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Hanima. Le mie cento vite
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E-book345 pagine5 ore

Hanima. Le mie cento vite

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Info su questo ebook

“È come se noi scegliessimo delle strade per superare tutte le nostre sfide personali, anche attraverso le persone che decidiamo di tenere vicino. Ognuna di esse ci farà sempre arrivare ad un punto nuovo della nostra vita, così che il prossimo incontro possa solo proseguire, in meglio, dal punto in cui ci siamo fermati.”
Caterina è una donna di quarantanove anni, siciliana d’origine, che ha vissuto mille vite. È una donna che ha avuto una vita irrefrenabile, correndo e dividendosi tra il lavoro, la famiglia e l’ amore. Ma da sempre ha avuto la sensazione di aver vissuto mille vite e sentito il doppio peso di tutte. Ora è stanca di rincorrere il futuro, il dovere; sente il bisogno di fermarsi e rallentare. È una psicologa e psicoterapeuta, eclettica nell’applicare il suo sapere nelle più differenti e comprovate competenze: nella psicologia dello sport e nella psicologia giuridica, nella psicologia dall’emergenza e nei gruppi benessere e corsi antistress; dall’indossare una divisa da guardia zoofila alla toga da giudice onorario.
Il naturale epilogo della sua esperienza è la certezza di aver attraversato un lungo percorso, lasciando sempre un messaggio positivo intorno a sé, una traccia, il suo intrinseco messaggio di amore e di rivolgersi, nonostante tutto, al bene. E proprio per questo, sa di aver sempre avuto la sensazione di essere diversa dagli altri, mantenendo la sua integrità e il valore dell’amore incondizionato per la sua famiglia, fonte inesauribile di amore e comprensione.
Un tragico incidente segnerà per sempre la sua vita e la sua percezione del mondo e delle cose che ella sente: la sua diversità si trasforma nel distacco consapevole, nella volontà personale e nell’accettazione del diverso per non immergersi più nel flusso di tutte le cose contemporaneamente.
Questo libro nasce dalla volontà di voler lasciare un’ulteriore traccia del suo lavoro e di donare la sua esperienza a chi può carpirne il significato più profondo: che nella vita bisogna rincorrere ciò che si vuole, amare la vita in tutte le sue sfumature, amare tutto ciò che si pone davanti, guardare il bicchiere mezzo pieno… ma anche trovare il coraggio di fermarsi, per se stessi e per chi si ama.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2021
ISBN9791220122078
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    Anteprima del libro

    Hanima. Le mie cento vite - Caterina Vaccari

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    Caterina Vaccari

    Hanima.

    Le mie cento vite

    © 2021 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-1423-3

    I edizione ottobre 2021

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Hanima.

    Le mie cento vite

    Prefazione

    Che cos’è la normalità?

    Per molti è sinonimo diretto dell’abitudine, delle cose quotidiane che scandiscono la giornata: svegliarsi sempre nello stesso letto, andare al lavoro, fare la spesa, tornare a casa, chiacchierare con gli amici di sempre, vivere i propri legami e la propria famiglia. Ma anche godersi un po’ la noia delle giornate finite, superare le piccole controversie sul lavoro, con il vicino o il prendersi cura della propria casa, di un figlio o di un animale domestico.

    Per Caterina, invece, la normalità è un desiderio; è l’antitesi di tutto ciò che è avvenuto nel corso della sua spettacolare vita. E sebbene non siano mancati attimi di quella fugace quotidianità, se può esserci ancora un ultimo sogno rimanente, è proprio il pensiero sovrastante di voler vivere una vita normale, distante dall’emergenza e dai continui colpi di scena.

