L'Adulta Giovinezza
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Anteprima del libro
L'Adulta Giovinezza - Pierluigi Panciroli
mio.
Prima parte
Le origini
Ognuno ha origini lontane, veniamo da chissà dove e nasciamo in luoghi diversi, chissà perché! Mi sono sempre chiesto cosa o chi determini la diversa ubicazione delle anime. La destinazione è casuale o ragionata e voluta? Avere queste risposte sarebbe interessante, poiché ciò determina la qualità della vita, il futuro, l’agiatezza o la povertà, la possibilità di arrivare a mete con o senza sacrifici, la fortuna o la sfortuna. Nascere in Oriente è diverso dal nascere in Occidente, così come nascere nel Nord o nel Sud del mondo. Sono cose a cui si pensa poco, forse perché, se ci si inoltra nei meandri di questi pensieri, si rischia di non uscire dal labirinto e di finire in un mare di incertezze.
L’incaricato di tale compito ha deciso che la mia ubicazione fosse in Emilia-Romagna, una terra bella e godereccia, dove la vita scorre con una certa allegria. Sono nato da due genitori meravigliosi, a Reggio Emilia, il ventotto maggio 1965. Ho vissuto fino all’età di diciassette anni a San Donnino di Liguria o di Longora, un paese che fino al 1817 apparteneva al Comune di Scandiano e poi, nel 1860, passò al Comune di Casalgrande nella provincia di Reggio Emilia. Il suo nome si deve alla fusione con un paese limitrofo: Longora, in latino lungo la riva, presso il fiume Secchia. Negli anni Ottanta contava un migliaio di abitanti; nonostante lo scorrere del tempo, ha conservato la caratteristica di borgata agricola, grazie al fatto che non è stata permessa una spietata speculazione edilizia. Ho sempre amato il mio paese, anche se da piccolo mi stava un po’ stretto, e sono felice di ritornarci ogni volta che mi è possibile.
La famiglia
La mia era una sorta di famiglia allargata, anche se con un significato diverso da quello attuale. Eravamo in sei a vivere sotto lo stesso tetto: i miei genitori, il fratello di mio padre, la mia nonna paterna, mia sorella ed io.
Mio padre
Si chiamava Silvio, ed era nato a Bibbiano, un Comune in provincia di Reggio Emilia. A dieci anni iniziò a lavorare come garzone muratore. Imparò talmente bene il mestiere che ben presto divenne un artista dell’edilizia: faceva fontane da giardino, panchine in muratura, forni a legna. Forse ho ereditato da lui l’estro creativo e la pignoleria. Lo chiamavano tutti Cicci, nome datogli dal parroco quando era bambino, e pochissimi conoscevano il suo vero nome. Il suo modo rigoroso di lavorare gli aveva permesso di partecipare al restauro della chiesa di San Faustino, località vicino a Rubiera, a sette chilometri da San Donnino. Il parroco lo stimava molto, e volle che fosse lui a curare le ristrutturazioni più importanti. Li chiamavano Peppone e Don Camillo
di San Faustino.
Papà era un uomo all’antica, ma al tempo stesso moderno, molto autoritario e con un cuore enorme. Quando tornava a casa dal lavoro voleva trovarci lì. Succedeva raramente che non fossi presente, il più delle volte perché intento a chiacchiere o a giocare con il mio amico Stefano, che abitava poco distante da noi. Lui mi chiamava - allora non esistevano i cellulari, i richiami si facevano all’aperto - dall’uscio di casa, dal balcone o dalla finestra, e l’arrivo del messaggio era affidato alla robustezza delle sue corde vocali. Sentire la sua voce mi intimoriva, a quell’ora avrei già dovuto essere a casa. Mi succedeva raramente di sgarrare, ma ogni volta che accadeva, l’ansia s’impadroniva di me.
Mio padre non mi ha mai dato un ceffone, ma gli bastava guardarmi. Il suo sguardo pesava più di mille parole, e faceva paura più delle botte. Gli uomini della sua generazione erano stati educati così, dovevano essere severi, rigidi e temuti dai propri figli per potersi definire dei buoni padri. A volte avevo l’impressione che avesse paura di farsi vedere per quello che era veramente, cioè un uomo sensibile e comprensivo. Era come se temesse che ciò gli facesse perdere il rispetto acquisito. In casa chiacchierava poco. Gli unici momenti di leggerezza che ricordo erano quando ironizzava bonariamente per alcuni atteggiamenti di mia madre. A noi non sembrava vero vederlo così, e ridevamo sorpresi. Mia madre, invece di arrabbiarsi, stava allo scherzo, ribatteva a tono e si creavano dei siparietti bellissimi ai quali assistevamo con divertimento. Il suo atteggiamento cambiava completamente al bar o in colombofila. Con gli amici parlava senza remore e ad osservarlo sembrava un’altra persona; era molto più disinvolto, spigliato, sorridente.
