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Generazione 73
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E-book157 pagine1 ora

Generazione 73

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Millenovecentosettantatre. Un anno da pronunciare tutto d’un fiato così da non dimenticarlo. Ma risulta difficile scordarsene pensando ai calciatori nati in quell’anno: palloni d’oro, campioni del mondo, terzini in grado di sfidare le leggi della fisica con le loro prodezze. Ma pure gregari e presunti fenomeni finiti presto nel dimenticatoio. Calciatori che hanno assistito all’avvento della Seconda Repubblica e al varo dell’euro; che hanno esultato per l’Italia di Bearzot e, non ancora paghi, hanno vinto da protagonista il mondiale tedesco del 2006. Due cose in comune per tutti: l’anno di nascita e l’aver giocato, anche solo un minuto, in serie A. Il resto è storia. Anzi, storie di vita e di pallone. Introduzione di Stefano Bizzotto.
LinguaItaliano
EditoreLab DFG
Data di uscita1 set 2023
ISBN9791280642400
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    Anteprima del libro

    Generazione 73 - Paquito Catanzaro

    Fabio Cannavaro

    Caro Paolo,

    se i miei calcoli sono esatti leggerai questa lettera il 17 settembre 2023, il giorno del mio cinquantesimo compleanno. Comincio con una raccomandazione: risparmiati frasi tipo «Ma quante candeline ci stanno su questa torta?» oppure «Te si’ fatto viecchio, Fabie’». Ti ricordo che si porta sempre rispetto alle persone più grandi.

    Scherzi a parte, con questa lettera voglio raccontarti una storia. Un racconto di vita e pallone che ha per protagonisti due ragazzi nati a pochi passi dallo stadio San Paolo. Una storia che inizia il 26 giugno 1981. Già, proprio il giorno della tua nascita.

    Papà che urla «È nato, è nato» e i parenti che fanno partire l’applauso. In quel momento mi sono guardato allo specchio e mi è tornata in mente la domanda che m’aveva fatto la maestra qualche giorno prima: «Fabio, adesso che nasce il fratellino che farai?»

    «Lo difendo» ho risposto d’istinto. Otto anni li avrei compiuti tre mesi dopo, eppure quel giorno di giugno avevo già le idee chiare su quale sarebbe stato il mio ruolo, tanto in campo quanto nella vita. Avrei difeso: a zona, a uomo, giocando d’anticipo, entrando duro se necessario e lo avrei fatto sempre e solo a testa alta.

    Ti ho difeso, caro Paolo, tutte le volte che l’ho ritenuto necessario, facendo attenzione a non superare mai quel limite che separava – e separa ancora oggi – la tua vita dalla mia. In fondo il fuorigioco è un concetto che puoi applicare tanto in campo quanto in un appartamento del rione La Loggetta. Quello nel quale hai dato i primi calci al pallone. Ridevi, ogni volta che sfioravi il Super Santos coi piedi, e ridevo anche io cullando il sogno di vedere, un giorno, i fratelli Cannavaro in campo con la stessa maglia. Magari quella del Napoli.

    Ricordo che rimanevi incantato a fissare la mia casacca stesa tra le lenzuola e i calzini. Quella t-shirt azzurra ti face-va sognare e quel sogno lo coltivavo pure io, specie quando la domenica mi chiamavano a fare il raccattapalle durante le partite in casa.

    «Fabio» mi chiedesti una sera «com’è Maradona?»

    «È corto» risposi d’istinto. Ridesti e insieme a noi risero pure mamma e papà, altri due straordinari allenatori di vita cui dobbiamo tanto, forse tutto. Intanto il tempo passava e mentre tu cominciavi le elementari io diventavo un adolescente con le idee chiare. «Voglio vincere tutto, Paolo» ti dissi un giorno «e voglio farlo con la maglia del Napoli». Cominciavo così a giocare i primi tornei: tante vittorie, qualche amarezza e più di un osserva-tore che appuntava il mio nome sull’agenda. Ma io non volevo saperne nulla, addosso avrei messo solo la maglia azzurra.

