La filosofia della corsa: Fra benessere e libertà: lo sport che ti cambia la vita
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Anteprima del libro
La filosofia della corsa - Stefano Boldrini
Stefano Boldrini
La filosofia della corsa
Fra benessere e libertà: lo sport che ti cambia la vita
Ai sorrisi di Giulia e alla sua voglia di correre.
Capitolo primo.
La scoperta, le origini
Correre per strada negli anni Sessanta era sinonimo di stravaganza: chi lo faceva era considerato mezzo matto.
Il cinema aveva regalato con il film Mamma mia, che impressione!, nel 1951, una parodia: un giovane e biondo Alberto Sordi, canottiera a righe e pantaloncini neri, sgambettante in una gara di marcia lungo le vie di Roma per conquistare i favori della signorina Margherita
, è un’immagine cult.
Nel decennio dei Settanta, la pratica della corsa iniziò a diffondersi. Il termine più diffuso all’epoca era footing, anche se già circolava da tempo la variante jogging. Lo statunitense James Fixx pubblicò nel 1977 un libro sull’argomento: The Complete Book of Running. Fixx, che iniziò a correre per dimagrire all’età di trentacinque anni, in abbondante sovrappeso e fumatore accanito – quaranta sigarette al giorno – è uno dei pionieri della specialità. Perse trenta chili e abbandonò il tabacco, ma morì nel 1984, cinquantaduenne, stroncato da un infarto dopo la quotidiana seduta di allenamento. Pagò probabilmente lo stile di vita sballato che aveva preceduto la scoperta dello sport, ma la notizia, in un’epoca in cui non esistevano Internet e i social, offrì il pretesto per stroncare il footing da parte di chi continuava a ritenere una stramberia, se non addirittura pericolosa, la corsa.
Nel frattempo, il footing era stato soppiantato nella definizione dal jogging. Negli Stati Uniti, in principio si parlava di roadwork, prendendo spunto dalla preparazione su strada dei pugili. È in Nuova Zelanda che cominciò a circolare con forza il termine jogging: a coniarla, secondo le cronache, fu un coach, Arthur Lydiard.
Nella capitale dello Stato oceanico, nel 1962 era stato fondato l’Auckland Joggers Club, composto da gente che andava a correre con regolarità. Lydiard (1917-2004) è una figura leggendaria. Di professione calzolaio, amante in gioventù del rugby, rivoluzionò i sistemi di allenamento del dopoguerra, introducendo i principi base della distanza e della resistenza: i suoi atleti dovevano correre almeno 150 chilometri la settimana. Lui stesso iniziò a sottoporsi a sessioni di training sempre più lunghe, per sperimentare gli effetti delle sue metodologie. L’Olimpiade di Roma nel 1960 consacrò il suo lavoro con le medaglie d’oro conquistate da Peter Snell negli 800 metri e da Murray Halberg nei 5.000. Nei cinquantadue anni da coach, Lydiard lavorò in Messico, Finlandia, Venezuela, Australia, Danimarca, Turchia.
Ebbe un’intuizione futuristica: la corsa lenta e costante come terapia di recupero fisico per chi ha avuto un infarto. Il club fondato nel 1962 ad Auckland era composto infatti, almeno nella fase iniziale, da persone che avevano avuto problemi cardiaci. Nel corso del tempo, si unirono al gruppo nei giorni festivi intere comunità di persone: nonni, genitori, giovanissimi, donne.
Lydiard morì nel 2004 a Houston, in Texas, anche lui per un attacco di cuore, mentre era impegnato in un giro di conferenze. Aveva ottantasette anni e ad Auckland gli avevano già dedicato una statua nella pista di atletica della capitale. Un omaggio al creatore ufficiale del jogging, di cui il coach statunitense Bill Bowermann dell’Università dell’Oregon fu il migliore e il più entusiasta dei discepoli.
Bowerman pubblicò nel 1966 il libro Jogging, undici anni prima del best seller di Fixx dedicato al footing. I suoi programmi di allenamento, rivolti a uomini e donne, raccolsero ampi consensi negli States e, attraversato l’oceano Atlantico, si diffusero nel Regno Unito, dove il primo jogger britannico ufficiale, Alan Blatchford, creò un gruppo di appassionati corridori nella British Aircraft Corporation. Il club esiste ancora.
