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1958: L'altra volta che non andammo ai Mondiali
1958: L'altra volta che non andammo ai Mondiali
1958: L'altra volta che non andammo ai Mondiali
E-book277 pagine3 ore

1958: L'altra volta che non andammo ai Mondiali

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Info su questo ebook

A sessant'anni di distanza, il nostro paese si ritrova immerso in un incubo: vivere il campionato del Mondo di calcio da spettatore e non da protagonista. La Svezia fa, curiosamente, da filo conduttore: oggi ci ha eliminato, allora ospitò un Mondiale elettrizzante e spettacolare, che vide le gesta di Pelé, Garrincha e di un Brasile assurto finalmente alla gloria del calcio dopo la "tragedia del Maracanã" di otto anni prima. Analogie, ricordi, narrazioni del tempo passato che spingono a varie riflessioni. Com'era il Brasile, com'era il mondo, com'era l'Italia e com'era il calcio dell'epoca? Tra speranze di pace e conservatorismo politico, bossa nova brasiliana e l'immortale "Volare" di Modugno, boom economico nascente e tensioni da guerra fredda, conquiste spaziali e rock and roll, questo testo è l'occasione per focalizzare l'attenzione su "un anno decisivo" come si disse allora. Con il calcio che funge da più che un pretesto per leggere dinamiche sociali, eroi, fatti antichi e nuovi della nostra vita.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita27 mar 2020
ISBN9788835396116
1958: L'altra volta che non andammo ai Mondiali

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    Anteprima del libro

    1958 - Bruno Barba

    Note

    Il mio nome è Mundial

    Un volo a planare nel secolo breve. E in un pezzo del successivo

    Sono vecchio, oramai. Vecchissimo, come vedi. Il mio nome non ti dovrebbe importare, ma sappi che tutti, e ovunque, mi chiamano Mundia l . Non so quando i bambini cominciarono a indicarmi così: "è Mundial è Mundial ", so solo che mi sembra un secolo. E sì, deve essere passato proprio un secolo.

    Vedi, noi ci riconosciamo. Basta uno sguardo fugace, vedere dove posi quegli occhi inquieti, o forse non lo so, basta toccarsi, odorarsi. Percepire una presenza. Siamo quegli animali per i quali la vita è quel che scorre tra una partita e un’altra, che sia di coppa, di club, della Nazionale. Ci svegliamo – noi che abbiamo dolori, e un mucchio di problemi come tutti – e pensiamo a lei. Non è una donna, una figlia, un’amante. Certo, ci sono, o ci sono state, anche loro. Ma tu sai, hai capito, a cosa va il mio e anche il tuo pensiero. Il vuoto non ci piace, e lo dobbiamo riempire comunque. C’è chi non ci capisce e non sono soltanto le donne, sai?, a non capirci.

    E allora dai, visto che ti ho riconosciuto, posso essere sincero con te. Anche se – lo sapevi? – la cosa più importante in una storia è quel che non si racconta.

    Sincero, ho detto. Io sono nato esattamente cento anni fa, era il 1918, il posto non te lo voglio dire, magari lo scoprirai da solo, o magari no. Mi sento davvero un cittadino del mondo e, te lo assicuro, anzi te lo dimostrerò, questa non è un’espressione vuota.

    Avevo 12 anni quando riuscii a imbarcarmi in quella nave malandata e arrivare fino a Montevideo, per la prima edizione del Campionato del Mondo di calcio che ho visto. No, non ti voglio dire da dove sono partito.

    Da allora, prova a non crederci, le ho viste tutte. Dal vivo o no, ma TUTTE, tutte le partite di tutti i Mondiali ho detto, e questa di Russia, già ne sono più che sicuro, sarà l’ultima volta.

    Non è che mi senta male, che senta che sto per andarmene, ma sai com’è, in Qatar, laggiù non ho proprio voglia di andare. Boh, sarà il VAR che mi orripila, saranno i troppi soldi che circolano, sarà che l’Italia – questo te lo posso confessare, è una delle squadre cui sono più affezionato – sta stentando da troppi anni –, che ne so, ma certo non è la mia salute o il mio desiderio, che, immaginerai, è inappagabile, di vedere le partite che mi fanno rinunciare.

