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La mia vita da numero 10
La mia vita da numero 10
La mia vita da numero 10
E-book164 pagine2 ore

La mia vita da numero 10

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Info su questo ebook

Il numero 10 sulla maglia rappresenta da sempre, per il tifoso, l’estro, la fantasia, l’imprevedibilità del calciatore che la veste: l’estro della giocata, la fantasia nel trovare soluzioni ritenute impossibili, l’imprevedibilità del gesto fuori dall’ordinario, creando in chi assiste alla partita un’atmosfera di trepidante attesa. In una parola, il 10 concentra la magia che solo il calcio sa regalare, come dimostrato dai più grandi campioni che lo hanno indossato, da Valentino Mazzola a Diego Armando Maradona.
Nei dieci capitoli della sua autobiografia La mia vita da numero 10, Evaristo Beccalossi ci conduce direttamente sull’erba dei campi da gioco di un calcio che non c’è più ma che continua a vivere nel mito, raccontando come solo lui sa fare l’essenza di un ruolo unico, affascinante ed eterno. La sua storia, ricca di aneddoti ed episodi inediti, ci restituisce una vita di sfide, divertimento, traguardi e amicizie vissuta appieno, tra personaggi dello sport e dello spettacolo che hanno caratterizzato un’epoca irripetibile. Forte poi della sua esperienza di opinionista televisivo, il “Becca” non manca di gettare uno sguardo sui tempi recenti, trasmesso con la simpatia e la verve che gli sportivi e gli appassionati hanno da tempo dimostrato di apprezzare.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita22 dic 2023
ISBN9788836163618
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    La mia vita da numero 10 - Evaristo Beccalossi

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    Evaristo Beccalossi

    con Eleonora Rossi

    LA MIA VITA DA NUMERO 10

    A mio papà Gino,

    a Giorgio,

    a Diego,

    a Gianluca,

    a Carlo,

    e a quanti hanno terminato la partita troppo presto ma continuano a giocare nel mio cuore.

    Prefazione

    di Enrico Ruggeri

    Tutti i bambini della mia e di tante altre generazioni avevano un sogno per il loro futuro, con due ipotesi: diventare calciatori o rockstar.

    Dato che l’indole umana porta spesso a cercare ciò che la vita non ci ha dato, aggiungerei che il rimpianto di molti musicisti famosi è quello di non aver potuto giocare in Serie A e quello di molti calciatori è quello di non essere saliti su un palcoscenico a cantare.

    In questo caso abbiamo da una parte un musicista (io) che ha indegnamente calpestato i migliori terreni di tutta Europa (con la Nazionale cantanti, a scopo benefico) e dall’altra una delle più celebrate rockstar del mondo del calcio: Evaristo Beccalossi.

    La vita ci ha fatto incontrare molto presto, nel 1979, quando entrambi stavamo per farcela: l’anno successivo lui avrebbe condotto l’Inter verso la vittoria dello scudetto, l’ultimo senza stranieri, in testa dalla prima giornata, e io avrei calcato il palco del Festival dando inizio a una cavalcata piuttosto esaltante.

    Non ci siamo più persi di vista, io sono rimasto al suo fianco negli anni complicati che avrebbe attraversato, lo stesso ha fatto lui con me.

    Perché si diventa amici? Probabilmente perché ci si assomiglia, perché ognuno vede nell’altro aspetti che vorrebbe per lui, perché a volte non è neanche necessario darsi troppe spiegazioni.

    Evaristo ha vissuto e sta vivendo una vita invidiabile, non ha mai fatto nulla che non gli piacesse fare, si è divertito e ha dato momenti di gioia a milioni di persone.

    Gli invidio due cose. La prima è la forza d’animo: non l’ho mai sentito in preda allo sconforto, ha sempre saputo trovare il lato positivo e la spinta per risalire la china. La seconda è il suo modo di stare con gli altri, in un mondo nel quale tutti sono amici di tutti lui ha saputo prendere il meglio sorridendo.

    È capitato più volte che, quando mi è venuto a trovare in studio o nei concerti, qualcuno dei miei musicisti ignari dell’universo calcistico si mettesse a parlare con lui: tutti sono rimasti entusiasti, chiedendomi chi fosse, intuendo di essersi trovati di fronte a una persona speciale.

    Non mi dilungherò sul calciatore, sulla sua intelligenza, sul suo carisma, sul suo estro: vi basti sapere che la mia mania per la maglia numero 10 deriva da lui, e che quel poco che so fare in campo deriva dall’osservazione di ciò che lui sa fare.

    Preferisco insistere sulla persona, un amico col quale ho fatto tanta strada, dai vent’anni in avanti, e chiudere pensando che in questo caso sono stato proprio fortunato.

    1.

