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Estadio “Magia do gol” (Una favola sul calcio)
Estadio “Magia do gol” (Una favola sul calcio)
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E-book186 pagine2 ore

Estadio “Magia do gol” (Una favola sul calcio)

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Info su questo ebook

Non sappiamo se Artur Antunes Coimbra, in arte Zico, abbia letto le bozze del libro di Giorgio Astolfi. E non sappiamo se Astolfi, mentre elaborava il suo manoscritto, si sia imbattuto nelle dichiarazioni di Zico. Di certo c’è una straordinaria identità di vedute, una filosofia condivisa, una comune visione dello spirito del calcio, tra l’ex fuoriclasse brasiliano e lo scrittore ferrarese.
Non potrebbe essere diversamente. Astolfi, che in gioventù è stato un giocatore di ottimo livello, ha una visione romantica e idealista (nell’accezione più positiva del termine) della vita, e di conseguenza del football. anzi, del futebol. Bailado, di preferenza. Perché il Brasile ha animato i giovanili sogni calcistici di Astolfi. Ed il Brasile, lo stesso tratteggiato nelle pagine di Amado, ha ispirato l’ambientazione di questo meraviglioso romanzo, Estadio Magia do gol. Titolo rigorosamente in portoghese.
Ma riavvolgiamo. Com’erano le accennate dichiarazioni di Zico? Eccole: «Cerco di allenare come giocavo, con serietà, ma anche con fantasia. Vincere è bello, ma lo spettacolo lo è di più: non si può giocare speculando, il football è anche altro, o soprattutto».
C’è tutto Zico, nel libro di Astolfi. Una favola sul calcio, come recita il sottotitolo. Ma non un trattato di calcio. Una favola delicata, intrisa di sentimenti e pulsioni, scritta in punta di polpastrelli ma capace di veicolare con forza – eppur senza forzature, quelle non appartengono ad Astolfi – un messaggio potente, coinvolgente: mai rinunciare ai sogni.
Di calcio e di vita. Perché in queste pagine ambientate in un futuro lontano, si denunciano le storture tecnico-economiche che hanno portato alla scomparsa del football in tutto il mondo ad eccezione del Brasile, dove continua ad essere praticato nel rispetto del suo spirito. Ma il calcio è il pretesto, il mezzo di denuncia del sistema economico e politico, il punto di partenza per una riflessione a tutto tondo, anche su temi quali religione ed ecologia. È uno strumento di conoscenza e di scoperta. Della letteratura. E delle cose della vita, appunto. Come i sentimenti, il sesso nella sua visione più “sana” e naturale. Il calcio, un certo calcio, che ti porta a superare l’avversione per lo stesso, e attraverso esso uscire dalle proprie prigioni quotidiane, andare oltre un ordine codificato che in fondo impedisce di conoscere proprio la vita, la vita reale, ed approfittarne. Il calcio che conduce in un mondo lontano, tutto a colori, ove nulla è pianificato come “da noi”.
Estadio magia do gol ha come protagonista Giovanni Rubini, docente universitario ferrarese. La sua metamorfosi, la sua progressiva apertura mentale, avviene attraverso la conoscenza postuma, professionale e umana, della traccia lasciata da uno zio paterno che del calcio – partendo dalla Spal ed arrivando in Brasile – è stato grande interprete. Il percorso mentale di Giovanni si snoda attraverso la visione in diretta di qualche partita e, soprattutto, attraverso il contatto con la realtà locale e con due donne che gli cambieranno la vita.
Paolo Negri
LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2012
ISBN9788866900498
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    Anteprima del libro

    Estadio “Magia do gol” (Una favola sul calcio) - Giorgio Astolfi

    dell’Editore.

    Prologo

    Salvador de Bahia, Stato di Bahia, 6 agosto 2095.