    Era leggera, eppure pesava una tonnellata il 7 marzo 1993, il giorno di Juve-Napoli al Delle Alpi; io con il numero 3 sulle spalle e Ciro Ferrara a rassicurarmi nello spogliatoio. «Tutto a posto, Fabio?»

    «Sì, Cirù» mentii. Lo stomaco annodato, le gambe che non smettevano di tremare.

    «Rilassati e divertiti» mi disse. «Giochiamo con la Juve, è vero. Ma è ’na partita ’e pallone, come quelle che facevamo da bambini».

    Tornato a casa dovetti raccontarti tutto: il viaggio a Torino, l’albergo, le chiacchiere con Zola e le imprecazioni in uruguaiano di Fonseca. Condivisi con te il rammarico per la sconfitta, ma pure la consapevolezza che avrei avuto altre occasioni per rifarmi. Quelle occasioni che mi ha dato mister Marcello Lippi.

    «Tu c’hai tutte le qualità per diventare un leader» mi disse un giorno, durante il primo ritiro col Napoli. «Lavora sodo e vedrai che diventi un campione assoluto».

    Ho voluto credere in quelle parole e in quell’allenatore nato come noi in un posto di mare, perciò abituato a sognare guardando l’orizzonte. Insieme avremmo fatto grandi cose, ne ero sicuro.

    E chi se lo scorda quel primo campionato da titolare? Io, Pecchia, Sbrizzo, Imbriani. Un gruppo di guagliuncelli a cui avevano chiesto di bruciare le tappe. Dovevamo crescere in campo e affidarci a Ferrara, Di Canio e Fonseca solo in caso di necessità. Raggiungemmo l’Europa e la mia mente visionaria già immaginava i successi con la maglia azzurra e magari pure una fascia di capitano al braccio.

    Peccato che da quel sogno fui costretto a svegliarmi nell’estate del ’95. Fedele al suo stile, il presidente Ferlaino non si perse in giri di parole.

    «Cannavaro, devo venderti».

    «Preside’, io voglio restare» dissi mentre le lacrime cominciavano a venir giù fregandosene della discrezione.

    «Lo vorrei pure io» sospirò «ma o vai al Parma oppure falliamo. E sarà solo colpa tua».

    Le lacrime continuavano a venir giù pure mentre firmavo il contratto che mi avrebbe legato al Parma per gli anni a venire. Speriamo che i tifosi non mi fischino quando tornerò al San Paolo fu il mio unico pensiero. Un pensiero cui ne seguì un altro a voce alta mentre ti salutavo in cameretta. «Paolo, ora tocca a te vincere col Napoli».

    In Emilia cominciai a togliermi qualche soddisfazione tanto in Italia quanto all’estero, ma fu solo alla fine del millennio che mi sentii finalmente appagato: il Parma aveva scelto di puntare su di te. Saremo stati compagni di squadra.

    «Sei pronto a giocare al fianco del Cannavaro più forte?» domandasti varcando la soglia della mia casa emiliana.

    «Porta rispetto, nennillo» ti abbracciai consapevole che, da quel momento in poi, avrei dovuto difenderti solo in campo. Vent’anni appena eppure eri maturo abbastanza per prendere delle decisioni importanti. Le stesse che ho preso io anno dopo anno. Cambiavo squadra ma sempre e solo col desiderio di mettermi alla prova per diventare il numero uno.

    «Qui ho dato tutto» dissi un giorno ai dirigenti del Parma. «È arrivato il momento di cercare nuovi stimoli».

    Prima l’Inter, poi la Juve; prima Cúper, poi Capello. Allenatori che non mi hanno regalato niente e che da me hanno sempre preteso qualcosa in più del massimo.

    «Sei Fabio Cannavaro» mi ripetevano a ogni allenamento. «Mica uno qualunque».