    In realtà, attribuire a tale concetto un’unica risposta non sembrerebbe possibile, se è vero che ognuno ha una propria normalità, senza trascendere nella remota epistemologia. Si può parlare allora banalmente di fortuna o sfortuna? Nemmeno nell’antica Grecia vi era una riduzione in tal senso delle esperienze casuali, tant’è vero che la Dea Bendata era spesso interpellata proprio in virtù dell’assenza del mero caso e della casualità delle cose; bensì, la sua ruota in qualsiasi momento poteva tornare indietro e non tralasciare anche chi apparentemente era stato sorpassato. Anche in questo caso, si è liberi di credere e confortarsi con ciò che si preferisce; che sia una metafora mitica o un aforisma impacchettato, un mantra o un rituale ben preciso. Bisogna ammettere, però, che molto spesso per conoscere il presente, fare qualche passo indietro non è mai stato deludente, ed è ciò che la terapia e la psicanalisi stessa mirano a trasmettere. Non si può trascendere la memoria del passato per vedere un futuro se non chiaro, più confortante, nella consapevolezza di sé e di ciò che è avvenuto.

    Vero è che, agli occhi di noi contemporanei, che troppo spesso per praticità, tendiamo a semplificare la nostra esperienza, l’unica certezza è che ognuno vive la propria realtà e le proprie esperienze, in funzione di ciò che può sopportare, ma anche cogliere grazie alla propria cultura e al proprio passato. C’è un relativismo sottile dietro tutto questo, ma per Caterina è sempre stato ben oltre la realtà fisica. Ed è ciò che succede quando si è ritrovata in contatto con altri mondi; quando ha avuto esperienza della vera e propria divisione, rottura ed infine riparazione della sua anima; quando ha avuto la certezza di provare una sensibilità superiore a ciò che aveva sempre visto, in una sola vita. Tutto questo e molto altro sono i motivi e la prova concreta di una diversità, della capacità e della sensazione di aver vissuto cento vite in parallelo.

    Questo racconto inizia da una nascita: Caterina sa che sin da quel momento non è come gli altri, sa da sempre di essere diversa. Sin da subito sa di provare dentro di sé un animo nobile, appartenente ad un tempo di gran lunga precedente a quella che è la contemporaneità. Certamente è stato frutto di un’educazione, di tradizione, cultura e di radici, ma non solo. Quello che significa questa dissonanza è un vero e proprio viaggio nel tempo dell’anima, ed è proprio ciò che lei sempre più spesso avverte, avendo sempre camminato un po’ più avanti degli altri. È per questo che Caterina, alla veneranda età di quarantanove anni, sente di portare su di sé un bagaglio della sua vita così come di molte altre vite, e non come se fosse una donna qualunque della sua età, ma una di cento anni e poco più. E se agli occhi dei più scettici potrà sembrare assurdo, basti pensare a come ci si sente davanti ad un bambino: automaticamente si entra in empatia con lui e con il mondo stesso, il quale si svela con i suoi occhi, il cuore diventa più grande, più puro e non si riescono a vedere i lati oscuri della realtà.

    Ecco qual è forse il segreto per aver vissuto così tanto in una sola vita, per non chiedersi più quale sia il numero adatto, come una scadenza, al proprio tempo trascorso: una grande apertura di cuore, un modo, ad oggi, più che alternativo per interpretare il mondo e per coglierne ogni suo aspetto come occasione di crescita. Se si riuscirà a fare questo sforzo immaginativo, sarà facile comprendere come gli incontri con gli altri avvengano solo per questo fine: nulla è a caso, nulla è trascurabile, perciò abbiamo costantemente davanti occasioni di crescita personale, dell’anima stessa, nel bene e nel male.

    Ecco perché, anche se alle volte si ha come l’impressione di sentirsi frammentati, si può trovare un motivo di conforto nel pensare che ogni persona racchiusa dentro quello è che l’involucro di un corpo, esiste per essere volta a risolvere altrettanti dubbi e compiti contemporaneamente. Tutto ciò che rimane all’esterno è magari solo la vista di un sorriso, fonte di speranza e sentimenti positivi; di uno sguardo stanco, che racchiude giornate interminabili; di un unico corpo, custode sacro di quelle mille entità e sentimenti.