    Per tutta la vita ho studiato letteratura. L’ho insegnata a generazioni di giovani, ma soprattutto ho letto stanze intere di romanzi e di raccolte di liriche. Quanti uomini ho potuto conoscere attraverso i loro scritti e quante volte mi sono chiesto se mai avessero svolto e svolgessero il ruolo di scrittori con sincerità! Sino a che punto le loro opere erano frutto di un’onestà intellettuale fine a se stessa e al piacere vero e tutto interiore della scrittura, e non, invece, asservita a scopi meramente commerciali e di affermazione personale? Questo dubbio mi ha accompagnato in ogni momento, ma non m’interessava risolverlo perché anch’io come loro, e grazie a loro, avevo il mio tornaconto. La carriera, la fama e il prestigio erano lo scopo dei miei studi, perciò non aveva molta importanza chiarirsi le idee sulla vena più o meno disinteressata di un certo autore o di un altro. A me andava bene così. Li leggevo, li analizzavo e pubblicavo le mie riflessioni che poi la gente a sua volta leggeva, soprattutto gli studenti che me le venivano a raccontare tali e quali. Certo, ciò è un po’ buffo, ma è così. La cultura e l’arte hanno degli artefici e dei consumatori. Eppure malgrado abbia scritto e pubblicato migliaia di pagine tra saggi su riviste, periodici e quotidiani vari, nonostante le centinaia di dispense per corsi universitari e una trentina di libri metà dei quali sono considerati pietre miliari della storia e della critica letteraria europea e ispano-americana contemporanea, avverto una mancanza. Qualcosa si agita in me. È una sensazione d’insoddisfazione, d’incompletezza. Mi sento incompiuto. Ma perché? Che cosa m’inquieta? Beh, lo dico, anche se con un po’ d’imbarazzo. Non ho mai scritto un romanzo. Ecco ciò che mi fa sentire un incompiuto. Ciò che mi manca. Quasi tutti i miei colleghi l’hanno scritto, il romanzo. Più o meno bene, ma l’hanno fatto. E come loro anche uomini di potere, di spettacolo, di sport, hanno avuto l’intimo piacere di vedersi una pubblicazione, chi nell’antico formato con pagine in carta (che negli ultimi tempi pare aver ripreso interesse), chi in formato elettronico come e-book. Perché poi avverto una simile mancanza? Non lo so proprio. Conosco la tecnica, i trucchi, le raffinatezze e tutto ciò che è necessario per confezionare un romanzo, ma non l’ho mai fatto. Vorrei tanto provarci, però non perché possa essere pubblicato e magari avere successo. No, assolutamente no. Per me stesso. Ecco, lo vorrei per me stesso, per il solo piacere di farlo. Com’è stato il calcio per Enrico, Airton e Zè, una vera e pura passione. Certo che se poi il romanzo dovesse avere successo, ben venga. Ci mancherebbe altro. Ma, ripeto, non è a ciò che miro. Allora ci provo.

    Salvador de Bahia, Stato di Bahia, 12 agosto 2095.

    Per ben sei giorni ho sommerso di parole il mio vecchio PC a voce, ma inutilmente.

    Creare in tempo reale e monologando con il computer è indubbiamente molto agevole e pratico. Io parlo e lui traduce i suoni in lettere e parole che posso controllare e vedere su monitor. Ciò dovrebbe favorirmi la creatività. Invece niente. Non mi viene niente... forse a causa di questo sistema che ho sempre ritenuto poco umano?

    Non mi è mai piaciuto e spessissimo ho preferito scrivere con la tastiera. Sì, con quel modo antico e sorpassato che pochi romantici usano ancora. Beh, tutti i miei migliori testi - quelli ritenuti pietre miliari ecc... ecc… tanto per intenderci – li ho scritti con la tastiera e non monologati.

    Salvador de Bahia, Stato di Bahia, 13 agosto 2095.

    Oggi niente passeggiata al mare. Non ho voglia. Finché non mi sarà venuto uno straccio di idea per un romanzo starò nello studio e vedrò il mare solamente da lontano. Però uscirò questa sera per la partitissima Bahia-Flamengo.

    Ho letto e sentito di un giovane calciatore del Flamengo dall’estro straordinario. Un grande e magico fantasista. Il genere di giocatore che prediligo.

    Salvador de Bahia, Stato di Bahia, 13 agosto 2095 (ore 0,30).

    Ho visto la partita. Eccezionale. Ma soprattutto eccezionale quel numero dieci. Mai visto nulla di simile. Sono estasiato. Oserei dire trasognato. E ora so anche che cosa devo scrivere.

    Scriverò un ricordo. O è un sogno?

    Ricordo o sogno poco importa. Dentro me c’è una storia. Il suo inizio risale a poco meno di due decenni fa. Nel 2080.

    E anche più in là.

    CAPITOLO 1

    Ferrara, 6 febbraio 2080, un giorno come tanti.

    Giovanni era soddisfatto della sua lezione all’Università e si riteneva fortunato per essere, così giovane, già titolare da dieci anni di una cattedra di Letteratura italiana, francese, inglese, tedesca, contemporanea e comparata.

    Faceva molto freddo e Giovanni volava a quota 150 metri (quella della direzionale Est-Ovest) con la sua elegante aeromobile rossa diretto a casa. Il cielo plumbeo minacciava neve e il termometro della plancia segnava -3 gradi. Un improvviso sussulto e la spia gialla del quadrante ENERGIA gli comunicavano che era giunto il tempo di cambiare la cartuccia alla scatola blu, quella con le particelle che generavano il campo antigravitazionale e facevano volare la sua Antares D 800.

