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Le leggende della Juventus. La magnifica ossessione di vincere
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E-book230 pagine3 ore

Le leggende della Juventus. La magnifica ossessione di vincere

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Una società entrata nel mito, composta da giocatori leggendari, che ha scritto la storia del calcio italiano ed europeo, dalla panchina di Corso Re Umberto dove è nata fino al pallone business globale dei giorni nostri. Le leggende della Juventus raccontano un percorso unico, irripetibile ma allo stesso tempo aperto verso un futuro ancora più carico di aspettative. Da Felice Borel detto Farfallino, fenomeno degli anni Trenta, fino al re Cristiano Ronaldo, quella juventina è una delle galassie più ricche di stelle del calcio mondiale. Anastasi il “Pelé bianco”, il “Divin codino” di Baggio, le magie di Zizou Zidane, le volate della locomotiva Nedved, la classe aristocratica di Boniperti e Platini, passando per la potenza, l’eleganza e la tecnica di Charles, Sivori, Rossi, Scirea e Del Piero: gol, parate, giocate indimenticabili e tanti successi. Un viaggio alla ricerca dell’eccellenza, compiuto attraverso i protagonisti della storia juventina. L’alfabeto delle leggende fa venire la pelle d’oca ai tifosi che hanno avuto la fortuna di vederle giocare e accende i sogni di chi le ha solo sentite nominare, in un percorso che abbraccia le diverse generazioni in nome di un’unica maglia bianconera. E di un’unica, magnifica, ossessione: quella di vincere
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita2 nov 2020
ISBN9788836160518
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    Anteprima del libro

    Le leggende della Juventus. La magnifica ossessione di vincere - Paolo Tomaselli

    PREFAZIONE

    di Roberto Beccantini

    Raccontare una squadra di calcio è come sfogliare un album di famiglia, anche se non necessariamente quella per cui si tifa. E Paolo Tomaselli, che della Juventus ha scritto, per la Juventus non tifa. Un dettaglio, questo, che lo spasimante più fanatico considererà un piccolo, grande limite (di cosa?), mentre per me riassume e incarna un motivo, supplementare, di suggestione. Sono i classici casi in cui ci si aggrappa al famigerato motto di Deng Xiaoping: «Non importa il colore del gatto purché acchiappi i topi». Paolo li ha acchiappati.

    Il libro s’intitola Le leggende della Juventus. Raccoglie trenta ritratti di giocatori che hanno decorato, ciascuno con il proprio stile, la saga di una squadra che, in Italia, costituisce l’unità di misura per chiunque intenda sollecitare una sorta di auto-certificazione storica.

    Da Giampiero Combi a Cristiano Ronaldo. Li ha scelti, l’autore, pescando fra criteri più personali che rigorosi, di gusto e di fantasia, attento a governare l’enfasi che, spesso, accompagna e orienta sfilate così impegnative, podi così selettivi.

    Le pagine scorrono dense, curiose, rispettose dei fatti, libere dall’assillo di perdersi qualcuno, di smarrire qualcosa. A occuparsi di cotanti personaggi si rischia di essere frenati dal timore di replicare concetti di dominio pubblico, come se il già detto rappresentasse un muro e non un ponte. Paolo l’ha superato in un modo molto semplice, molto diretto: per evitare le trappole dell’esubero di statistiche e dell’abuso di superlativi, ha scavato nella vita, oltre che nella carriera. Nei magazzini dietro, dunque, e non solo davanti, nelle vetrine: le più battute, le più commerciali.

    Anche e soprattutto per questo, persino il lettore più esperto e lo juventinologo più ferrato si ritrovano a rimbalzare fra episodi e spunti che, senza nulla togliere alla grandezza dei protagonisti, aggiungono l’allegria del particolare, della pagliuzza che non sarà mai trave ma neppure intralcio. Accennavo a Combi. Scriveva di portieri per «Lo sport fascista» degli anni Trenta, e li invitava fin da allora a sacrificare la teatralità «solo all’utile», lui che gli amici chiamavano Fusetta, lampo. Sono consigli che anticipano l’era zoffiana, l’idea british di guardiani del palo che privilegeranno, sempre, la sostanza alla forma, il tuffo al buffo.