La sua grande passione, il suo svago, era l’ornitologia. Amava soprattutto canarini e pappagallini, ne aveva circa centocinquanta. Era altresì un grande estimatore di colombi da gara, e ne possedeva un discreto numero. Io e mia sorella eravamo contenti, poiché per noi erano fonte di guadagno. Ogni volta che pulivamo le gabbie ci regalava cinquecento lire. Per noi quella somma era un piccolo tesoro.
Come ho affermato prima, era un uomo di gran cuore. Ci dimostrava il suo affetto con piccoli gesti e sorprese. Quando non era travolto da problemi di sopravvivenza, gli piaceva molto scherzare.
Io capivo che non potevo pretendere troppo dai miei genitori. La famiglia non navigava nell’oro, e in alcuni periodi era già tanto avere l’essenziale, C’era una cosa però che, pur comprendendo la situazione, mi faceva soffrire molto. Tutti i miei amici avevano una bella bicicletta con le marce, io ero l’unico del gruppo ad avere un vecchio catorcio. Tutte le notti sognavo di avere una bici come la loro, e di scorrazzare per le vie del paese e sulla collinetta di villa Spalletti.
Una sera, approfittando del fatto che papà sembrava abbastanza allegro, decisi di chiedergliela per l’ennesima volta, con la speranza che fosse quella in cui finalmente avrei realizzato il mio sogno. Mi sentivo un po’ un ingrato a fare certe richieste, i miei genitori lavoravano entrambi come asini da soma per sopperire alle necessità della famiglia, e la bicicletta nuova era un qualcosa di superfluo. Mi rendevo conto di ciò, ma una bici come quella degli altri era un mezzo per farmi accettare dal gruppo, per non essere discriminato.
Sudavo freddo al solo pensiero di doverglielo chiedere, la sua aria severa mi incuteva soggezione. Probabilmente mi si leggeva in viso che avevo qualcosa di strano, che ero agitato, perché ogni tanto mi guardava furtivamente e poi distoglieva lo sguardo e lo fissava su mia madre. Mi sembrava persino che un sorrisetto bizzarro gli sfuggisse dalle labbra. Feci per aprir bocca, ma le parole non mi uscirono. Mi concentrai sulla minestra nel piatto, come se con quell’azione volessi prendere coraggio. Immersi il cucchiaio nella morbida zuppa, lo riempii e lo portai alla bocca, ma era ormai fredda. Come succedeva spesso, non mi ero reso conto del tempo trascorso.
Mi accorsi solo allora che tutti i commensali mi guardavano.
Tutto bene, Pierluigi?
, mi chiese mia madre, guardandomi profondamente negli occhi. Come mai non mangi?
La guardai e guardai il piatto.
Ho capito, è fredda e a te non piace così
.
Si alzò, prese il piatto e mi cambiò la minestra con quella ancora calda nella pentola.
Eccoti, e ora mangia, invece di stare con la testa tra le nuvole
.
Non so perché, ma avevo la sensazione che facesse finta di essere adirata. Sembrava quasi che avessi scritto bicicletta sulla fronte e tutti potessero leggere, e percepire la mia sofferenza.
Va bene mamma, mangio, grazie per avermela sostituita
.
Stasera sei strano Pierluigi, cosa hai?
, mio padre smise di mangiare e mi fissò attentamente.
Papà, vorrei la bici nuova!
, dissi tutto d’un fiato.
Per farne cosa, possiedi già una bici!
.
Papà, ma è vecchia. I miei amici hanno quella con le marce, io sono l’unico ad avere quel rottame
, gli dissi spazientito e risentito. Sembrava che non volesse proprio capire le mie esigenze.
Innanzitutto la tua bicicletta non è un rottame e poi non è emulando gli altri che si impara a vivere
.
Abbassai lo sguardo mortificato.
In tutti i casi, ero già passato da Neretto
.
Neretto era il meccanico dei motorini e delle biciclette. Aveva un’officina in cui c’era di tutto: bici usate rimesse a posto, bici nuove, pezzi di ricambio. Tutti andavano da lui, perché sapevano di trovare ciò di cui avevano bisogno.
Mi illuminai.
Domani dopo la scuola passa, c’è una sorpresa per te
.
Scansai la sedia e corsi da lui, lo abbracciai forte.
Grazie papà
.
Quella notte non chiusi occhio, non vedevo l’ora che iniziasse il nuovo giorno per poter correre da Neretto. In classe fui più distratto che mai, la mia concentrazione, già bassa, quella mattina fu nulla. Non stavo nella pelle, finalmente anch’io avrei avuto la bicicletta con