    Il secondo filo conduttore di questa incredibile storia è l’amore, ma non in senso romantico come solo i grandi classici hanno saputo narrare. La sfumatura più impercettibile di questo sentimento, che si è tentato di far emergere, è proprio quell’amore profondo e sincero che unirebbe le anime, capace di alleggerire il percorso su quella strada rocciosa. L’amore che dà la forza, la speranza e il coraggio di affrontare quell’ennesima scalata: il percorso tortuoso di cui però si vede la fine, lo stesso tracciato che seppur in salita, renderebbe quello che è un percorso di vita interminabile meno impervio, meno pesante da affrontare.

    Può dunque l’amore guarire ogni cosa, azzerare la fatica, spiazzare via la paura di fronte ad un’altra vetta? Questo è il quesito finale cui tende a rispondere questa lunga riflessione. Senza deludere le aspettative, ciò che si può anticipare è che l’unica cosa che l’amore non è in grado di sanare è qualcosa di già distrutto. L’amore guarisce ciò che è pronto ad accoglierlo. L’amore di una madre, forse, è il più potente che esista, che dà la vera forza. Così come l’amore per la vita stessa, per rimanervi attaccati ad ogni costo, pur essendo disposti a sacrificare se stessi, mettendo il mondo prima di sé.

    E anche se alle volte viene così naturale mettere sempre al primo posto gli altri, il lavoro, l’esperienza, la famiglia, la fatica sembra inesistente. Quando il bisogno di fermarsi sembra un traguardo lontano, ad un certo punto, è il corpo stesso a parlare, e il più delle volte dice: basta. A quel punto l’anima va da sé e cerca di tornare nella sua dimensione, e la mente cerca di cogliere tutto, di razionalizzare. Non si può sempre rincorrere la vita, ma alle volte può essere confortante stare a guardare, prendersi solamente ciò che si desidera davvero, non ciò che si deve. Questo significa mettere il mondo prima di sé, e sebbene siamo tutti uniti sotto questo cielo, può essere sano anche mettersi per una volta davanti al mondo che si vive.

    Questa storia nasce dalla volontà di lasciare una traccia concreta di ciò che è avvenuto, con una grande apertura di cuore, a testimonianza del fatto che si può davvero cadere, rinascere e vivere cento volte se solo si ha la fede, la speranza e un motivo per cui mettere il proprio amore, la propria anima, davanti agli ostacoli più insormontabili. E anche se si viene odiati per la propria aurea, per risaltare tra gli altri, per avere semplicemente un modo diverso di interpretare il mondo e di dare un messaggio qualora si senta di darlo, sicuramente chi vorrà leggere riuscirà a cogliere fino in fondo in queste pagine il vero messaggio d’amore, leggendo dagli occhi di Caterina com’è possibile guardare la vita sotto una luce diversa, rendersi conto che nella vita anche tutto ciò che di più brutto accade ha un perché; che davvero è possibile amare, morire e rinascere mille volte.

    È una storia che chiaramente non finisce qui, ma è il nuovo inizio di un’altra Caterina, ancora.

    Una storia di amore e morte, di vita e di rinascita, di fascinazione e redenzione. Una corsa inarrestabile verso l’esistenza, della voglia di vivere che si dimostrerà il più semplice dei segreti per riemergere dall’incertezza e in difesa della verità.

    Capitolo primo

    Dicembre

    Mi chiamo Caterina Barbara Lucia.

    Mi conoscono tutti con il primo nome, mi è stato dato perché Caterina era la mia nonna materna. Sua madre era originaria della provincia di Caserta, era la marchesa Teresa Montanari. Lei e la sua famiglia vivevano nella reggia. Ricordo delle foto bellissime raffiguranti quella nobiltà passata. La nonna Caterina mi raccontava che avevano diversi maggiordomi, la carrozza con i cavalli e il nocchiero, indossavano cappelli enormi in testa. Erano quindi molto ricchi, fin quando la mia bisnonna si separò dal marito e perse tutte le sue ricchezze, in quanto la dote veniva data all’uomo. Diventò povera e sola a crescere quattro figli, ma nonostante ciò riuscì a farli studiare, infatti si laurearono tutti. E così fu anche con nonna Caterina, che diventò concertista di pianoforte e poté sposarsi anche con mio nonno Rocco, un avvocato natìo di Marsala e un uomo di grande sensibilità e di cuore. I suoi fratelli erano medici o musicisti noti. Di uno di loro, che era medico, mi hanno raccontato che quando faceva una visita domiciliare, se il paziente stava molto male e stava per morire, il suo modo di comunicarlo era di non farsi pagare.