    E poi Renato Cesarini. Padre calzolaio, scimmia in spalla e sigaretta pendula, non proprio il soldatino evocato ai giorni nostri da Antonio Cassano per canzonare il grigio autoritarismo di Madama. Quando arrivava per primo all’allenamento, ricorda Tomaselli, era perché arrivava direttamente dal night. Da un gol in extremis all’Ungheria nacque la zona più famosa, ma erano ben altre le zone (della città) che ne eccitavano lo spirito randagio di campione asintomatico: senza i sintomi, cioè, del collegiale sabaudo.

    Tomaselli scava, scova. Eccolo alle prese con Giampiero Boniperti in versione cronista, addirittura. Inviò una lettera ai quotidiani per scagionare il celeberrimo trio Nizza del Toro (Valerio Bacigalupo, Danilo Martelli, Mario Rigamonti) da una rissa che i biechi pennivendoli avevano gonfiato. Naturalmente. 

    Le trattative che portarono John Charles, il gigante buono, alla Juventus; l’odio di Omar Sivori per gli aerei: odio puro, totale; l’incredibile, e panciuto, contrattempo grazie al quale Pietro Anastasi venne scoperto a Catania da un ufficiale gentiluomo. Il capitolo di Beppe Furino aiuta a riesumare dalla polvere degli archivi il giornalista che più lo amò e meglio lo cantò, Vladimiro Caminiti, l’immaginifico poeta che, proprio come Furiafurinfuretto, era salito da Palermo a Torino.

    Sono stuzzichini, tanto per allenare l’appetito che vi verrà sfogliando. Se il diploma di maestro rende Gaetano Scirea – il mai troppo compianto e rimpianto Gai – il marito, il padre e il figlio più felice della terra (il figlio, soprattutto, pensando ai sacrifici di mamma e papà), il destino, a volte, può nascondersi in una frase che lì per lì sembra frustrante bocciatura («Basta così, per favore vatti a cambiare») e viceversa sarà promozione piena. Riguarda il provino di Franco Causio, e l’invito-ordine di sparire per paura che qualche osservatore potesse coglierne l’albeggiante talento.

    Attraverso la bulimia agonistica di Dino Zoff, gli schizzi di Marco Tardelli, il cristallo di Paolo Rossi e il faccino da putto di Antonio Cabrini, si giunge all’epopea francese che ha in Michel Platini e Zinedine Zidane i simboli più sgargianti. Senza dimenticare la divertente – perché singolare, perché avvocatizia – segreteria telefonica di Roberto Baggio.

    Nel mettere insieme un puzzle di 123 anni, Tomaselli si fa detective e testimone. Mai avrei immaginato, per esempio, che l’addio burocratico di Gianluca Vialli, il marine perennemente in missione, si fosse consumato in una delle città-simbolo del Sessantotto. Lontano, lontano. Se menzionarli tutti è impossibile, Alessandro Del Piero, David Trezeguet, Gigi Buffon e Pavel Nedved («corre sempre, anche mentre dorme») sono i guerrieri che accettarono, fedeli e orgogliosi, il supplizio di Calciopoli. Fino all’essenzialismo di Andrea Pirlo e al materialismo di Giorgio Chiellini: indirizzo culturale, il primo; manifesto di fordismo gladiatorio, il secondo.

    Solo alla fine, e solo di fronte all’epifania di Cristiano Ronaldo, megafono di tutte le iperboli, Paolo Tomaselli parcheggia la narrazione per offrire al marziano l’onore della prima persona, affinché spieghi il senso di un’operazione che ha rovesciato – sul piano pratico, quella sera allo Stadium, e a livello aziendale per età, ingaggio e riflessi mediatici – le placide abitudini di una Vecchia Signora.

    Sono riflessioni in libera uscita che frugano nel lato oscuro del privato e sigillano, fino alla prossima vittoria, lo scrigno di una società che, come ha colto l’autore illustrandone le bandiere e i pennoni, si sforza di entrare nel futuro senza uscire dal passato.

    INTRODUZIONE

    Una rosa di trenta leggende

    Parliamone subito, perché gli esclusi a volte fanno discutere più di quelli che ci sono, nelle pagine di un libro o direttamente sul campo di calcio.

    Tra i pali ci mettiamo l’unico portiere italiano ad avere vinto tutti i trofei internazionali per club: Stefano Tacconi. In difesa ogni domenica possiamo scegliere uno tra Gentile, Ferrara, Montero, Thuram, Rosetta, Caligaris, Castano o Barzagli: impossibile sbagliare. A centrocampo possiamo puntare su Giovanni Ferrari, Mumo Orsi, Luis Del Sol, Fabio Capello, oppure i più moderni Deschamps, Davids, per non parlare di Vidal, Pogba o Marchisio, il ragazzo cresciuto nella Juve fin da bambino. In attacco? Da Altafini a Boninsegna, da Ravanelli a Dybala, passando per Boniek o Mandzukic.

