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Fiocchetto lilla
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E-book442 pagine5 ore

Fiocchetto lilla

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Info su questo ebook

Indicati con l'acronimo DCA e più comunemente riconosciuti come "Disturbi del comportamento alimentare", sono tra i disagi più diffusi tra giovani e giovanissimi. In questa intensa raccolta, gli autori rompono il principale tabù legato ai DCA: la consapevolezza. Portando a galla testimonianze, dubbi, paure, perplessità e soprattutto speranze, il volume combatte la subdola e silenziosa avanzata del fenomeno, che crea danni fisici e psicologici da non sottovalutare mai. 
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2024
ISBN9791223006672
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    Anteprima del libro

    Fiocchetto lilla - AA.VV.

    AA.VV.

    Fiocchetto lilla

    Raccontare i disturbi alimentari

    AA.VV.

    Fiocchetto lilla

    © Rudis Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – dicembre 2023

    www.rudisedizioni.com

    rudisedizioni@gmail.com

    il pozzo di anita

    di Alessia Allevi

    Come faccio a respirare….

    come ci riesco se il cuore mi batte a mille nel petto mentre singhiozzo… ho il voltastomaco…presto arriveranno i conati di vomito.

    Detesto questa sensazione ma ormai fa parte di me e si impossessa di ogni fibra che compone il mio essere; che essere sono io... non lo so…non so come definirmi, chi sono io?... Cos’è la mia vita? Cosa vuole da me!

    Perché mi prende così male ogni volta! La mia testa è uno sciame di domande a cui non so dare risposta: so solo che ho bisogno di questa sensazione che è l’unica certezza che so essere mia, c’ è sempre per me; il resto è qualcosa che mi attanaglia l’anima fino a stringerla in una morsa, una morsa che si accanisce a ricordarmi che devo morire ogni giorno un po’ di più per sentirmi degna di vivere. Il dolore è una campana che suona al mio nuovo giorno i rintocchi dei miei silenzi; non li sopporto i silenzi, mi gridano il mio bisogno di aiuto puntualmente disatteso, lo vedo elevarsi nell’etere per rimbalzare tra muri di indifferenza per finire aggrovigliato nelle mie viscere; è li che si è annidato e sembra che gli piaccia molto tormentarmi.

    «Sei bella», mi dicono…gli sguardi della gente scolpiscono il mio corpo, il mio viso, la loro indifferenza, mi guarda ma non vede le voragini della mia anima, quel pozzo senza fondo che nessuno riempie con l’acqua dell’amore. Ho fame, ho una perenne fame che mi porta a riempire questo vuoto con ogni sorta di cibo che non mi basta mai; ho bisogno di sotterrare il dolore, ho bisogno di attutire l’eco del suo richiamo: ogni boccone è una carezza che mi concedo insieme all’abbraccio che mi manca: mi strafogo di carezze ed abbracci fino all’orlo delle mie capacità in una sfida a me stessa che devo vincere.

    Cosa ne sanno gli altri del tunnel che attraverso quotidianamente per arrivare a cercare un filo di luce in fondo: riempio il pozzo con tutto quello che riesco ad ingurgitare; straborda ogni volta in tutta la sua ribellione al mancato ascolto della sua essenza.

    Ora mi sovrasta l’unico attimo di estasi, quello che segue la violenta liberazione; il momento della quiete che segue la tempesta si ricompone degli istanti in cui tutto è compiuto nel rituale della mia purificazione; le poche forze che mi rimangono mi servono per rimettermi in sesto prima del rientro a casa di mia madre: non sopporta di assistere a tutto questo, lo so.

    La notte quando scendo in cucina a cercare il mio tranquillante nel cibo la sento piangere nonostante si sforzi per non farsi sentire…è una brava donna mia madre, le voglio bene.

    Se solo capisse che non ho bisogno di parole ma che mi basterebbe avere un suo sguardo nel mio,

    in un dialogo di amore ancestrale tra madre e figlia che è l’abbraccio primordiale della vita di cui ho bisogno per sentirmi voluta, accolta, custodita senza riserve.

    Il suo pianto non placa la mia fame, la irrigidisce nel suo acuirsi.

    Torno in camera ma la stanchezza mentale non segue quella fisica: l’idea del mio domani è la visione di un quadro a toni chiari e decisi: segue i tratti della strada tracciata del mio futuro che mamma e papà hanno pianificato per me in ogni colore e sfumatura, nel minimo dettaglio, dal percorso di studi al mio prossimo lavoro nello studio avviato di papà in cui mi vedo seduta china su montagne di scartoffie, cercherò di non pensarci troppo altrimenti mi sarà difficile prendere quel poco di sonno ristoratore che mi si concede.

    Stamattina il mio telefono ultimamente trascurato non smette di squillare e suonare ai messaggi

    che non leggo; gli amici lo sanno che non ho tanta voglia di chiacchierare eppure qualcuno sembra non averlo capito; ormai non mi smuove più neanche la curiosità di sapere chi ci sia dietro una chiamata, un messaggio, o cosa voglia da me.