    Come pioveva

    Sto salendo i gradini che dagli spogliatoi conducono al campo di gioco e piove che Dio la manda. Sono teso e concentrato. Camminiamo in silenzio lungo il tunnel d’ingresso e si sente solo il suono ritmato dei nostri tacchetti – tac-tac, tac-tac, tac-tac – sul pavimento duro. Appena usciti sul prato bagnato ci accoglie una pioggia sferzante, sovrastata solo dal boato degli ottantamila presenti. Non lo so ancora, ma sto per giocare una partita che segnerà la mia vita calcistica, e non solo, negli anni a venire.

    È domenica 20 ottobre 1979. Sono le 14.15 a San Siro. Affrontiamo il Milan, fresco campione d’Italia, nel sacro rito del derby, che sotto la Madonnina si celebra due volte all’anno da ormai ben quattordici lustri.

    Insomma, per il tifoso di Milano è la partita che vale decisamente un’intera stagione. In verità devo confessare che, almeno fino a questa autunnale domenica di fine ottobre, per quanto mi riguardava, la sfida contro il Milan era una partita come tutte le altre. Mi elettrizzava maggiormente lo scontro con la Juventus e trovavo più incentivante affrontare Tardelli, Causio e Bettega che Minoia, Antonelli e Chiodi – con tutto il rispetto.

    Nella settimana precedente il derby avevo avvertito in città un’atmosfera elettrica, carica di attesa e aspettative, con le raccomandazioni del salumiere di piazzale Frattini con la sua matita d’ordinanza dietro l’orecchio, i consigli del giornalaio tutte le mattine, gli incitamenti del prestiné ancora impolverato di farina. Ma era soprattutto negli occhi dei miei compagni di squadra, la maggior parte cresciuti nel settore giovanile dell’Inter, che percepivo l’importanza e il significato di questa partita.

    Ero stato aggregato a loro la stagione precedente, 1978-1979, proveniente dal Brescia, che allora militava in serie B. Ricordo ancora adesso il viaggio verso Milano, con la vecchia Fiat 128 prestatami da mio padre per l’occasione. La distanza dalla Leonessa d’Italia è poco più di cento chilometri, ma per me era come se fossero mille tanto mi apparivano diversi i due mondi.

    Milano mi sembrava New York. Avevo parcheggiato in piazza Duomo – all’epoca si poteva ancora – e aprendo lo sportello mi ero guardato attorno, stranito, avvertendo una sensazione al contempo di felicità e preoccupazione. Avevo solo ventidue anni, uno sconosciuto alla maggioranza dei tifosi nerazzurri, e l’F.C. Internazionale mi aveva chiamato per vestire la maglia numero 10. La stessa che anni prima avevano indossato calciatori del calibro di Nacka Skoglund, Luis Suárez, Mario Corso, Sandro Mazzola. Dite niente…

    Inserito in questa galleria di mostri sacri mi suonava strano persino il mio nome, Evaristo Beccalossi, nonostante mi fosse decisamente familiare. Fortunatamente, oltre alla timidezza, il mio carattere mi aveva fornito come risarcimento una buona dose di spavalderia e incoscienza, permettendomi di superare un impatto iniziale un tantino problematico.

    Il rapporto con Milano, in realtà, era iniziato in modo singolare sul finire dell’annata precedente. L’Inter aveva chiesto la cortesia al Brescia di anticipare il mio arrivo, nonostante mancassero due gare per terminare il campionato della serie cadetta. Era in programma una tournée in Cina. Parlo della Cina di quarantacinque anni fa, una repubblica ancora veramente popolare, distante in tutti sensi dal mondo occidentale: vestiti grigio-verdi che sembravano uniformi e milioni di biciclette tutte uguali… mi sono sempre chiesto come facessero i proprietari a ritrovare la propria in quei parcheggi sterminati. Con notevole lungimiranza, l’Inter aveva forse capito prima di altri le potenzialità commerciali di una nazione con un miliardo di abitanti, portando il proprio nome e il proprio blasone in giro per gli stadi dello sterminato Paese, ancora molto povero. Chi l’avrebbe mai immaginato allora che, come una sorta di ironico contrappasso, pochi decenni dopo gli stessi cinesi avrebbero acquistato la società?

    Prima di raggiungere l’aeroporto di Malpensa ero passato dalla Pinetina, il centro sportivo con base ad Appiano Gentile, dove mi aveva accolto mister Bersellini. Eugenio, di Borgo Taro, era subentrato a Beppe Chiappella alla guida della squadra nel 1977, vincendo nel suo primo anno di panchina la Coppa Italia e riportando un po’ di entusiasmo tra i tifosi nerazzurri. Mi ero trovato di fronte un uomo dal fisico imponente, dai modi bruschi e decisi, che confermavano il soprannome di Sergente di ferro: perfettamente azzeccato. Capii più tardi che dietro quell’apparenza burbera si nascondeva in realtà un grande uomo dal cuore d’oro.