    Io e la mia famiglia, invece, abbiamo sempre vissuto stabilmente nella fertile Sicilia. Desidero da molto tempo andare a conoscere quei luoghi, sebbene io abbia sempre viaggiato tantissimo, non ho mai avuto il tempo di soffermarmi lì e riscoprire le mie vere origini. Per dieci anni sono stata un po’ divisa tra la mia città natale, Catania, ho vissuto poi a Palermo e per quarantotto anni ho vissuto periodicamente a Marsala, nelle estati in cui mi riposavo dallo studio, per modo di dire. Lì ho ricordi bellissimi, di un luogo in cui non mi sono mai sentita sola. Marsala è, per tutti coloro che vanno, un luogo che strega, per la pace che c’è, per la natura e i suoi tramonti mozzafiato. È il luogo dove io e tutti i miei parenti, divisi per tutto l’anno in tutta l’Italia, ci rincontriamo: un momento di condivisione e di gioia.

    Fino ai diciassette anni, comunque, ho vissuto con i miei genitori a Catania. La mia famiglia è sempre stata qui e mi è sempre stata accanto. Da loro sono stata molto amata e compresa; mi hanno accompagnato in tutto ed accettato tutto ciò che facevo o decidevo di fare, in questo eravamo molto uniti. Tutti coloro che mi volevano più bene, però, dicevano sempre la stessa cosa: Caterina, sei strana. Caterina, sei diversa.

    Ricordo una riunione con la famiglia di mia madre, Anna Maria, eravamo noi due, le zie Lucia e Laura, mia cugina Debora e Zio Gianni, in occasione della preparazione delle "cuddùre cu l’ova", ovvero l’uccello con l’uovo, un dolce caratteristico siciliano tramandato dalla ricetta di nonna Carmelina. Eravamo in cucina, riuniti per la preparazione e a chiacchierare insieme. Guardavo i loro gesti ed ero concentrata a voler imparare, ad aiutarle, ma ricordo che mi dissero chiaramente: «Caterina, sei troppo buona. Tu non puoi vivere così».

    Questa è stata la vera costante della mia vita, a volte come un peso, altre come una benedizione. Me lo dicevano tutti, anche da piccola. Mi sono sentita così per tutta la vita, ma non perché credessi al loro giudizio… ma perché era vero. Perché colgo tutto ciò che vedo. Nulla riesce a passarmi inosservato, do un significato a tutto ciò che è davanti a me, a tutto ciò in cui inciampo. Colgo il mondo in ogni suo angolo, nella sua completezza e complessità e non riesco a fare a meno di interpretarlo. Fosse un gattino che passa casualmente sotto casa o una persona che incontro e saluto, so che è lì per darmi un messaggio. Trovo un perché a tutto, ma senza il minimo sforzo. Credo davvero che gli incontri con gli altri avvengano affinché cresciamo: nulla accade per caso e perciò nulla è trascurabile. Oggi posso dire, all’alba dei quarantanove anni, che specialmente tutto quello che mi è successo non è mai stato frutto del caso.

    Ho fatto migliaia di cose fino ad ora, nel tempo che ho avuto, e tutte perché le volevo. Ho sempre dato il meglio di me, perciò ovunque andassi lasciavo la mia traccia. Mi sono sempre accorta di lasciare il segno, proprio perché non vivo nulla in maniera superficiale. Ma ora sono stanca di molte cose, anche di questo. Sono sempre stata una ragazza piena di vita: è la mia indole, mi viene spontaneo, credo di essere nata così. Ma adesso avverto davvero la stanchezza del tempo e di tutto ciò che ho vissuto, tutte le mie esperienze, anche le più banali, come un peso indicibile.