    Mentre studiava il percorso sul quadrante direzionale per individuare sia la stazione di rifornimento sia il tragitto consigliato dal computer di bordo, si accese il monitor del videotelefono.

    Ciao papà.

    Ciao, hai un minuto?

    Certamente... novità?

    Beh, sì. Riguardo mio zio Enrico, quello del Brasile. Hai presente?

    Sì, è morto un paio di anni fa.

    Pensa che è arrivato dal Consolato brasiliano di Roma il suo testamento in cui mi lascia in eredità la sua casa a Salvador de Bahia, nello Stato di Bahia... e... pensa un po’... il suo stadio a Rubinia, una cittadina a pochi chilometri.

    Rubinia? È quasi il nostro cognome. Una città che si chiama come noi. Che strana coincidenza. Ma... dimmi... ho capito bene... uno stadio?... ma... tuo zio non ha eredi?

    "No, purtroppo. Aveva una moglie e un figlio di dieci anni che sono morti in un tragico incidente stradale quando era ancora giovane. Non si è mai più risposato …dicevi dello stadio. Hai capito bene, proprio di quelli per il calcio, da ventimila posti, e si chiama, pensa un po’, Magia do gol... Estadio Magia do gol."

    Non sapevo fosse tanto bizzarro lo zio... ma in Brasile si gioca ancora quello stupido sport?

    Sì, credo di sì. Ho tentato una ricerca nelle notizie a tema, ma niente. Però chi va là dice che esistono ancora i campi e che la gente ci gioca. Dovrei parlarti meglio della questione. Naturalmente quando puoi, non c’è fretta.

    Va bene questa sera alle otto?

    D’accordo, alle otto. Ciao.

    Ciao.

    Aveva ripreso a nevicare forte ed enormi farfalloni bianchi cadevano fitti fitti sulla città in cui spiccavano le luci che parevano lottare per non essere soffocate da quei puntini candidi svolazzanti di qua e di là.

    È sempre lotta tra uomo e natura pensò, e naturalmente ricordò il 2029, l’anno della ‘Grande Paura’ che determinò la svolta positiva dell’intera umanità.

    Nella sala d’aspetto dell’officina, quell’evento si riappropriò dei suoi pensieri mentre i tecnici lavoravano dietro l’Antares D 800, imprigionata da cavi confitti in una parete d’acciaio collegata a due luminosi e striduli computer che tenevano sotto controllo l’intera operazione.

    Sentì parlare del 2029 per la prima volta alle elementari, quindi al liceo, e infine nel suo lavoro divenne un tema alquanto fisso. Ricordò le cronache di quel tempo dai titoli drammatici: Il buco nell’ozono è ormai alla sua massima espansione; Nell’ultimo ventennio la temperatura si è alzata di un grado ogni quattro anni; Il deserto avanza, è alla periferia di Roma; I fiumi sono acidi, non ci sono più pesci; Fiumi come fogne a cielo aperto; "La malavita fa affari d’oro con gli scarichi abusivi di rifiuti";Le falde acquifere del paese sono inquinate; Zanzare killer e zecche killer sono ormai il pericolo costante delle estati; Enormi topi escono dalle fogne infette e aggrediscono l’uomo; Ormai è certo: vivere in città si muore dieci anni prima, "Il buco nell’ozono ha le dimensioni dell’Europa, Il clima è cambiato: ora c’è anche il problema della scarsità delle piogge e della siccità, Solo il 15% dell’umanità può dissetarsi", e amenità di questo genere.

    In quell’anno tutti i governi mondiali si radunarono in un’Assemblea plenaria e permanente in cui più che parlare del pericolo di morte prossima del pianeta e della conseguente progressiva scomparsa dell’umanità pronunciarono inaspettatamente un generale e sincero atto d’accusa. Tutti si autocolpevolizzarono e si assunsero le responsabilità di ciò che stava accadendo, persino i paesi poveri e sperduti nel lontano oriente o quelli d’Africa bruciati dal sole sempre più cocente e con il deserto sempre più aggressivo e sempre più arido.

    Si assistette a uno zelante campionato mondiale di mea culpa e a un lavacro morale che durò un anno intero con la cancrena che sembrava irreversibile. Ma fu positivo perché prima partorì un’idea-base: che cosa non si doveva fare più; poi formò delle coscienze. In pratica l’effetto-confessionale. Come quando ci si va a confessare e ci si libera dei peccati e si promette di non commetterli più.

    Licenziò quasi infastidito quei pensieri e tornò al presente. All’eredità che pareva consistente trattandosi di una grande villa di tre piani con sedici stanze e uno scoperto tutt’attorno di 41.106 metri quadrati.

