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I luoghi salvavita: Isola d'Elba e Altrove
I luoghi salvavita: Isola d'Elba e Altrove
I luoghi salvavita: Isola d'Elba e Altrove
E-book197 pagine2 ore

I luoghi salvavita: Isola d'Elba e Altrove

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Cos’è un luogo salvavita? Esistono davvero dei luoghi che salvano la vita? Ognuno inventi i propri.
Catania, Roma, Torino, Isola d’Elba e Altrove: Elena, la protagonista, li percorre nel viaggio per ritrovare se stessa verso il luogo chiave, quello con orizzonti lievi e profondi come la Vita, di cui offre il senso, se non la soluzione.

«Ci sono luoghi che accompagnano i momenti di vita come amici fraterni: sono lì disponibili e segreti, affidabili e noti, come i libri nello scaffale, pronti a offrire forza senza pretendere nulla in cambio: sono i luoghi salvavita, o paracadute, o salvagente indispensabile al naufrago caduto in mare, prima che dalla nave se ne accorgano e lo traggano in salvo, oppure che egli stesso, se è forte nuotatore, guadagni l’approdo».
«I luoghi giusti, anche più volte gli stessi nel tempo di vita, sono le tappe al riparo di un percorso accidentato e risorse insostituibili per uscire alla luce dopo il black-out».
Isola d’Elba e Pianosa, l’Isola di Lussino, Torino e Candia Canavese, Roma e Catania, Courmayeur e la valle di Susa: Elena, la protagonista, li ripercorre indietro nel tempo, durante il viaggio per ritrovare se stessa che la condurrà, a sorpresa, nel luogo chiave, quello che, pur sospeso nel tempo e nello spazio come il Limbo, apre porte sconosciute e rivela orizzonti lievi e profondi come la Vita, offrendone il senso, se non la soluzione.

Enrica Zinno, architetto libera professionista, nata a Torino con forti radici elbane, opera per la sostenibilità ambientale e vive a Genova.
Ha pubblicato con Phasar: Terzo Millennio la Globalizzazione degli Animali, favola o realtà? (2010); le poesie Orme di Amore (2011); Sempre nidificano Cicogne, riscaldamento globale e ambiente tra favola e realtà (2014); Pianosa Utopia Sostenibile e La Cicogna bianca, biodiversità in pericolo, entrambi nel 2015.
I luoghi salvavita, Isola d’Elba e Altrove è il suo primo romanzo.
 
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2017
ISBN9788863584318
I luoghi salvavita: Isola d'Elba e Altrove

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    I luoghi salvavita - Enrica Zinno

    Primo luogo salvavita

    Catania: la scoperta di sé

    Intorno ai due terzi di vita, vicina al risultato ambito da ogni tennista, cioè imporre all’avversario un secco 6 a 0, ma anche al traguardo temuto come un rendiconto in salita, perché non è facile rispondere alla domanda davanti allo specchio: sei a zero o qualcosa hai combinato finora?

    In sintesi: prossima a un’età pericolosa, ma affascinante, dove tutto è già compiuto ma molto è ancora possibile se lo si affronta con slancio, inaspettatamente Elena iniziava a morire. La sua natura ottimista e positiva, anche se abituata al controllo di ogni istante perciò ansiosa ma determinata, non individuava più la rotta.

    Bussola e radar, cuore e cervello si erano come stancati di supportare l’impegno anche solo dell’entrare in campo.

    Non fisicamente Elena avvertiva il problema – il corpo si aggirava integro per la città –, era l’energia vitale che ogni giorno diminuiva. Si alzava piena di forza, allegra, propositiva e ora dopo ora si ritrovava spenta.

    Destabilizzante era anche solo un incontro imprevisto, una disattenzione, mille oggetti persi e poi ritrovati con ansia crescente, sensi di colpa, inutili rimpianti.

    La donna se ne accorse per la prima volta camminando sotto i portici del centro: la gente le pareva tutta uguale, i volti si confondevano uno con l’altro e tutti apparivano noti, già visti, senza sapere né dove né quando ciò fosse accaduto. Le sembrava di conoscere tutti e nessuno e che nulla fosse diverso da niente altro.

    I portoni, le finestre, i tetti, la cui articolata diversità le avevano reso la vita curiosa e rinnovabile pure nella quotidiana difficoltà, le parvero incolori e piatti come se i volumi si fossero improvvisamente annullati in superfici uniformi.

    Ne ebbe conferma quando si accorse di non fermarsi più davanti alle agenzie di viaggio – quei dieci, quindici minuti al giorno di totale relax fra un appuntamento di lavoro e l’altro – per coltivare la mente all’immaginazione di itinerari ipotetici in capo a mondo, boccate di ossigeno a smorzare la fatica del vivere e volano sicuro al sorriso.