    E arriva così l’estate del 2006, quella che – volente o nolente – nessuno dei due riuscirà a dimenticare. Della Coppa del Mondo che abbiamo vinto contro la Francia s’è detto tanto o forse no.

    «Ce l’ho fatta Paolo, ce l’ho fatta» ti dissi al telefono, una volta rientrato in albergo. Era notte fonda ma figurati se tenevo voglia di dormire. Stavi sveglio pure tu e non vedevi l’ora di sentire quel fratello maggiore che t’aveva reso così orgoglioso.

    «E tu comme staje?» ti domandai, preoccupato che quella telefonata potesse diventare un lungo monologo autocelebrativo.

    «Sto bbuono» rispondesti. «Mo vai a festeggia’. Poi ci sentiamo con calma».

    Stanco, brillo, ma pure sangue del tuo sangue e perciò sospettoso di quella telefonata conclusa così in fretta.

    «Mi devi dire qualcosa, Paolo?» ti chiesi qualche giorno dopo l’ebbrezza mondiale.

    «Mi ha contattato Pierpaolo Marino» confessasti. «Mi vuole capitano del Napoli che punta a tornare in serie A».

    Piangesti e lo feci pure io, in modo silenzioso e discreto. Un Cannavaro con al braccio la fascia di capitano e poco importava se quel calciatore non ero io.

    «Hai già firmato?»

    «Non ancora, Fabio. Ci sto pensando».

    «Ma che devi pensare?» presi a ridere. «Miett’ sto scippo sul contratto e avvisa i tuoi compagni che dovete risalire in fretta. Io domani parto per Madrid. Ho bisogno di staccare col calcio italiano. Tutta ’sta storia di Calciopoli ha reso meno bella questa Coppa del Mondo. In bocca al lupo, fratelli’. Ci vediamo tra un paio d’anni in Champions».

    Da avversari ci siamo affrontati davvero qualche anno dopo: campionato 2009-10. Tornato alla Juve, tanto all’andata quanto al ritorno beccammo una paliata colossale dal Napoli e dovetti beccarmi pure le tue parole di consolazione.

    «Non te la prendere, Fabie’» mi abbracciasti. «In fondo hai vinto un poco pure tu».

    «Fa poco ’o scemo, nennillo» ti dissi affidandoti la mia maglia. «Ti ricordo che sono un campione del mondo».

    «E io il capitano del Napoli».

    La strizzata d’occhio con cui accompagnasti quelle parole mi fece bene e male insieme. Una di quelle sofferenze piacevoli che desideri provare e delle quali non perderai mai memoria. Ho vinto tanto, in Italia, all’estero, con la Nazionale. Ho sollevato al cielo la Coppa del Mondo e pure un pallone d’oro, eppure nella mia bacheca mancava ancora qualcosa: uno spazio lasciato vuoto per accogliere, prima o poi, un trofeo vinto con la maglia del Napoli.

    Più di una volta hanno accostato il mio nome alla mia squadra del cuore; più di una volta ho sperato che il telefono squillasse e che qualche dirigente azzurro mi rivolgesse la fatidica domanda «Ti andrebbe di tornare a giocare col Napoli?»

    E ci ho sperato pure la sera del 20 maggio 2012, quella della finale di Coppa Italia. La prima che avrei seguito da ex giocatore e, finalmente, da semplice tifoso. Con la leggerezza del ragazzino seguii un Napoli arrembante che avrebbe vinto contro l’imbattibile Juventus di Antonio Conte. Esultai al rigore di Cavani e pure al due a zero di Hamsik. Ma la vera estasi giunse diversi minuti dopo il fischio finale. Al centro della tribuna c’eri tu – mio fratello Paolo – con addosso la maglia del Napoli e la fascia di capitano. C’eri tu a sollevare al cielo quella coppa e a portare a casa il primo trofeo colorato d’azzurro.

    Affidai a un messaggio i miei complimenti solo perché, se t’avessi chiamato, avrei pianto e t’avrei dato la possibilità

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