    Penso che la mia voglia di vivere abbia celato inconsciamente la mia profonda tristezza. Scavando bene dentro di me, ho appreso, dopo anni che la mia esistenza è stata costellata da questo magone, che ho cercato di combattere sempre dandomi da fare, rimboccandomi le maniche, correndo.

    Della mia infanzia ricordo molto. Ricordo gli occhi delle persone che mi guardavano sin da quando ero una neonata… se mi fermo a pensare sono di nuovo lì, in quella culletta, e li rivedo.

    La mia nascita fu già un momento molto tormentato. Sono nata il 30 settembre 1972 in un ospedale di Catania, sotto il segno della Bilancia. Non credo molto nell’oroscopo, ma più che altro nel significato dei segni e nei rispettivi tratti caratteriali. Essendo figlia di due insegnanti di fisica, ho sempre creduto più alla scienza che a queste speculazioni. Ma col tempo ho imparato un po’ a credere anche nell’astrologia, senza mai darle più importanza del dovuto. Se è vero che l’astronomia è una delle scienze più antiche, non posso che darne il merito, ma nessun altro segno all’infuori della Bilancia avrebbe potuto calzarmi. Ho sempre pesato tutto con razionalità, ecco. Peccato che io, appena nata, pesavo appena 1.940 kg. Ero già al di sotto della norma, ecco perché prima di essere abbracciata da mia madre mi hanno tenuto in un’incubatrice per venti giorni. Penso che quella sia stata in assoluto la prima volta in cui ho dimostrato la mia voglia di vivere, la mia tenacia. Sentivo gli occhi di tutti addosso a me. Non so come, ma in qualche modo li sentivo, già da allora. Mi ricordo tutto, sento ancora la voce nella mia testa che rimbombava, che chiedeva sempre Ma perché mi guardano?.

    Inoltre, sono stata la prima di due figli, entrambi desiderati e attesi con gioia. Mio fratello, però, non è riuscito a raggiungerci. Ad oggi ancora nessuno sa il motivo per cui al settimo mese di gravidanza, all’improvviso, se ne sia andato.

    Ricordo che all’epoca avevo quattro anni, era dicembre. Ero una bambina, ma già sentivo tutto. In casa aspettavamo con ansia il suo arrivo, ricordo che io e mia madre preparavamo le sue magliettine e tutto ciò che poteva servirgli quando sarebbe finalmente arrivato.

    Da un giorno all’altro vidi solamente mia madre sparire, per poi sapere che era corsa in ospedale. Nel frattempo, ero a casa con la nonna Caterina. Mia madre, Anna Maria, tornò da sola, con un’ombra sul volto che non le avevo mai visto prima. Avrei capito, poi, che quello era il volto della depressione. Se me l’avessero spiegato avrei capito – ma forse, d’altra parte, non era nemmeno colpa dei miei genitori, non era colpa di nessuno. In quel momento e nei giorni seguenti nessuno parlava, non c’erano nemmeno parole per quello che era successo. Accadde quarantacinque anni fa, e le cose erano un po’ diverse da come sono oggi… credo che non ci sia stato nemmeno alcun corpo da piangere, non seppero neanche dove fu sepolto. Quella creatura è stata pianta solamente nel silenzio delle nostre mura. I miei genitori non ebbero risposte e non vollero sapere più nulla, tanto era forte il loro trauma. La mia sensibilità in quel momento credo sia letteralmente esplosa.

    Qualche anno dopo, quando fui un po’ più grande, osai chiedere di nuovo ingenuamente quando sarebbe arrivato il mio fratellino. «Il fratellino non arriverà più», mi dissero solamente, lasciandomi però con altri mille dubbi.

    Andrea, così si sarebbe dovuto chiamare, mi era stato detto che sarebbe dovuto nascere a ridosso del primo dicembre, non ha avuto la forza che ho avuto io. Semplicemente, non ce l’ha fatta – se la scomparsa di una creatura indifesa si può considerare una cosa semplice. Volevo aiutare mia madre, in qualche modo, ma il massimo che mi fu concesso fu spostare tutte le cose che avevamo preparato per Andrea, i suoi abiti minuscoli, da quella che sarebbe stata la sua cassettiera ad una piccola valigetta, destinata a finire non so dove. Mentre facevamo quell’unica azione insieme, lei continuava a piangere e io a non capire. Questo è tutto ciò che mi fu detto di mio fratello.