    Posso dirti una cosa? Che fortuna ho avuto. Non perché sono scampato a due guerre, al razzismo – a proposito, oggi è come allora, non c’è mai un periodo in cui questa bestia si sia addormentata davvero e per sempre – alle crisi economiche e a quelle – come le chiamate? – di valori.

    No, sono stato fortunatissimo perché ho vissuto il secolo breve – quanto mi è piaciuto quel libro di quello storico britannico, Eric Hobsbawm – e perché ho visto migliaia di partite. Ovunque.

    Ognuna mi ha raccontato qualcosa, mi ha arricchito; molte mi hanno fatto piangere, altre volte urlare di gioia, tutte queste occasioni mi hanno insegnato la vita. Fosse la storia di un giocatore, l’identità di una nazione, la genesi di un gesto, la trasformazione di un ruolo. La dignità di un arbitro. La cavalleria di un terzino. L’inno gridato da uomini disperati. L’assalto finale. La difesa disperata. Come fanno, certi, a non capire? Il dribbling di Diego, l’urlo di Schizzo, la manona di Zoff, la veronica di Garrincha, il gol del monco, quel primo minuto a Monaco di Baviera dell’Arancia meccanica.

    Perché essere presenti a una partita di calcio è un’esperienza unica, irripetibile, collettiva ma allo stesso tempo individuale. Ognuno diventa regista delle proprie esperienze, basta osservare un bambino, quel che osserva, il suo stupore, quello che lo colpisce, che è diverso rispetto alle percezioni di chi lo accompagna. È come se avessimo tutti quanti una telecamera nella nostra testa – oggi ce l’avete davvero, ma ai mie tempi era diverso, e, posso dirlo? tanto meglio – che muoviamo come vogliamo, che indirizziamo dove un particolare ci attrae e ci conquista, per sempre.

    Ora, di Mondiali ne ho visti venti. Da bambino, ti ho detto, da ragazzo e poi da uomo adulto e quindi da già vecchio. Sono stato raccattapalle, imbucato, magazziniere, fotografo, giornalista, ospite d’onore: vuoi mettere, invitare il sottoscritto, proprio Mundial in tribuna è stato per molti dirigenti un vero spasso, un punto d’orgoglio, ma io non mi sono mai fatto usare, nemmeno da quel baffetto del diavolo, quel Videla. E neanche da quei coreani che puzzavano d’aglio. Solo quando la regina d’Inghilterra mi ha stretto la mano – ero un già maturo giornalista, allora –, o quando l’ha fatto Mandela – la fama di Mundial era già universale oramai, nel 2010 –, mi sono emozionato assai.

    A Pertini ho detto in italiano – la conosco la vostra lingua – Ce l’abbiamo fatta, presidente e basta, ero commosso anche io.

    Sono lucido e sono pronto, ti racconterò… Prendi nota eh? E scrivi tutto. Scusami se divagherò un poco, ma sai com’è, la memoria degli anziani seleziona a suo modo: ricordo con lucidità quel Mondiale del 1950, in Brasile, che mi è piaciuto più di tutti, e quasi ho dimenticato quello del 2010, e chissà perché.

    Ma aspettati delle sorprese: le partite, le persone, i gesti di cui ti parlerò non sono per forza di cosa quelle che ti aspetteresti. Posso permettermi, a cento anni, di fare quel che voglio, di fare di testa mia. (Ah, l’ho sempre fatto peraltro).

    Bene, cominciano con il 1930, in Uruguay. Un paese che era avanti, si stava bene. Non posso dirti come ci arrivai, fu un viaggio assai breve, e scopriresti da dove vengo. Riuscii a imbucarmi – avevo 12 anni, come raccattapalle. Raccattavo i palloni, sì. Il divertente era che erano sempre diversi, ogni squadra pretendeva di giocare con la palla che più le piaceva. Accadde così anche in finale: primo tempo con il pallone argentino e 2-1 per loro, secondo tempo pallone uruguagio e 4-2, risultato finale per la Celeste. Quella squadra era una portentosa macchina, aveva vinto le Olimpiadi del ’24 e del ’28, competizioni che, siccome il Mondiale non era stato ancora inventato, erano le più importanti, anche a livello calcistico. L’ho conosciuto, quel Rimet, un piccolo francese orgoglioso e ambizioso, che ostinatamente volle realizzare quel sogno. Si litigò assai su dove si dovesse giocare, se in Europa o in Uruguay, anzi a Montevideo, solo a Montevideo, e vinsero i sudamericani perché poterono pagare il viaggio delle squadre. Ma nonostante ciò fu il caos, perché molte nazioni, tra cui l’Italia, non vollero partecipare.