I tempi non erano però ancora maturi per fare del jogging una moda e uno stile di vita. Eravamo in piena Beat Generation: in quel contesto, il salutismo era un concetto lontano dalla cultura imperante. Dopo un decennio abbondante di eccessi e di vita sopra le righe, la pratica della corsa cominciò a ricevere consensi. Avere cura del proprio corpo non era più una cosa futile.
In Italia, le prime immagini di persone impegnate a correre per strada risalgono agli anni Settanta e riguardano esclusivamente uomini. Nel mio caso, ricordo un signore belga di mezza età che abitava a Tre Pini, quartiere di Roma collocato tra l’Eur e il mare. Lavorava alla Fao e si allenava nel week end, con la moglie e i figli che lo seguivano in bicicletta, nel tratto che porta verso la rotonda di Ostia, percorrendo la via Cristoforo Colombo. Andata e ritorno, venticinque chilometri circa. All’epoca, si poteva fare. Oggi, sarebbe un rischio enorme: la via Cristoforo Colombo è in cima alle classifiche degli incidenti mortali in Italia.
Guardavo la famiglia belga con curiosità. Correre mi aveva sempre affascinato. Mi piaceva la velocità, ma nel corso del tempo sviluppai la passione per il jogging, nonostante i piedi piatti e l’uso forzato dei plantari. Il vento in faccia, il senso di libertà, il trascorrere un’ora lasciando viaggiare la mente, il piacere di portare il proprio corpo a superare i propri limiti: sono state queste le molle e lo sono ancora oggi, trentasette anni dopo le prime sedute regolari di jogging.
Se devo fissare una data, dico infatti il 1987. Negli ultimi mesi di servizio militare, a Portogruaro, iniziai a correre con regolarità. Avevo voglia di sport in solitudine, al massimo con uno o due compagni di viaggio: non mi è mai piaciuta l’ammucchiata di joggers. Condivido in pieno il pensiero dello scrittore Haruki Mukarami, espresso in modo molto chiaro nel suo best seller L’arte di correre, testo che, colpevolmente, ho scoperto solo poco prima di realizzare questo libro, grazie a un’intuizione dell’amico-collega Antonello Guerrera di «Repubblica»: «Correre un’ora al giorno e garantirmi così un intervallo di silenzio tutto mio è indispensabile alla mia salute mentale».
Il primo percorso abituale fu il perimetro di un parco campagna, a Spinaceto, quartiere di Roma ispirato nella sua realizzazione da un progetto architettonico di edilizia popolare disegnato in Danimarca. Il circuito, ondulato, con un salitone finale, immerso nel verde, misura esattamente 1.609 metri: un miglio. Un percorso perfetto per allenarsi, sia sul piano tecnico – i saliscendi – sia su quello mentale, ma con i suoi problemi: i cani sciolti, qualche scriteriato che almeno all’epoca si avventurava sulla stradina asfaltata in moto, l’inciviltà delle persone che lasciavano i rifiuti. Si notava anche, in primavera, la totale assenza dell’ufficio giardini circoscrizionale. Il taglio dell’erba richiedeva tempi biblici. In uno dei primissimi servizi giornalistici, per una pubblicazione del quartiere, raccontai la mia visita all’ufficio competente. Descrissi gente che giocava a carte durante l’orario di lavoro. Il responsabile si lamentò e venne a cercarmi in redazione per spiegarsi, ma l’incuria continuò. Quel parco-campagna rappresenta, in ogni caso, l’inizio della mia storia di runner. Ho cominciato a scaricare il contachilometri in quei 1.609 metri. Avevo due compagni di avventura: Claudio Cavioli, ex steward e Antonio Falduto, regista cinematografico. Con Antonio, inseparabile, il suo cane, Chico, un Lassie
a pelo nero.
Il secondo boom italiano, negli anni Ottanta, che fece un giorno dire al premier Bettino Craxi: «Siamo la quinta economia del mondo, abbiamo superato la Gran Bretagna», fondato in parte sull’indebitamento dello Stato e di cui stanno pagando il conto le nuove generazioni, diede un netto impulso all’attività sportiva. Il nostro Paese ha storicamente occupato in Europa posizioni di retroguardia nello spazio dedicato allo sport a scuola, ma come sempre, all’incapacità e all’arretratezza del sistema, ha sempre risposto l’individuo. Un certo benessere dopo anni di cinghia stretta, le mode imperanti e il salutismo che si affacciava dopo il decennio delle droghe aumentarono la base dei praticanti. Il jogging fu una delle grandi novità.