    Da allora ogni primo dicembre mia madre, da che tutto l’anno appariva come una persona solare, bellissima, piena di vita, amata da tutti i suoi alunni, quando arrivava quel dannato mese, cominciava a ricordare tutto ciò. Si chiudeva in se stessa, a piangere da sola dentro di sé e non poteva fare a meno di rivivere quell’incubo e di riaffondare nella sua tristezza. Non riusciva a spazzare via i suoi sensi di colpa per ciò che le era accaduto anni prima. Mio padre, Salvino, è sempre stato un tipo chiuso, riflessivo, con pochi amici. Era il tipico fisico astronomico, immerso nelle sue ricerche e mai di troppe parole. Rinunciò addirittura alla sua carriera di ricercatore per diventare un insegnante, ma più di tutto per essere presente in famiglia. Non voleva essere come suo padre, che per lavoro era costretto a viaggiare continuamente. Mio padre invece ha sempre messo noi al primo posto, un uomo buono di cuore, ma riservato nella sua sfera personale. Il suo dolore si è amplificato dopo quella scomparsa, ma in quel momento il suo rispetto per il valore della famiglia si è dimostrato ancora di più. A causa della sua riservatezza non potevo avere un dialogo vero con lui, men che meno su quello che era successo.

    I miei genitori, seppur opposti, avevano questa cosa in comune: giustificavano sempre tutto e tutti, non riuscivano a vedere le ingiustizie che vedevo io, ad arrabbiarsi quando io mi arrabbiavo, non mi hanno mai difeso veramente. Ecco perché credo fermamente che questa sia la loro unica mancanza nei miei confronti: non essersi accorti di quanto anche io, come loro, fossi triste. Il fantasma di Andrea ci ha sempre seguito, in qualche modo. A volte gli parlavo, soprattutto quando le cose andavano male. Gli rivolgevo parole d’odio, senza averlo mai visto, in qualche modo proiettavo la mia rabbia su di lui anche se non era mai esistito. E proprio per questo non mi capacitavo di tutto il male che stava facendo; a mia madre, per la sua tristezza e per questo dolore indescrivibile, a mio padre, che non era mai riuscito nemmeno a parlarne, a me, perché ero spettatrice di tutto questo.

    Oggi, a distanza di quarant’anni da quella scomparsa, so che tutto ciò che ho fatto nella mia vita l’ho fatto per non vederli più così. Volevo specialmente che mia madre fosse sempre radiosa, felice di vedere l’unica figlia che aveva. Io le dovevo bastare, perciò involontariamente sono stata mille persone diverse. Un po’, in fondo, mi odio per questo. Dovevo fare in modo che i miei genitori gioissero della loro unica figlia, e perciò essere perfetta: brava a scuola, nel ballo, all’università, nel lavoro e guadagnarmi la mia indipendenza per non pesare su di loro. Sono stata una figlia agiata, ma da parte mia non ho mai chiesto nulla a loro, perché sapevo della loro tristezza e non potevo permettermi di deluderli, ad ogni costo. Non potevo tradire le loro aspettative, dare loro modo di continuare a pensare a quel lutto o ad altri dispiaceri.

    Sono arrivata col tempo e con la terapia che ho fatto solo molti anni dopo a capire che nella mia fantasia, almeno per me, mio fratello è sempre vissuto, pur non essendo mai nato. È stato lui il motivo di tutto ciò che ho fatto, vivendo sempre tutto al massimo, non lasciandomi mai sfuggire nessuna occasione. Ho vissuto per entrambi, come se non fossi una persona sola, ma due: io e Andrea.

    Ma la mia vitalità, in fondo, credo nasconda questa melanconia, che mi porto dietro da quella mancanza e da tutto ciò che vedevo intorno a me… uno scenario di morte costante.