    Lo vidi arrivare, il Conte Verde, quella nave che era partita da Genova con le squadre europee a bordo. La vidi sbarcare a Montevideo, e colsi lo stupore delle delegazioni, dei calciatori soprattutto: laggiù, in Uruguay, faceva un freddo cane, e addirittura nevicava.

    Ma sai, io ho visto la primissima partita del Mondiale, Francia Messico 4-1, al Pocitos, altro che al Monumental, eravamo pochissimi, soltanto un migliaio, e questo mi piace di più ancora che l’aver assistito alla finale. Ho visto il primo gol, anche, segnato, te lo dico a memoria, al diciannovesimo del primo tempo da Lucient Lauren; che nome europeo, francese. Già, eravamo in Sudamerica ma si respirava ovunque aria d’Europa. L’Europa degli anni Trenta, in quella partita, opposto al Messico di Frida Kalho. Due mondi a confronto. Il calcio comincia a svelarsi, e a svelare come siamo. E io subito dopo quel Mondiale sono partito a caccia di Frida, che aveva la mia età e aveva appena sposato il suo Diego Rivera. La raggiunsi a San Francisco, ma quando vidi che aveva appena dipinto quel quadro famoso, che la ritraeva insieme a quel pancione, che ti sto a raccontare, sono scappato, non potevo proprio sopportarlo quel colpo del destino. Avevo dodici anni, che ne sapete voi che significa avere dodici anni negli anni Trenta e attraversare l’Oceano e andare in Europa. Anche se mi accompagnava mio fratello più grande, che era maggiorenne, faceva lo scrittore e mi proteggeva. Passai da Berlino dove vidi con i miei occhi il declino di un mondo. Conobbi un austriaco, un certo Zweig, che poi seppi si suicidò in Brasile, e non feci tempo a rincontrarlo. Un tipo tosto, sempre in giro, a nascondersi, perché cominciavano tempi cupissimi e lui era un ebreo che sembrava avesse già capito tutto, ma che non mi convinse fino in fondo. Perché la gente, in Germania, in Italia – ma anche in Francia e in Inghilterra, che ti credi? – sembrava davvero ammaliata da quegli uomini che raccontavano di fierezza della razza, di colonie, di negri da civilizzare.

    Pensi forse che gli azzurri che vinsero quei Mondiali d’Italia, anzi di Mussolinandia, non alzassero il braccio appena potevano? Eccome se lo facevano. Io voglio credere alla buona fede, di Pozzo ad esempio, che era un grande alpino, un papà, scriveva bene perché era anche giornalista ma, insomma, non è che fece tanto l’eroe. Ricordo quell’Italia-Spagna – ah, siamo passati quasi senza accorgerci al Mondiale italiano del 1934 – nel quale non venne fatto giocare il portiere più famoso del mondo, un certo Zamora. Si trattava della ripetizione, pensa, dopo appena un giorno, di un match terminato in parità, dopo i tempi supplementari. Rimase per tutti un mistero quella defezione. Botte da orbi, favoritismi arbitrali, vorrei dire la solita storia, ma non l’ho mai pensata così, voglio tenermi l’illusione di un calcio pulito, e, insomma l’Italia fascista vince. E poi conquistò la Rimet. Ora, se vedi quei filmati di storia in bianco e nero, o se leggi quei libri che tanto ti piacciono – ti ho riconosciuto, ti piace la storia sociale, e anche a me –, bene, se senti oggi raccontare di quell’epoca sembra tutto grigio, nero, cupo. Si ode il rombo dei cannoni. Ma non per tutti fu così: c’era chi, e non erano pochi, sapeva divertirsi. Il tango ad esempio, e il samba, ci travolgevano. Anche in Europa, lo sapevi? E poi il jazz. Gli Stati Uniti mi mancavano assai, ma la Francia era viva, eccome.

