mi sono fiondato a Verona nella sua bottega in Lungadige Galdarossa. Peccato che sia arrivato tardi: è morto il 23 agosto del 2018. Ma entrando nella Officina Dario Pegoretti ho visto che l’anima c’è ancora, custodita dai suoi quattro collaboratori che mi hanno accolto e fatto festa. Tra meccanici, subito pane, salame, un rosso da battaglia e musica jazz d’annata. Lì ho avuto la stessa sensazione, gli stessi brividi,

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