    Non trovava più interessante andare da nessuna parte, se non dentro se stessa a scovare brandelli di entusiasmo che sentiva latenti, ancora, in qualche remoto anfratto di apatia.

    Non pensò di fermarsi: non era una malattia la sua; non pensò neppure di prendere i farmaci dell’oblio –come lo psichiatra a tratti le suggeriva –, non era una malattia, ne era certa, era la forza di vivere che le veniva a mancare, quella delle difficoltà superate dall’Amore con la A maiuscola, senza accontentarsi mai di surrogati; quella degli highligths di felicità che la sua naturale propensione al nuovo mai le aveva fatto mancare e che le faceva dimenticare le persone moleste.

    Malessere sottile e subdolo, era difficile perfino dargli un nome. Alla fine lo chiamò Disamore, quando davanti a una vetrina piena di promettenti vestiti e cappelli non ne riconobbe colori e contorni, solo lo sfumato disinteresse a entrare, acquistare qualcosa per sentirsi meglio e ancora bella. Le parole del sensibile poeta le risuonavano troppo spesso nella mente: Da troppo tempo bella, non più bella tra poco/ colei che vide al gioco la bimba Graziella!.¹

    Quante Grazielle aveva visto al gioco, aveva aiutato a imparare a tuffarsi, a nuotare, a crescere, a diventare donne coscienti di sé e della forza insostituibile della propria giovinezza?

    Troppe ormai.

    Incapace di pensare a se stessa, trovò nome alla sensazione estranea che la sua natura immaginosa e progettuale non riconosceva perché mai, prima di allora, l’aveva così concretamente toccata: se l’Amore non c’era, se lo era sempre inventato, in attesa del suo ritorno: a volte la natura o il lavoro, un nuovo sport, un libro, un viaggio da programmare, fosse anche quello di salire su un treno locale con i bambini e osservare stupiti le carrozze filanti, la stazione animata di passi in via vai, la costa ligure rocciosa dal finestrino, ricca di anfratti e prolifica di gabbiani, lo avevano evocato e resuscitato con successo.

    Se le persone le succhiavano energia fino a lasciarla inerte e incapace di reazione, col loro puntuale enfatizzare la ripetitività degli atti e la vanità innegabile della loro sostanza, mai per apprezzare la possibilità di migliorare i particolari, di costruire i dettagli fino a ridisegnare i contorni di ogni attimo e rinnovarne la forma e il contenuto, anche in quei momenti di equilibrio indifferente, l’Amore che è Vita, o la sua illusione, sempre l’avevano salvata.

    Talvolta accadeva ancora: la scoperta imprevista e incantevole del tempio greco romano, in un giorno di fine febbraio di anticipata primavera, a Catania, portatore di straordinaria bellezza, con la sua forma ad emiciclo di lava nera e marmo bianco ancora intatta dopo i restauri, con il palcoscenico creato sull’acqua per gli spettacoli a ispirazione marina, l’avevano, per un paio d’ore, rianimata e riportata all’epoca in cui tutto aveva valore e ogni particolare ne poteva aggiungere.

    Quel giorno, in cerca di ossigeno a ogni passo della via Etnea, con lo sfondo dell’Etna eterno e innevato a congiungere al centro, all’infinito, i palazzi barocchi, decise di ripercorre passo dopo passo il viaggio a ritroso nella propria memoria, cercando il tempo in cui l’Amore era soffio di Vita e la vita, anche se complicata e difficile, speranza di mutamento e progetto.

    Invece di consegnare al notaio il proprio testamento – del resto solo il vuoto avrebbe avuto da lasciare – come chi si sente prossimo alla fine, cercò i brandelli di diario, quelli che a tratti aveva composto, prima in ordinati libriccini colorati, poi su fogli a quadretti conservati e dispersi nei libri più amati.

    A tratti ritrovava lettere ad amici, articoli scritti per qualche giornale, foto, oggetti, poesie, pezzettini e frammenti che aveva composto e conservato ovunque e disordinatamente per non lasciarsi sfuggire l’attimo da ricordare, felice o meno ma di certo rilevante perché unico.

    Nell’epoca oscura in cui il futuro appariva insostenibile, decise di tentare di raggiungere, scendendo gli scalini della memoria, il cuore della propria esistenza, il viaggio nelle viscere ancora salve dalla banalità, per rimettere a nudo le cellule originali affinché l’aiutassero a ricostruire il tessuto malato di nostalgia vitale.

    Cercò, con questo viaggio nelle epoche in cui riconosceva se stessa e la propria ansia di vita, di rallentare, se non annullare, il processo di morte lenta che di recente sentiva distruggerle l’anima.