    La documentazione era chiarissima e non lasciava dubbi perché oltre ai dati anagrafici – correttamente corrispondenti – sia del defunto Rubini Enrico, sia di Rubini Remo, suo nipote e padre di Giovanni (che però non aveva mai conosciuto lo zio), motivava anche la ragione di quel lascito, che era questa:

    "(...) visto che qui a Salvador de Bahia – nell’ameno Stato di Bahia – città situata sull’Atlantico all’imbocco orientale della baia di Todos os Santos, dove vissi felicemente il resto della mia vita dall’età di ventotto anni, non ho parentela di nessun grado, e visto che il mio fratello maggiore, Rubini Mario, vivente da sempre in Italia, nella città di Ferrara, è scomparso all’età di 81 anni, nel 2061, lascio ogni mio avere al di lui figlio e mio nipote Rubini Remo di anni 70 vivente anch’esso nella città di Ferrara.

    I miei averi (che sono descritti dettagliatamente in un documento a parte) consistono nella casa denominata La Mongolfiera, il terreno circostante, lo stadio per il calcio denominato Magia do gol di capienza di 20.000 persone, siti nella città di Rubinia; oltre un piccolo conto in banca di 100.000 MULA."

    Enrico Rubini

    4 aprile 2075

    Che ne dici? fece il padre.

    Beh, una villa con sedici stanze e una superficie notevole di terreno, non male direi.

    E lo stadio?

    Già, lo stadio, proprio non saprei che dire... che cosa stravagante...

    Vero, la casa si può vendere, ma uno stadio da ventimila posti... a che serve? Mio zio è morto due anni fa e chissà in quali condizioni si trova.

    Ma guarda guarda... nientemeno che uno stadio... che lavoro faceva tuo zio? chiese Giovanni.

    Di lui so pochissimo e ciò che so è in questo globo-rom e in questa cartellina che gli allungò.

    Giovanni la prese, la aprì e dentro c’erano copie di giornali risalenti al primo decennio del secolo.

    Sono tutte foto del calcio... che sport assurdo... fece sfogliandone uno.

    Sì, lui è quello lì – disse il padre indicando col dito una figura sulla pagina – ha appena segnato un punto ed esulta.

    Un calciatore... abbiamo avuto un parente calciatore... fece Giovanni tra incredulità e delusione.

    Sì, ed era anche un campione e guadagnava cifre che non t’immagini, enormi, enormissime, da non credere.

    Già... sì... sì… ne sono a conoscenza... caterve di danaro attorno uno sport inutile... che cosa insensata, fuori da ogni immaginazione e ogni sana logica... com’era irragionevole la gente solo mezzo secolo fa!... poi il fallimento totale di un’idiozia, e meno male!... mi pare nel...

    ...2030... sì… nel 2030... sai... vorrei che andassi là a vedere lo interruppe il padre.

    Ma scusa, non sarebbe per te una buona occasione per un bel viaggio e visitare il Brasile? In poche ore ci arrivi, a Salvador de Bahia.

    No, non ne ho voglia. Vai tu quando puoi, non c’è fretta. Poi là deciderai come fare. Hai carta bianca, a me andrà bene ogni tua scelta. Anzi tieniti tutto tu... ti faccio la procura… che ne dici?... però... se vai ora... s’interruppe con un sorrisino malizioso.

    Però?

    Tra una settimana sarà tempo di carnevale...

    E con ciò?

    Beh... lo sai no? Giorni e giorni di bellezze in... bella vista...

    Ma dai, papà! Quando la smetterai con questa storia delle donne!... devo ancora incontrare quella giusta... e per favore non tornarci più su... per favore papà.

    Ma dai... scherzavo... promesso... scusa...

    Giovanni non amava tanto lasciare il lavoro. Gli si dedicava anima e corpo. Sarebbe il caso di dire che viveva solo per quello, che era pure la sua famiglia poiché non ne aveva una. Ma era arrivata l’ora di staccare un po’. Negli ultimi tre anni aveva fatto complessivamente sì e no una settimana di ferie e l’idea di farsene non gli pareva male, ed era anche incuriosito dal Brasile che sapeva essere un paese un po’ diverso dato che aveva conservato moltissimo del suo passato, con la sola e unica variante dell’assunzione della MULA, la Moneta Unica Latino-Americana. No… lasciamo perdere. Non vado alla ricerca di uno stadio del calcio. Ma ti pare? Uno stadio! Quello stupido sport e quella follia sono sepolti. Cancellati dalla nostra storia… e io devo andare a prendermi uno stadio in eredità!... Ma ti rendi conto papa? fece con vigore.

    Parlava convinto e a ragion veduta perché conosceva bene quegli anni. Letteratura e società lo avevano impegnato in ricerche e riflessioni di vario genere. Però, le riflessioni, sempre con la stessa conclusione. Che l’ultimo trentennio del

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