    Già così abbiamo ventiquattro nomi e un altissimo livello di campioni. E forse si capisce meglio quanto sia stato complicato scegliere i trenta protagonisti de Le leggende della Juventus: la maggior parte dei nomi era irrinunciabile, basti pensare a Borel, Boniperti, Sivori, Scirea, Platini, Zidane o Del Piero. Per le altre scelte mi sono fatto guidare dal parere di juventinologi, tifosi di lunga data, ma anche esperti e appassionati più giovani. Alcune esclusioni sono state dolorose e la responsabilità, nel bene ma soprattutto nel male è giusto che sia del sottoscritto. Giovanni Ferrari, ad esempio, è stato un mito della Juve e della Nazionale, ma ho preferito ricordare la vita e le opere di Renato Cesarini, che con la sua zona è diventato immortale, al di là di quello che è riuscito a fare in campo e soprattutto fuori, che comunque non è poco. John Hansen ha rappresentato con i suoi gol l’inizio dei grandi colpi stranieri del Dopoguerra. Salvadore è stato la colonna attorno alla quale ricostruire, in un periodo di transizione non sempre facile. Della Juve che entra negli anni Settanta, quella della rivoluzione bonipertiana che punta sui giovani come Anastasi, Bettega, Causio, poi Scirea e Tardelli, sono rimasto affascinato: attraverso il racconto dei suoi protagonisti sembra in alcuni tratti di toccare la storia d’Italia di quegli anni, con i cambiamenti sociali che si riflettevano anche nello sport più popolare. Ed è lì, all’origine del calcio moderno – e anche della straordinaria vittoria degli azzurri-bianconeri al Mondiale di Spagna 1982 – che la Juve è diventata definitivamente la stella polare da seguire, il pioniere che va a caccia dell’oro e lotta per anticipare sempre gli avversari, riuscendoci molto spesso.

    Questo viaggio alla ricerca dell’eccellenza, compiuto attraverso i protagonisti della storia juventina, mi sembra il filo conduttore di epoche e calciatori così differenti tra di loro. Forse è giusto dire che alla fine il gioco del pallone è sempre lo stesso, nonostante i cambiamenti continui. E che la vittoria è l’unica cosa che conta, oggi come ieri. Ma la realtà è più complessa. E quello che rende la Juventus unica al mondo è il suo legame centenario con una sola dinastia, dal 1923 con Edoardo Agnelli a oggi, che per mestiere ha sempre dovuto arrivare prima degli altri e ha trasferito ben presto la propria mentalità aziendale nella sua squadra. È una specialità così evidente oggi da sembrare a volte persino scontata. Eppure quello stesso spirito delle origini è alle fondamenta anche dello straordinario ciclo vincente del primo decennio dell’era di Andrea Agnelli: dalle ceneri della serie B, la Juve è entrata nella modernità a velocità doppia rispetto agli altri, nelle strutture, nelle scelte tecniche e aziendali.

    Immergersi nella storia del club bianconero e dei suoi campioni – dalla brillantina di Borel a quella di Ronaldo – è stato come unire i puntini, in quel vecchio gioco della settimana enigmistica. E i puntini che ho scelto, credo di averli uniti con passione per il calcio e per il racconto: l’immagine che spero emerga in tutta la sua grandezza è quella di una unica leggenda, che tiene tutto insieme. E si chiama Juventus.

    Giampiero Combi

    L’arte di essere il numero uno

    Michele Bonaglia è campione dei mediomassimi e se ne intende di colpi duri – quelli dati, ma anche quelli presi –, non per nulla lo chiamano lo spaccapietre. «Avresti avuto la stoffa per diventare una stella anche sul ring!» dice al suo amico portiere, dopo una intensa sessione di allenamento, nella quale Michelone cerca di spiegare i segreti della nobile arte.

