Il blu oltre il mare
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Collana Sentieri: narrativa italiana
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Anteprima del libro
Il blu oltre il mare - Micaela Tirinzoni
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Nota dell’autrice
Negli anni in cui ho lavorato come interprete e traduttrice, finché la salute me l’ha concesso, ho trascorso molto del mio tempo ad apprendere culture e studiare vocaboli per tradurli. Di quell’attività ero profondamente innamorata. Felice.
È affascinante occuparsi di miriadi di parole, trasporle in un’altra lingua, ricomporre frasi che nel senso e nello stile riproducono il loro originale, riuscire perfino a evitare che la traduzione sembri tale.
Forse per questo, negli esigui testi da autrice, amo indossare i panni della voce narrante, mossa da un vincolo irrinunciabile: non eludere il distacco o la verosimiglianza, anche se mi discosto dal reale.
Devo ammettere che in un lontano passato il termine malattia, assai ricorrente in questo romanzo, nel mio vocabolario era quasi solo foriero di successive guarigioni. Non mi ero ancora misurata con il significato intrinseco della cronicità. Il nome Strauss mi richiamava i walzer viennesi più che una patologia. L’espressione deficit sensoriale assumeva invece un’accezione talora accorata, talaltra remota, nella mia ignoranza del concetto. Finché ho dovuto viverne di persona alcune delle sfaccettate implicazioni e non è stato facile accettarle. Postille scomode, scrosciate addosso indesiderate. Insomma, mi piacevo di più prima, mi piaceva di più la vita di prima. Come rassegnarmi alla perdita uditiva? Sopportare i miei globuli bianchi eccessivi e avversi?
Ero stata ricoverata a varie riprese, in più di una struttura ospedaliera. Avevo incontrato ottimi medici e chirurghi, competenti, umani, come chi mi segue tuttora. Le diagnosi erano arrivate[1]. Di meglio non si sarebbe potuto fare.
Eppure, anche a distanza di sicurezza dal vissuto, ogni volta che mi accingevo a scrivere, le emozioni non si dipanavano. È stato più semplice ideare un’altra storia. Vaga, surreale. Particolare. Differente da quella che lo spunto suggeriva.
Il blu oltre il mare è nato sul finire del 2010, quando le memorie si erano sbiadite, gli aloni tristi si erano spenti o erano stati rimossi volontariamente per lasciare spazio a una luce nuova.
Tra i personaggi, Alice a tratti mi appartiene, perché in lei come in me dimora l’incombere di una disabilità invisibile. Sottili frammenti del dolore fisico ed esperienziale attribuito a Gaia mi accompagnano ancor oggi nel percorso altalenante della malattia. Ai sentimenti consequenziali ho in parte attinto per definirne gli stati d’animo, anche se negli ospedali italiani o in Messico immagino che la realtà non combaci con le vicende di fantasia di questo romanzo.
Non so se scorrendone le pagine si provino dubbi, incredulità, mestizia, commozione, empatia, amarezza o refoli d’amore; se si percepiscano le forzature linguistiche, le note dissonanti create di proposito; se la fatica del corpo frammista al carico d’angoscia della mente nella malattia diventi abbastanza comprensibile anche a chi non la conosce e se, infine, ne scaturisca un desiderio di riflettere o di fuggire.
Chiedo rispettosamente scusa a tutte le persone che vivono o hanno vissuto esperienze simili a quelle che ho creato, se il modo in cui le ho raffigurate può non convergere con il loro pensiero e con le loro storie vere. Mi perdonino anche i dottori e gli operatori del settore se la terminologia utilizzata nei testi, nei dialoghi e in questa nota, ai loro occhi esperti, può apparire tecnicamente non precisa.
Certo è che durante la lettura, si può chiudere un libro quando si vuole. Nella vita non sempre. E la fragile evanescenza degli espedienti letterari, delle digressioni narrative, equivale per me a una prodigiosa via per accogliere o raccogliere le sofferenze, con cui succede di dovermi confrontare, senza smettere di sperare.
Capitolo 1
Señorita, no se preocupe por eso. No es importante. Cuando regresa a...
Guardiamo il soffitto sdraiati sul letto a due piazze di un’angusta camera messicana.
Le lenzuola sono di cotone grezzo e ruvido.
Sento prurito in tutto il corpo.
La volta sembra sempre più in alto e non riesco a prendere sonno.
La cicatrice che ho sul viso brucia. La sfioro con l’indice e il medio della mano destra e ripenso al rischio che abbiamo corso, incoscienti. Anche l’occhio destro arde.
Siamo giunti in una posada grazie a un tassista incontrato al capolinea dei pullman per Acapulco, dopo che in una stazione di pronto soccorso alquanto improvvisata mi hanno cucito la ferita e instillato alcune gocce di collirio nell’occhio bluastro.
Mi sento ancora ribollire di rabbia. Sarò costretta a portare il segno di una lesione deturpante per sempre. A ricordo di che cosa? Di una rapina a mano armata eseguita da due bandidos che per quattro soldi mi hanno inciso il volto non appena un brivido di panico mi ha percorso. Ho barcollato, a dispetto dell’immobilità che mi avevano intimato di rispettare. Hanno creduto che volessi fare chissà cosa. Non si sono accontentati delle carte di credito e dei contanti. Mi hanno strappato la catenina con il ciondolo d’oro bianco e brillantini, che portavo al collo da quando ero bambina. Un dono della nonna. C’ero affezionata. Non so quanto valesse in pesos.
A me dei loro pesos non importa. È a quel ricordo che tenevo.
«Come facciamo senza soldi in questo crocevia dove non c’è anima viva?»
«Ho ancora le banconote nei calzini, sotto i lacci delle scarpe.»
Le avevo nascoste prima di uscire la mattina, per sicurezza, su consiglio di Andrea. Non hanno pensato di farmele togliere e così qualcosa ci è rimasto.
«Com’è la ferita?»
«Non sembra profonda. È più uno sfregio incerto, violaceo, che un taglio infossato.»
«Se mi hanno medicata bene, non farà infezione, vero?»
«Certo che no, Gaia. Hanno usato alcol puro!»
«Andiamo, dai.»
C’era un taxi parcheggiato all’angolo. Un vecchio maggiolino Volkswagen di colore giallo vivo, con una cordicella al posto della maniglia della portiera destra e dei buchi sotto il tappetino anteriore, dal lato passeggero.
Andrea aveva contrattato il prezzo. Quando gli era sembrato congruo, eravamo saliti e ci eravamo fatti condurre a Taxco, la capitale dell’argento.
«Il più puro al mondo» aveva detto il tassista.
C’era voluta mezz’ora per arrivare e meno male che mi ero seduta sul sedile posteriore. A ogni curva Andrea sollevava i piedi e si teneva le ginocchia con entrambe le braccia. Credo che temesse di piombare al suolo e finire stritolato sull’asfalto mentre l’automobile continuava la sua corsa spericolata con il tipo alla guida più ridanciano che mai.
Viste le nostre ormai esigue finanze, ci siamo lasciati consigliare un alloggio economico.
Ed eccoci qua, avventori accidentali della posada - come la definisce lui - di un suo amico che abita in periferia e affitta camere affacciate su una corte tanto pittoresca quanto sporca.
Continuiamo a guardare il soffitto.