    Dopo avere sempre vissuto ogni istante come fosse l’ultimo, godendone appieno, vedeva ora ogni attimo spegnersi senza essere affatto l’ultimo ma anzi uno qualunque di una serie inarrestabile di banalità tutte uguali a se stesse.

    Com’era iniziato?

    Sicuramente con la contagiosa, esiziale vicinanza delle persone che vivono la vita degli altri rallentandone il corso, deviandolo, snaturandolo, fino a impantanarlo in stagni paludosi che solo una pioggia straordinaria può salvare e ciò nella costante, anche se involontaria, intenzione di succhiare l’energia che da soli non sanno produrre, confondendo l’aiuto occasionale, che è solidarietà umana, con l’avvinghiarsi dell’edera che uccide, infine, anche la pianta forte.

    Forse sarebbe accaduto comunque e in ogni caso andava combattuto, con le scarse forze rimaste.

    Decise di partire dall’inizio, cioè dall’infanzia, in cui le poche persone che l’avevano vista bambina e ancora erano in vita, la ricordavano vivace, inarrestabile, sorridente.

    L’infanzia è, nonostante l’apparenza, un’epoca difficile, ma nessuno e niente era stato in grado di distogliere Elena da se stessa, quando invece l’inesperienza e la giovane età avrebbero facilmente potuto prestarsi al gioco al massacro che in seguito, dai e dai, aveva prodotto a profusione i frutti spinosi.

    In quell’inverno che i mutamenti climatici provocati dai gas serra emessi dall’uomo avevano trasformato in eterna primavera senza conservarne il fascino dell’attesa di rinnovamento, Elena, davanti al teatro nel centro di Catania, mentre constatava l’improbabile, ma certo, planare di rondini sull’acqua in febbraio, decise che avrebbe almeno provato a rallentare il processo di distruzione che si stava consumando, senza ombra di dubbio, dentro di lei.

    Un’amica ritrovata dopo anni di silenzio le aveva ricordato l’epoca in cui entrava in classe, ragazzina, con il grembiule nero abbottonato da un lato, antidoto sicuro all’uniformità, il colletto bianco mai a posto e la fiera determinazione a inventare la giornata per renderla originale per sé e per gli altri, ben cosciente di non essere né elegante né ricca né bella, ma certamente unica. Le angherie dei professori, i divieti dei genitori, la moda deprimente di quegli anni di gonne a pieghe sotto il ginocchio, mocassini e calzini bianchi, non riuscivano a smorzare l’entusiasmo, la propensione al sorriso e il desiderio istintivo, aiutando gli altri, di aiutare anche se stessa.

    Qualche cellula sana doveva pur essere rimasta sotto le superfetazioni degli anni del quotidiano costruito e accettato.

    Elena iniziava così, pietra dopo pietra, a togliere gli strati di adattamento che avevano coperto il suo teatro di vita e annullato i giochi d’acqua che ne erano la linfa. Reagiva con fatica tangibile alla consapevolezza che con nessuna delle persone che amava stava meglio che da sola: dipanava senza fretta quel pomeriggio da sola nel centro di Catania, città bellissima e corposa della stupenda Sicilia, scandendo passi che la riportavano a quel teatro risorto dove si era riaperto il mondo nuovo e antico in cui la solitudine è raro piacere, invece che abisso di disperazione.

    Occorreva scandire ad una ad una le tappe del percorso che la stava uccidendo. Tornò allora all’epoca del Nuovo, della Lotta, dell’Amore, al tempo dell’oro, in cui l’egoismo prevaleva sulla compassione, l’affermazione personale sul perdono.

    Scoprì di desiderare che tutti coloro che le erano cari stessero bene e fossero felici – si scopriva già intenta a digitare ansiosamente i numeri di telefono per sincerarsi a voce o con messaggini che così fosse e già il senso di colpa per quel pomeriggio felice in solitudine annebbiava il primo sole primaverile – ma di certo voleva tenere, dopo tanto tempo, ciascuno a debita distanza, salvarsi dalla loro serena indifferenza, che la feriva a sorpresa quando più si sentiva pronta a condividere qualcosa di bello accaduto o progettato, che suscitava a tradimento il coro di nulla contro cui non aveva ancora affilato la spada.

    Nessun evento lieto risulta rilevante senza condivisione, senza qualcuno che ne sia testimone e non giudice. L’Amore ne è testimone, talvolta l’Amicizia, se dura, occasionalmente anche l’estraneo incontrato sul treno e disposto all’ascolto.

    Senza condivisione non c’è evoluzione. L’Amore già altre volte se n’era andato con inspiegabile rapidità per poi, altrettanto a sorpresa, tornare. Questa volta il Disamore ne soffocava lo spazio.