    Anche Giampiero Combi, numero uno della Juventus, usa quasi sempre i guanti, incassa un sacco di colpi e qualcuno ne sferra: non solo per respingere i palloni, ma anche per suonare la sveglia al suo compagno Rosetta che proprio non vuole saperne di colpire la palla di testa. Ma la sua arte è quella del portiere, il suo fisico è quello di un atleta capace di saltare 158 centimetri in alto – «e 150 vestito da alpino» –, la sua personalità è quella di un leader naturale. Le sue maglie sono due, per tutta la carriera: quella della Juventus, con la quale gioca 351 partite, vincendo cinque scudetti, e quella della Nazionale, con cui alza la prima coppa del mondo della storia dell’Italia. Pugilato, ginnastica (ha vinto due concorsi da ragazzo), tennis, nuoto, canottaggio, salto con gli ostacoli: Combi è una forza della natura, nei cento metri riesce a battere spesso l’ungherese Ferenc Hirzer, detto la gazzella per la sua velocità, il primo giocatore di cui si innamora un bambino chiamato Gianni Agnelli.

    Con i suoi 172 centimetri – per gli standard dell’epoca – Giampiero ha l’altezza ideale per svettare tra i pali e nelle mischie furibonde in mezzo all’area. Che sia impegnato a giocare a ramino, a intercettare un rigore o a sgommare con la sua auto sportiva per le vie di Torino, una cosa lo accompagna sempre e lo rende uno dei portieri più forti della storia, non solo in Italia: la Classe, quella con la C maiuscola. Perché nonostante le fratture alla testa, alle braccia e alle gambe, che subisce ripetutamente nel corso della carriera, Combi non perde mai la lucidità, l’eleganza, il senso del suo ruolo, che anche grazie a lui diventa più moderno, più razionale soprattutto nel confronto psicologico con gli avversari. In collegio gli amici lo ribattezzano Fusetta, il lampo. Ma nel calcio dei grandi Combi diventa presto l’Uomo di gomma, uno che sa combattere tanti duelli in un colpo solo. E nel ring davanti alla porta è – modestamente – il migliore.

    Anche a scrivere, il portiere della Juve non se la cava male. In un lungo articolo firmato per «Lo sport fascista» del 1930 ci sono molti segreti dell’arte di non farsi fare dei gol che lo hanno reso grande. È un piccolo manuale delle sue regole base. Quelle che lo hanno fatto diventare Combi. Sembrano semplici, ma la semplicità è solo dei grandi:

    L’azione del portiere deve essere, a parer mio, priva di teatralità e ridotta solo all’utile. Per evitare tuffi, acrobazie, bravure che possono costar care, anche se valgono l’applauso del pubblico, il portiere deve possedere perfetto il senso del piazzamento: se si trova a posto difficilmente dovrà prodursi in parate sensazionali; osservando invece bene l’attaccante che gli muove incontro gli sarà sufficientemente agevole indovinarne le intenzioni. Dal punto nel quale l’attaccante si trova, il portiere deve capire quale tiro può effettuare l’avversario e piazzarsi in modo da trovarsi subito sulla traiettoria del pallone. Eviterà così di dover rimediare all’ultimo momento con salvataggi di fortuna al suo precedente errore di piazzamento. Questa è dunque la prima dote del portiere di classe ed io credo di possederla, perché nei molti incontri giocati mi sono studiato sempre di attenermi a quella che è una regola sicura: al piazzamento opportuno…

    L’uomo giusto al posto giusto, questo è Combi, per tutta la sua carriera. Da ragazzino viene spedito in collegio a Moncalieri dalla famiglia per non distrarsi troppo col pallone: ma è proprio lì che trova la sua vocazione da calciatore. All’ala sinistra o da portiere, questo è il dilemma, anche se nelle partite coi compagni è sempre lui a portare da casa i pali della porta. Al Torino scartano la prima ipotesi, quella che il giovane Giampiero abbia la stoffa dell’attaccante esterno. Anche alla Juve confermano quel giudizio. Ma almeno acconsentono di provarlo tra i pali, perché il ragazzo insiste, sembra avere dentro di sé il sacro fuoco. E quella porta coi legni squadrati, comodi per starci appoggiato quando la tua squadra è in attacco, diventa subita casa sua.