    Ho visto, nel 1938, Italia-Brasile a Marsiglia. C’erano un bel po’ di brasiliani, ma la maggioranza del pubblico era italiana, interessata eccome al risultato. Ma non credere che fossero tifosi, no, tutt’altro. Erano esuli, antifascisti, qualche comunista. Comunque quella partita fu straordinaria. Sai, i brasiliani avevano già prenotato l’aereo per Parigi. C’erano due fenomeni, Domingos e Leonidas, l’Apollo e il Dioniso nella nazionale verdeoro . Come dici? Ah ok, lo spiegherai tu più avanti che vuol dire. Leonidas nemmeno gioca, forse, ma me lo chiedo ancora adesso, per essere preservato in vista della finale, o perché infortunato. Erano fortissimi, ma persero. Si specchiarono troppo. E poi l’Italia. È una lunga storia, lo sai? Non siete capaci di vincere quando siete favoriti, ma quante volte aveva battuto i più forti. Nel 1938, certamente, nel 1982, nel 1970, anche se non vinceste, non potevate farlo con quel Brasile, nel 1978 contro l’Argentina e anche nel 2006. Ma quel rigore, lo sai, non c’era. Domingos sbagliò, ma… Piola era una vecchia volpe. E poi lo sai che Meazza calciò tenendosi i pantaloncini perché l’elastico si era sfilato? Io l’ho visto con i miei occhi, e anche se non ero più un bambino, certi particolari di una partita di calcio ti rimangono impressi per sempre.

    Ah, e vuoi sapere che ho fatto in quegli anni, dal 1938 al 1950? Anni di guerra. Sono stato lontano dall’Europa. Seguivo le vicende belliche alla radio, leggevo molto, ma soprattutto lavoravo. New York, poi Buenos Aires, quindi San Paolo. Crescevano, eccome se crescevano quelle città, e c’era lavoro – delinquenza, anche –, c’era soprattutto solidarietà tra le genti diverse, si cercava la comprensione reciproca, se non l’amore. Era difficile all’inizio per un italiano, un greco, un turco, un afro-discendente; ma poi, a poco a poco ci si capiva, si mangiava insieme, si imparavano parole nuove, soprattutto cibi nuovi. Al punto che alcune leggende metropolitane si sono sedimentate, diventano narrazioni confuse ma comunque largamente condivise: sai che a San Paolo credono di aver inventato la pizza, a Buenos Aires la farinata e nella Little Italy a Manhattan gli spaghetti con le polpette? Sai che c’è? a me non importa nulla: le tradizioni sono così, si fanno e si disfano, si inventano e si reinventano. I piatti si mischiano, e per fortuna anche il sangue, la pelle, le idee e gli dei. Sennò sai che noia, che paralisi, che morte.

    A San Paolo, ero a San Paolo, quando finalmente riparte questo bellissimo cammino. Andai a Rio a vedere quel prodigio di gigante che avevano appena costruito, il Mario Filho, che voi conoscete come Maracanã, ma a me interessava la crescita dei quella metropoli tropicale. Mi avevano detto che Lévi-Strauss, che avevo conosciuto a New York, stava scrivendo un libro dal titolo bellissimo e cupo, Tristi tropici, un racconto sulle sue esperienze che risalivano agli anni Trenta, non feci in tempo a leggerlo allora, perché uscì soltanto nel 1955, ma diceva delle cose che provai, e che feci mie. Quei quartieri che trasformavano la foresta, quelle costruzioni giganti che parevano animali esotici che si abbeveravano al tramonto, nella stessa fonte, quella gente povera e dignitosa, sempre in giro con il cappello, quegli italiani – quanti italiani – che lavoravano, cantavano, piangevano. Tutti in dialetto, oppure in lingua portoghese.

