La ballata dei Dead Cats
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Il Romanzo costituisce il quarto ed ultimo capitolo della cosidetta quadrilogia ultras di Pierluigi Felli, iniziata con L'amor teppista e proseguita con Vendetta ultras e Ragazzi di curva. Il protagonista Ismaele De Santis e la fida spalla Baconchi sono oramai vecchi, ma hanno ancora qualche conto da regolare con i nemici di sempre. Il tutto per evitare di morire da pensionati. Un proposito che li porterà, da facinorosi fuori tempo massimo, a rivivere sensazioni da stadio sopite nel tempo, affrontando così nuove folli situazioni. Una storia che prende spunto da vicino anche sulla più antica e discussa società di calcio romana: la S. S. Lazio e delle sue origini affondate nel tempo.
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La ballata dei Dead Cats - Pierluigi Felli
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Come in «The Ring», quel celeberrimo film in cui non si capisce nulla, anche qui c’entra una videocassetta.
Strano a dirsi ma ogni evento che vi racconterò è dipeso da un semplice, retrò, malregistrato, economico, ex vergine Vhs for daily use da 120 minuti. Eppure credetemi: è andata proprio così.
Tutto è cominciato la mattina del mio settantottesimo compleanno, e da fonte Istat a settantotto anni esatti l’uomo muore.
La donna può arrivare, almeno dalle parti di Okinawa, anche a duecento. Ma l’uomo no. L’uomo muore proprio a settantotto, e se c’è qualcuno che questa età è riuscito a superarla, allora vuol dire che è un baro, che è un ufo, o che quegli anni in più li ha rubati ad un altro.
Non mi dilungo dunque nel dirvi che io, quel giorno là, mi alzai dal letto con una certa apprensione nel cuore.
Feci un lungo respiro di momentaneo sollievo solo quando pensai al fatto che erano le sei e quindi davanti a me, dato che avevo visto per la prima volta la luce alle ventuno e venticinque, avrei avuto quindici ore abbondanti.
La mia vita, come si dice, l’avevo svolta. Non mi ero fatto mancare molto, nel bene e nel male, e da qualche tempo Ettore e la moglie mi avevano pure reso nonno.
Che bel quadretto! Tenero, dolce, edificante. Patetico.
Poi finalmente arrivò quel filmato e, come accennato, ogni cosa cambiò.
A pranzo c’erano tutti, non che fossimo una famiglia numerosissima – del resto non eravamo né zingari né seguaci di Chiara Lubich – ma c’eravamo tutti: io, mia moglie di settantaquattro anni, mio figlio di trentasette, mia nuora (mi pare si dica così) di trentuno e il mio nipotino di due. Quest’ultimo l’hanno chiamato Spartaco. Mi piace Spartaco. Spartaco Kirk Douglas. Spartaco Landini, difensore grezzo del Palermo negli anni settanta. Del secolo scorso, ovviamente. A quei tempi i calciatori di venticinque anni ne dimostravano il doppio e anche qualcosa in più. Pelato a centro testa, capelli soltanto ai lati e a coprire la nuca, basettoni e facce vissute di gente che era rimasta, anche con la maglia addosso, povera e contadina.
Spartaco comunque mi mancava proprio. Spartaco De Santis suona pure male. Sembra un nome da Banda della Magliana. Anche questa, roba del Novecento.
Altri tempi, altre tempre.
La lasagna fumava e la besciamella colava ma non troppo. Solo con il secondo, però, mi accorsi che nulla era stato lasciato al caso: e qui bisogna dire che il pollo, tranciato, era stato posizionato esattamente al centro della padella, e tutte le patatine a tocchetti intorno. Acqua frizzante, quella che fa le bollicine blu, vino rosso che macchia il bicchiere e insalatina al radicchio di ulteriore contorno. Quando giunse sul tavolo la torta – con la candelina che sembrava per diametro un candelotto e due numeri di cera, il sette e l’otto, a far da grattacieli – ci sentimmo ognuno più felice di quello accanto. Io soffiai e loro applaudirono. Spartaco immaginò che ce l’avessimo con lui e quindi l’operazione fu ripetuta dieci volte e i battiti di mani non finirono praticamente più.
Dovevo sentirmi proprio bene, quel giorno, per essere uno a cui restavano poche ore. Al punto che la statistica ufficiale, forse, poteva essersi anche sbagliata. Nel momento in cui arrivarono i regali giunsi però ad affermare, cinico e freddo, che nessuno doveva permettersi di criticare l’attendibilità scientifica degli addetti alle previsioni funebri.
Perché era meglio la morte di quei regali lì.
Mia moglie mi donò una rosa. Il che è anche romantico se non fosse stato per il bigliettino di accompagnamento, sul quale aveva scritto: «Con stima e simpatia.
Rosanna».
Figlio e nuora, invece, avevano speso – ci tennero a dirlo – un sacco di bigliettoni, non bigliettini, per l’attrezzatura completa Amplifon. D’accordo che ero diventato sordo, ma rimarcarlo così! Comunque stavo per aggiungere come una campana ma mi sono bloccato quando ho pensato: ma come fa una campana, che è oggetto e non animale, ad essere talmente sorda da assurgere addirittura a termine di paragone, a detto popolare, ad emblema della sordità?
Spartaco, Spartacuccio mio, infine mi aveva assestato il colpo di grazia. Perché mi regalò un ciuccio di gomma cigolante, che mi fu passato come si fa col testimone e pure con la faccia, saggia, di chi ti vuol dire: «Vedrai ti servirà».
Per fortuna nel pomeriggio, quando ognuno fu tornato a casina propria, che poi era la stessa per tutti e tre gli ospiti, mi venne in mente, così come si obbedisce ad un impulso esterno, di andare ad aprire la cassetta della posta, mansione che, di regola, svolgevo invece poco dopo le undici. Mezzo dentro e mezzo fuori ci trovai un pacchetto. A causa della posizione non occorse neanche l’aiuto della chiavetta per estrarlo. Lo sfilai con facilità e lo aprii senza supporre alcun meccanismo al trinitrotoluolo.
Avvolta da un cartoncino marrone e assolutamente priva di apposito, specifico e caratteristico contenitore, mi ritrovai tra le mani una videocassetta. Il mistero me lo sono giocato nelle prime righe, del resto.
Il donatore, che si era firmato Baconchi, aveva pensato di darmi già un indizio scrivendo su una targhetta adesiva il titolo Fedayn. Ma io chiamavo mia moglie Henrietta, figuratevi un po’ come stavo di memoria, e di conseguenza non colsi un granché da quella parola chiave.
Incuriosito sì, ma vieppiù meditabondo, salii le scale a tre a tre come facevo da adolescente eccitato e senza curarmi di lei – sempre mia moglie – prima passai e poi, invertendo l’ordine cronologico del proverbio di dantesca memoria, guardai.
Il filmato durava un minuto e venti secondi soltanto, ma era un documento d’epoca. Almeno per me. Le immagini sortirono l’effetto di aprire uno squarcio nella mia memoria seppellita dagli anni.
Mai auguri, in sintesi, furono più graditi.
C’era una telecamera fissa e una voce, fuori scena, intervistava una quindicina di minorenni inquadrati. Il frastuono di uno stadio a fare da