    Nell’Inter in procinto di raggiungere la Cina militavano giocatori come Fedele, Gasparini e vecchie glorie come Claudio Merlo e Pietro Anastasi che avrebbero di lì a breve lasciato la squadra. Soprattutto, era l’ultimo anno di Giacinto Facchetti, una leggenda nerazzurra e una delle persone più corrette e perbene che abbia mai incontrato. Onesto, costituzionalmente incapace di non mantenere la parola data, non lo sentii mai parlare male di qualcuno, cosa assai rara nel nostro mondo.

    Partii dunque insieme a questo mix di giovani leve e veterani in un viaggio aereo che, per una scelta al risparmio della società, fu di trentadue ore e cinque scali. Tenete presente che a quei tempi avevo una vera paura di volare. Odiavo farlo. Due anni prima, durante il servizio di leva, avevo rinunciato a giocare nella Nazionale militare di calcio pur di non imbarcarmi su un Lockheed Hercules per Algeri o di salire su un elicottero Vertol per la Sardegna.

    Approdati finalmente in Cina, dopo due giorni disputammo la prima partita a Pechino contro la Nazionale ospitante. Entrai nel secondo tempo dando il cambio a Sandro Mazzola, in quei giorni già dirigente al vertice dell’Inter, ma che nella tournée aveva rimesso gli scarpini coi tacchetti per motivi promozionali. Non mi sentivo granché bene.

    Dopo soli sette minuti il pubblico dello Stadio dei lavoratori del popolo Gong Ti mi osservava incuriosito mentre boccheggiavo, sdraiato a pancia in giù, vicino alla bandierina del corner. Il medico sociale, dottor Mario Benazzi, formulò all’istante lì, sul campo, la diagnosi: fegato intossicato. Il giorno dopo la «Gazzetta dello Sport» uscì col titolo: Presentato il nuovo acquisto Evaristo Beccalossi, ma non pervenuto. La colpa, lo scoprii più tardi, era del ghiaccio con cui avevo rinfrescato senza ritegno le improbabili bevande del luogo (la Coca Cola era ancora un oggetto sconosciuto in Cina), ottenuto, a ben vedere, congelando l’acqua piovana… Una simpatica usanza locale.

    Mi giocai mezza estate per ristabilirmi, ma alla fine ero pronto per iniziare la nuova avventura, con la mia bella maglia a strisce nere e azzurre, con coccarda tricolore della Coppa Italia, e l’oneroso numero 10 sulla schiena. Allora non era ancora comparso il logo dello sponsor a ingombrare la divisa, e il nome del giocatore non veniva impresso sul retro. Si usava, a quei tempi, rispettare i colori della tradizione, non essendo ancora emerse le odierne, pressanti, esigenze di merchandising.

    La preparazione per la nuova stagione era iniziata con un torneo triangolare estivo da disputarsi in Versilia, a Forte dei Marmi, assieme alla Fiorentina e all’Hertha di Berlino. Nella partita contro i tedeschi giocai bene e segnai perfino il gol della vittoria. Quella notte mi addormentai felice, sul letto della camera dell’hotel, indossando la maglia ancora sudata con cui avevo giocato poco prima, come a voler prolungare la magia della giornata. Quel gol alimentò la curiosità dei tifosi nei miei confronti e dissipò probabilmente qualche comprensibile perplessità.

    Tornati a Milano, la preparazione continuò con l’amichevole Inter-Lanerossi Vicenza. La stagione precedente i veneti avevano ottenuto un sorprendente secondo posto grazie ai gol dell’astro nascente Paolo Rossi. Dopo l’Hertha, anche con i vicentini me la cavai bene e feci pure gol: due per l’esattezza, uno su azione con dribbling e destro all’incrocio dei pali, il secondo su rigore, di sinistro questa volta. Il risultato finale fu di 4-1 per noi.

    Si era ancora in tempo di vacanze estive, ma tanti tifosi avevano anticipato il rientro dal mare per non perdersi il debutto casalingo della nuova Inter, e lo stadio era bello pieno. San Siro era diverso da oggi. Prima che fosse ampliato per i mondiali di Italia ‘90, contava solo due anelli, capaci però di ospitare più di 80 mila persone. Tranne le costose poltrone del primo anello, il resto dello stadio era costituito da gradinate. Si arrivava e si prendeva posto negli spazi liberi ed era possibile teoricamente fare tutto il periplo della struttura partendo da un punto per poi ritornarvi, come Magellano. Non c’era la divisione in settori, non c’era la copertura, non c’erano posti numerati. I tifosi portavano con sé i mitici cuscinetti pieghevoli con i colori della squadra, che le bancarelle vendevano appena fuori dello stadio,

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