Un’altra delle ragioni dell’exploit della corsa negli anni Ottanta, insieme al maggior benessere economico e al fiorire di manifestazioni, fu il medagliere degli Azzurri nei grandi avvenimenti sportivi: l’effetto imitazione
è sempre trascinante. L’oro di Alberto Cova all’Olimpiade di Los Angeles del 1984 (10.000), i trionfi di Stefano Mei (5.000) e Gelindo Bordin (maratona) agli Europei del 1986, i successi di Francesco Panetta (3.000 siepi) e Maurizio Damilano (20 chilometri marcia) ai Mondiali di Roma del 1987 e la vittoria di Gelindo Bordin nella Maratona Olimpica di Seul del 1988 diedero una spallata importante. In assoluto, l’icona di quell’epoca è il podio tutto azzurro agli Europei di Stoccarda del 1986 nei 10.000: Mei oro, Cova argento e Salvatore Antibo bronzo. Un’immagine che appartiene alla storia dello sport italiano.
Nella stessa rassegna, Laura Fogli conquistò l’argento nella maratona, concedendo il bis dopo il secondo posto agli Europei di Atene del 1982. Gli argenti della Fogli ruppero l’egemonia maschile. E aiutarono, in qualche modo, a propagandare la corsa anche tra le donne.
La Fogli aveva annunciato il boom del decennio nel 1981 con il quarto posto alla maratona di New York, al quale fece seguito l’argento nel 1983. I successi di Orlando Pizzolato nel 1984 e nel 1985, con il tris calato da Gianni Poli nel 1986, scatenarono l’entusiasmo dei runners. Gli italiani si scoprirono un popolo di maratoneti. Partecipare alla 42 chilometri di New York divenne l’obiettivo di migliaia di persone. Il fascino della corsa, partenza vicino al ponte di Verrazzano, arrivo nello scenario suggestivo di Central Park, attraversando Brooklyn, Queens, Manhattan, First Avenue, Bronx, Harlem e Fifth Avenue, è innegabile: reggono il confronto, per bellezza, solo le maratone di Londra e Roma. Il sogno di generazioni di podisti è stato quello di correre a New York e, per realizzarlo, hanno divorato migliaia di chilometri: all’alba prima di andare al lavoro, al tramonto o di sera al rientro a casa. Oggi il calendario podistico è affollatissimo, ma negli anni Ottanta, prendere l’aereo per andare negli Stati Uniti per correre, faceva ancora un certo effetto e aveva un costo non indifferente.
La gara di New York è la 42 chilometri più affollata del mondo. La prima edizione, nel 1970, registrò appena 127 iscritti. L’unica donna presente non riuscì a completare la prova, ma fu un fatto storico: appena tre anni prima, nel 1967, Kathrine Switzer, nata in Germania nel 1947 e cittadina statunitense, aveva corso la 42 chilometri di Boston, sfidando le regole che vietavano alle donne di partecipare alle maratone. Si era iscritta con uno stratagemma, indicando solo il cognome e l’iniziale del nome. All’altezza del terzo chilometro cercarono di fermarla, ma aiutata dal fidanzato, riuscì a proseguire la corsa con il numero di pettorale 261 e chiuse con il tempo di 4 ore e 20 minuti.
Il percorso della gara della Grande Mela, che la Switzer vinse nel 1974, si riassumeva in quattro giri e mezzo dell’anello esterno di Central Park. Poche centinaia di persone seguirono la manifestazione. Nelle ultime edizioni, secondo gli organizzatori, due milioni di cittadini newyorkesi si sono riversati nelle strade per incoraggiare i partecipanti. La maratona della Grande Mela è una festa, un immenso happening che colora la prima domenica di novembre: ha il senso di un annuncio dell’inverno, con gli ultimi raggi di sole prima dell’arrivo del freddo e delle bufere di neve.
In Italia, le grandi maratone si sono imposte in epoche più recenti. La prima in ordine cronologico, nelle città più importanti, è quella di Firenze: debuttò nel 1984 e vi parteciparono 850