    L’energia per procurargli spazio, con l’età era fatalmente diminuita. Anche gli amici avevano spesso parole spese al vento: mai quel: davvero, come stai? col cuore, che rende fluido il sangue. Il desiderio di aprirsi agli altri era soffocato dal reciproco affanno di loro a parlare di sé, tanto che il dialogo diventava una sorta di coincidenza rara, di solito al femminile, con amiche dal nome uguale: Anna, Annina, Annamaria, Rosa, Rosella, Rosita, Rosamaria, in discorsi troppo sgranati nel tempo per essere boccata di ossigeno.

    Si trattava piuttosto di una conferma che l’indifferenza si può bloccare solo a tratti, giusto per non soffocare, ma la vita, se davvero lo si voglia e possa, ognuno se la deve salvare da solo e guai a chi non sa più chi sia stato e chi sia, ma, per inseguire il senso di ciò che vorrebbe e non sarà mai, vaga per sempre nel fitto bosco del nulla.

    Conosci te stesso: γνῶθι σεαυτόν (tempio di Apollo, Delfi).

    Secondo luogo salvavita

    Roma: il caso

    Elena cercava di capire se valesse la pena di riprendersi il senso di sé. Incerta sul da farsi, come rare altre volte nella vita, il caso decise per lei, quando dopo Catania sostò a Roma, prima di andare all’Isola d’Elba, dove si era ripromessa di ritrovare pace.

    A Roma si preparava a una serata di relax con gli amici, a cena in una trattoria di Trastevere assai rinomata per i fiori di zucchine fritti, di cui Elena era ghiottissima, ma ci si mise l’imprevisto sgradevole a turbare o forse a dipanare il corso degli eventi.

    Così ricordava quel giorno nel suo diario, con un titolo scelto con cura, come faceva sempre per fissare un punto nella memoria.

    Principessa a Roma per un’ora.

    Traduco per iscritto l’aggressione subita quattro giorni fa da due motociclisti a Roma, nella certezza che le costole e il naso rotti e la ferita in testa faranno meno male se riuscirò a portarli fuori da me, almeno a parole.

    Sono nell’hotel 4 stelle da cui domino i tetti di Roma e il Tevere, con rondini curiose che si alzano improvvise dal cornicione per raggiungere una bifora del vicino campanile, per poi sfiorare il fiume e guizzare via di nuovo.

    Mi intono alla musica e cerco una volta tanto di occuparmi di me: come in sogno, dopo mesi di corse affannose, trovo il tempo per: doccia aromatica, crema viso e corpo, smalto mani e piedi e scelta accurata di abito e accessori! Fiera di me, trasformata da ranocchio lavorativo in Principessa da favola, scendo nella hall e, in attesa del Principe per la cena, mi allontano di pochi passi dall’ingresso dell’hotel sorridendo, per cercare un amico al cellulare.

    Sento alle spalle il rombo di una moto che si avvia, ma non mi preoccupo né mi giro, mi sento al sicuro e padrona felice del mio tempo.

    In un istante, sono a terra sull’asfalto, con un dolore acuto alla spalla sinistra e alla testa, da cui esce il sangue abbondante di cui si preoccupa la turista inglese che vedo riaprendo gli occhi. Mi spiega che sono stata investita, mentre arrivano il 118, la polizia e volti amici.

    I due ragazzi del 118, un uomo e una donna, sono meravigliosi, mi mettono sorridendo la tavola rigida e il collare e si scusano per i sanpietrini di Roma che mi picchiano impietosi sulle costole: «So scomodi siò, ci dispiace, e pensi che se movono dal mondo intero pe’ vedelli!». Un sanpietrino dopo l’altro, arriviamo al Fatebenefratelli, Pronto Soccorso modello, dove infermieri e medici mi rassicurano, curano, effettuano veloci radiografie e tac così da escludere perforazioni al polmone o traumi cranici importanti.

    Ho tre costole rotte dietro, probabilmente per un calcio, e il naso fratturato per un pugno, forse perché, non rendendomi ancora conto di ciò che accadeva, continuavo a tenere stretta la borsa.

    Al mattino, la compagna di stanza mi indica la terrazza da cui si domina L’Isola Tiberina e all’alba, se il dolore tiene svegli, si ascolta il grido dei gabbiani in volo sulle rapide del fiume.

    Da casa, un’amica mi dice che è successo anche a lei, 25 anni fa, a Roma: in due in moto, ancora strappo della borsa con caduta a terra. È successo anche a un’altra amica e a un’altra ancora.

    Quelli erano scippi, deplorevoli ma comprensibili, mentre la mia è stata una aggressione gratuita: io la borsa, dove tra l’altro c’erano solo

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