    Sin da bambina ho avuto un’educazione cristiano-cattolica, perciò andavo in chiesa, cantavo anche come solista nel coro. Quest’accettazione del nostro lutto credo sia dovuta anche a questo, per la nostra fede. Sono stata cresciuta così, sia in casa che all’oratorio, per cui ho sempre saputo per certo che la mia strada fosse quella del bene e della luce, per usare una metafora attinente. Qualsiasi cosa o chiunque esista da qualche parte, che ci guarda e indica la strada, ora lo prego solo dentro di me. La fede è stata un’altra costante nella mia vita, per questo mi sono rivolta anche alla chiesa più volte in momenti bui. Credo davvero che esista qualcuno, ma ormai non pratico più come una volta. Non riesco più ad andare in chiesa, anche se qualche volta in cui ho avuto altre difficoltà mi sono rivolta ad alcuni preti per avere un ulteriore confronto.

    Nella mia infanzia, come unico svago, per modo di dire, avevo la danza. Ho cominciato a studiare la danza classica da quando avevo quattro anni. Finché ho retto il ritmo, tutti i giorni, fino all’età di sedici anni ho ballato al Teatro Massimo Bellini di Catania. Ero molto brava, anche perché non era concesso sbagliare, altrimenti erano bacchettate di legno sulle gambe. La mia vita quindi era scandita a suon del numero dei passi, un ritmo fisso, chiaro, preciso. D’altro canto, ci esercitavamo e vivevamo il teatro più importante di Catania: gli aspiranti ballerini che uscivano da lì avevano già un certo nome e una certa fama. A causa delle scarpette con la punta e per problemi ereditari, mi spuntò precocemente anche l’alluce valgo ad entrambi in piedi, perciò soffrivo di questo dolore e nel vedere le ossa distorcersi. Tutt’ora i miei piedi non hanno una forma molto armonica, ma a me a quel tempo non importava: ogni singolo passo di danza valeva quel sacrificio.

    Di fatto, mentre finivo i cinque anni di corso per le principianti, cominciai parallelamente a frequentare il corso delle allieve più grandi fermandomi un’ora in più. Così anche a dieci anni mentre frequentavo il mio corso mi fermavo un’ora in più inserendomi nel corso successivo. Penso che questo sia stato per me molto significativo, perché da allora sono sempre stata con gente più grande, almeno di dieci anni in più di me. Anche al di fuori del ballo avevo amiche più grandi, cercavo sempre gente più matura per crescere, per confrontarmi. Con i miei coetanei mi annoiavo, le cose che dicevano e facevano mi sembravano stupide, mi sentivo a disagio in mezzo a loro. Solo ora riesco a stare un po’ con i miei pari o con amici più giovani di me, ho cercato col tempo di superare questo mio limite, ora che sono io quella grande.

    Oltre la danza mi imposero la ginnastica correttiva per dei problemi che insorsero alla colonna vertebrale. Dovevo fare ogni settimana esercizi di riabilitazione, che mi annoiavano tantissimo. Non era un clima sereno, né tanto meno allegro come la danza, era tutto volto ad uno scopo medico. Da quel momento cominciai a dover fare diverse visite mediche, che seppur per piccole cose, già da piccola condizionavano la mia vita e mi sentivo diversa. Per questo crebbe anche la mia ansia per la salute, mia e degli altri, specialmente di chi mi era vicino. Soffrivo di pressione bassissima, che mi causava spesso svenimenti, quindi dovevo stare attenta a non sforzarmi troppo. Vedevo che anche i miei genitori si preoccupavano per me, nella speranza che sarebbe andato tutto per il meglio.