    I brasiliani volevano diventare grandi, erano sicuri di poterlo fare. C’era un tale Getulio Vargas che prima fu dittatore, quindi riuscì a farsi eleggere pochi mesi dopo il Mondiale, c’era soprattutto tanta speranza in questo paese che era sempre stato povero di soldi, ricchissimo di risorse, straviziato di idee, fantasia, creatività. Vidi una cosa inimmaginabile: l’Inghilterra dei maestri finalmente partecipare a una Coppa Rimet e la vidi perdere al Minerão di Belo Horizonte, evidentemente uno stadio che si presta a essere teatro di tonfi clamorosi. La sua colonia, tanto potente sul piano economico e culturale, quanto poverissima, quasi ridicola in termini calcistici, sto parlando degli Stati Uniti, mandò a casa gli inglesi con un gol di un haitiano, Gaetjens. Ma vidi soprattutto gli italiani giocare al Pacaembù: ci arrivai a piedi, scendendo dalla Paulista che allora non era certo quello spettacolo di vetro e cemento, ma era pur sempre la strada più importante del Sudamerica. Ma i poveri italiani, sai, erano arrivati in nave come avevano fatto milioni di vostri paisà. Tutti eravamo scioccati – immagino quindi gli italiani – per quel che era successo un anno prima, a Superga. Io tifavo Italia, volevo vedere una finale Italia-Brasile, invece niente. A Rio ci andai poi per la finale. Molti pensano che sia un’invenzione poetica, ma invece no, ero io quell’uomo cui parlò Obdulio Varela, la notte della finale. Un mio amico carioca piangeva e lui gli disse che ad averlo saputo, a immaginare il dolore che avrebbe fatto provare a quella gente, avrebbe preferito perderla, quella dannata finale. C’era una festa incredibile che era stata preparata, la più grande di sempre. E invece, niente. Restai in Brasile per quattro anni ancora. Amavo quel paese, anche se stava ridiventando razzista. Incredibile, ma fu proprio la partita persa contro l’Uruguay a riaccendere certi odi razziali che parevano sopiti per sempre. Accusarono i neri di quella sconfitta, in particolare il terzino Bigode e poi, soprattutto, il portiere Moacir Barbosa. Avevo trentadue anni, ero un uomo, oramai. E cominciavo a scrivere di calcio, di tattiche, di quelle cose lì che piacciono tanto a chi segue questo sport. Ma in realtà, a me interessavano di più le storie umane. Per questo divenni amico dei più grandi narratori, e tra questi il più grande tra tutti, Nelson Rodrigues, che tra l’altro era il fratello di un altro grande giornalista, proprio quel Mario Filho cui dedicarono il Maracanã. Ma questo l’ho già detto, scusa, forse è vero che sono un po’ vecchio. Mi stanco presto e qualcuno dice che ripeto sempre le stesse cose. Ma che ci vuoi fare? Tu, comunque, stai ascoltando queste mie parole per la prima volta.

    Dunque, era il 1954 ed era tempo di tornare in Europa, un’Europa che io ho sempre amato tanto ma dalla quale mancavo da troppo tempi. Certo, il Mondiale si giocava nell’immacolata Svizzera, ma passai dall’Italia, e non mi fece molto bene. Voglia di rinascita, certo, volontà e brava gente, ma quante macerie, e quanti conti da saldare. Ma segnati una data: 25 novembre 1953, e un luogo magico, Wembley. Non c’entra niente con il Mondiale, o forse sì? Tutto c’entra nella vita, tutto è collegato. E ti ho detto che facevo già il giornalista? Bene, Inghilterra-Ungheria, i maestri del calcio, così si credevano loro, ancora e nonostante tutto, contro una squadra, che io ti giuro, è la più grande che abbia mai visto. C’è la nebbia, piove, il campo è allentato. Che vuoi che ti dica, chi ha giocato a calcio lo sa bene: Dio, quando ha inventato questo sport, lo ha fatto in una giornata così. Hidegkuti centravanti che non è un centravanti, e Puskas, tozzo ma geniale e Kocsis, testina d’oro: una macchina perfetta, l’ Aranycsapat. Che bambola, ragazzi 6-3 per gli ungheresi. Come avrebbe potuto perdere il Mondiale una squadra così? E infatti, sai quanto finisce Ungheria-Germania Ovest di domenica 20 giugno 1954 alla stadio di Basilea? 8-3 per i magiari.

    Raccontano che i tedeschi fecero finta di giocare – pretattica si dice oggi, e turnover –, ma che vuoi che sia, quella domenica e quella partita del novembre prima, io le ricorderò finché campo, anche se mi rimane poco. E va bene, la coppa la vinse la Germania Ovest, ma è successo

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