    Nell’area piccola Combi si dimostra a suo agio più che nella ditta di famiglia – ramo vermouth e liquori – dove ha già cominciato a lavorare, perché il calcio è ancora un gioco da dilettanti. A ventitré anni è già il numero uno della Juve, ma sarebbe anche disposto a lasciare il campo da calcio. Anzi, è a un passo dal farlo, perché le incombenze commerciali lo vorrebbero in partenza verso le Americhe a esportare liquore e ad aprire eventualmente una sede della ditta anche Oltreoceano. Messa alle strette, la Juve però fa un contratto come si deve al portiere che aveva debuttato a vent’anni e alla terza partita aveva raccolto sette palloni nella propria porta contro la Pro Vercelli (e sette gol li avrebbe presi anche al debutto in azzurro contro l’Ungheria): ci vuole un po’ di tempo, ma Combi, stimolato dal duello con il grandissimo Giovanni De Prà del Genoa, diventerà tra i protagonisti dello scudetto del 1926 e la pietra angolare del quinquennio d’oro, formando, assieme a Rosetta e Caligaris, la prima filastrocca del calcio italiano.

    Combi vince i primi quattro dei cinque titoli consecutivi, perché nel 1934 si ritira, a trentadue anni, all’apice della carriera, da campione del mondo. Ma non lascia il calcio dopo la finale vinta contro la Cecoslovacchia anche grazie alle sue parate, bensì qualche settimana dopo, a fine luglio: il tempo di respingere un rigore nella semifinale di andata di Coppa Europa contro gli austriaci dell’Admira e di sfiorare ancora una volta, al ritorno, la soddisfazione di una finale internazionale anche con il maglione della Juve addosso.

    Quella missione non gli riesce. Ma con le sue divise, Combi inventa la classe non solo dal punto di vista tecnico, ma anche stilistico. Nero o bianco, a collo alto o con lo scollo a V, a seconda della stagione. Ginocchia rigorosamente fasciate, mani quasi mai nude, da infilare comunque nelle tasche dei pantaloni di fustagno se fa freddo. Capelli tenuti raccolti con la retina o sotto a un basco. Il portierone della Juve diventa un simbolo ricercato dai rotocalchi, dai tifosi, dalle donne che cominciano ad avvicinarsi al calcio. Diventa un’icona, che non ha però mai paura di tuffarsi a testa bassa nelle mischie in area e di mettersi in discussione. Anzi: la sua forza diventa proprio la paura di perdere il posto, che lo fa giocare con la testa fasciata, una costola rotta, l’itterizia. Combi c’è sempre e sempre ci sarà per la Juve, fino alla morte nell’agosto del 1956, per un infarto che lo ha sorpreso al volante della propria auto.

    In campo l’uomo di gomma si rivela «continuo, costante, regolare» come dice il c.t. Vittorio Pozzo. Un portiere che racconta più volentieri i propri errori, da non ripetere, che le proprie parate leggendarie:

    All’Olimpiade di Amsterdam 1928 contro l’Uruguay che avrebbe vinto il torneo è legato un ricordo doloroso: il gol di Petrone lo avrei dovuto parare, ma non ci riuscii. Era appena entrato nell’area di rigore, all’angolo sinistro e volgeva le spalle alla porta, con Rosetta dietro di lui. Io ero uscito dai pali attendendo la centrata [il cross, nda]. Egli eseguì invece un tiro a parabola che attraversò tutta la porta e finì invece nell’angolo opposto. […] Fui giocato benissimo e ancora adesso mi prenderei a schiaffi: ebbi critiche e rimproveri, ci rimasi male e piansi.

    In quel calcio da duri e in quegli anni non deve essere stato facile ammettere le lacrime per un errore che era costato l’eliminazione dall’Olimpiade, che valeva quanto un Mondiale. Ma Combi è uno chiaro, diretto, umano: anche per questo è amato da tutti, dai compagni e anche dagli avversari.

    Altre lacrime le verserà in un momento delicato della sua carriera e anche della storia della Nazionale. A dodici giorni dall’inizio del Mondiale del 1934, quello dell’addio già programmato per il numero uno juventino, il titolare Ceresoli si frattura l’omero. E non ci sono alternative: «Sotto, Giampiero, tocca a te» gli dice Pozzo in dialetto piemontese. Lui, che ha passato il ritiro a puntare pesantemente con le carte, a giocare a ping pong contro lo stesso Ceresoli e a imparare i colpi base del golf, esce dalla stanza d’ospedale del collega e scoppia in un pianto che forse è liberatorio, forse è solo nervosismo per l’impresa che lo aspetta. Perché Combi si mette davvero sotto, allenandosi per ore, per rimettere in forma un fisico che è ancora una macchina. Ma ormai è piena di botte su tutta la carrozzeria. Il numero uno juventino non solo riaccende il motore, ma torna quello dei giorni belli, capace di unire le capacità atletiche a

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