    Quando avevo nove anni ho sofferto anche di carie continue ai denti. Dovevo andare settimanalmente dal dentista per curarle, ma oltre essere scocciante, era doloroso. Per un breve periodo ho dovuto cambiare anche molti apparecchi, ma ricordo benissimo quello fisso. L’elastico che teneva i ferretti di metallo girava tutta la testa, era impossibile non vederlo. Anche lì, nello studio dentistico, c’erano tanti altri bambini che mi guardavano, era una tortura. Mi sentivo letteralmente come il brutto anatroccolo, perciò vivevo male la mia vita da bambina, che solitamente dovrebbe essere una vita leggera, spensierata. Inoltre, grazie alla danza e alla mia costituzione, avevo un corpo armonioso e ben fatto ma ero una bambina precoce. Sono nata con una corporatura armoniosa e anche se gli altri lo consideravano bello, per me il mio corpo era una condanna, già da allora. Ho avuto molti problemi fisici, che da piccola drammatizzavo. All’età di dieci anni cominciò anche il mio sviluppo: il mio fisico era già formato, raggiunsi la mia attuale altezza, un metro e 59 centimetri, il seno da donna e risaltavo moltissimo già tra le ragazzine della mia età che tra gli altri. A quell’età ho avuto il prima menarca, perciò anche alle medie si vedeva la mia differenza rispetto alle altre ragazzine, perché avevo già un corpo da donna, incastrato nel corpo di una bambina. A scuola finivo sempre negli ultimi banchi a causa della mia altezza che dava fastidio, per questo ero in fondo alla classe ed esclusa, anche se a livello scolastico ero sempre la migliore tra tutti. Inoltre, avendo il cognome Vaccari, ero interrogata per ultima o per prima, non c’erano vie di mezzo.

    Attraevo gli uomini, anche i più grandi, che mi guardavano per strada, in modo quasi patologico. Sapevo di attirare continuamente l’attenzione, ma non mi rendevo conto di quanto tutto ciò potesse essere invasivo, finché non cominciai a sentire anche i loro commenti.

    Quando ero piccola, oltre ad essere destinata ad essere figlia unica, ero anche una bambina molto sola… ma non per mia scelta. Non capivo perché, sotto sotto, gli altri mi invidiassero. Ho conosciuto la cattiveria molto presto. Vivevo in simbiosi solamente con una mia cuginetta, che aveva la mia stessa età. Siamo state insieme in tutti i nostri percorsi scolastici, dalle elementari fino al liceo. Io, dal mio canto, sono sempre stata molto brava, sia per compiacere i miei genitori, sia perché mi impegnavo moltissimo. Avendo fatto la primina, ero sempre la più piccola della classe, e sentendomi indietro, volevo stare al pari degli altri, ma questo per me significava dovermi impegnare il doppio. Lo facevo con piacere e tanta fatica, ma non avevo nessuna pozione magica per essere più brava degli altri. Mia cugina invece era una persona normale, ma molto diversa da me, a scuola andava discretamente. Io a differenza sua dovevo eccellere, anche per avere le borse di studio. Al liceo ci siamo un po’ allontanate, perché sua madre non accettava che potessi andare meglio di sua figlia. Spesso non mancava di farmelo notare, mettendomi un altro peso addosso, un altro sguardo che mi accusava in continuazione.

    Oltre lei cercai di farmi degli amichetti fuori da scuola, perciò cominciai a stare con gli altri bambini del condominio. All’epoca vivevamo al piano terra di un bel palazzo, non molto lontano dal mare, con un grande spazio in cui noi bambini ci incontravamo per giocare. Occasionalmente c’erano anche delle ragazze un po’ più grandi, più la mia cuginetta e un’altra amica, tutte che abitavano nello stesso condominio. Fu allora che anche mia cugina e la nostra amica decisero di coalizzarsi contro di me. Erano offensive, facevano gruppo come con lo scopo di isolarmi, prendendomi in giro. «Perché hai quelle unghie?» dicevano guardandomi le unghie piccole, che non mi crescevano. Tutt’ora non mi crescono e si spezzano per un problema fisico, ma loro non sapendolo lo dicevano forse con cattiveria, per farmi sentire diversa. Lo stesso atteggiamento lo subii a Marsala, dove io ero diversa e sola rispetto agli altri perché non avevo fratelli maschi, quindi non potevo capire! Giocavo spesso

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