    Ora suonano anche alla porta…sicuramente sarà il postino che deve lasciare qualche comunicazione

    a mio padre…rimango sorpresa nel vedere che dietro quella porta ci i sorrisi di Alice, e Sara, le mie amiche del cuore mentre sopraggiunge da dietro una mano ad accarezzarmi la spalla; è la mano di mia madre che guardandomi dritta negli occhi mi sorride amorevolmente in silenzio mentre mi lascio accompagnare alla macchina; a breve mi porterà nel luogo in cui trascorrerò i prossimi giorni; io mamma e papà ci dedicheremo del tempo prezioso per aiutarmi a capire che io esisto e che c’è tanto amore anche per me; ha solo bisogno di riuscire a trovare la strada per raggiungermi.

    ci salva sapere che tutto cambia

    di Alice Andreatta

    La bella Chiara rideva illuminata delle luci del locale e di quando in quando scostava un po’ la sua frangetta mora da bambina, mentre un’amica le raccontava del suo ultimo incontro con un ragazzo e di che gran cafone era stato, quando il respiro le si arrestò nel petto. Era un gruppo di ragazzi quello che aveva visto avanzare verso di loro, con il portafogli alla mano, in cerca di un drink. Tra di loro con sorpresa aveva riconosciuto un volto: un ragazzo che non aveva più rivisto dagli anni delle superiori, ma che anche dopo tutto quel tempo le fece venire una vertigine. La sua amica, Paola si chiamava, se ne accorse subito e la guardò ammiccante, come a dire Quel ragazzo ti piace proprio eh? Ma non era affatto così: non era un sobbalzo adrenalinico di fronte a un bel ragazzo il suo, bensì una sensazione amara, la vertigine del sentirsi cadere in un vuoto, nel profondo pozzo dell’incomprensione umana.

    Ed è proprio questa caduta che portò via Chiara da quel momento con gli amici, quell’emozione quasi con violenza la riportò in quel vecchio edificio giallo e spento che per cinque anni era stato il liceo che frequentava. Tutt’a un tratto sentiva una delle tante finestre sbattere in qualche classe, e dei passi riecheggiare più del dovuto in quegli immensi corridoi bianchi e grigi che un tempo erano stati parte di un convento. Dalla finestra si vedeva già il sole calare in quel freddo pomeriggio d’inverno e il corso di informatica era ormai terminato, Chiara avanzava verso l’uscita insieme ai suoi compagni di scuola, parlava del più e del meno come fanno gli adolescenti di tutto il mondo, in cerca di amicizia e approvazione. Guardò l’orologio: mancava ancora molto tempo prima che ci fosse un autobus disponibile a riportarla a casa, nel piccolo paese montano in cui viveva, così disse che sarebbe andata a comprare una gonna in un negozio vicino. Era una gonna speciale: l’aveva lungamente cercata passando in rassegna i negozi del centro e da mesi la puntava, le ci era voluto davvero molto per mettere da parte i soldi per acquistarla ma finalmente ce l’aveva fatta!

    Ed è così che, rendendosi conto di avere molto tempo da aspettare anche lui, Daniele – uno dei ragazzi del corso – si offrì di accompagnarla. Camminarono fianco a fianco fino al negozio scherzando insieme sul corso, sul loro insegnante, sull’esame che si avvicinava e sul Mondo che solo ora, in adolescenza, iniziavano ad affrontare. Entrarono ridendo, all’unisono, e si avvicinarono alla parete in fondo. Chiara sapeva bene cosa voleva: allungò la sua piccola mano verso l’alto, afferrò due blocchi informi color jeans scuro dallo scaffale più alto e si diresse svelta verso il camerino. Daniele non fece in tempo ad accomodarsi su uno dei morbidi sgabelli in velluto rosso lì accanto che la porta del camerino si aprì, mostrando la giovane donna con indosso una semplice minigonna di jeans scuro, cucita sui lati in modo da darle la sagoma di una romantica campanella primaverile.

    Chiara era serena, il suo intento era semplicemente verificare che le calzasse bene la taglia 36, la più piccola – così piccola che riusciva a trovarla solo in quel negozio, seppur un po’ troppo costoso per lei. Tuttavia il prezzo non era gran cosa di fronte alla tranquillità di poter indossare una gonna o un pantalone senza sentirli costantemente scendere sui fianchi, inesorabilmente troppo larghi per la sua esile figura. Per non parlare poi del dover continuamente sentire le persone lamentarsi della sua schiena scoperta e delle mutande a vista, come se fosse una scelta stilistica la sua.

    Questi e altri pensieri le passavano per la testa, ma furono interrotti da Daniele, che sotto l’effetto di un evidente e incontrollabile disagio esclamò «Ti prego copriti, mi fai impressione!» Solo allora la ragazza si rese conto dell’espressione preoccupata del ragazzo, che sembrava non riuscire a spostare lo sguardo dalle sue gambe scheletriche, ora ben visibili sotto la gonna blu.

    Chiara non riuscì a rispondere, l’imbarazzo era tale da averle completamente paralizzato le corde vocali e – in parte – anche i pensieri. Ormai procedeva per istinto, in modo rapido e meccanico: tirò la tenda, sfilò la gonna, mise i pantaloni, usci dal camerino e prese la porta...il tutto senza dire una parola, senza riuscire a rivolgere nemmeno uno sguardo verso quell’amico che a causa della sua debolezza era passato dal ridere con lei al trasformarsi in uno specchio maledetto: uno specchio che rifetteva l’immagine di un mostro innaturale, e questa immagine era la sua!

    Qui il ricordo iniziò a sfumare, forse il dolore le aveva fatto vivere una sorta di amnesia, forse era solo passato troppo tempo, ma si rese conto che non riusciva a ricordare nulla di cosa avesse fatto Daniele, dell’autobus ne del suo ritorno a casa. Ricordava solo un forte senso di nausea. Chissà, forse sarà stato quello a farla tornare alla realtà, o forse era stata la voce della sua amica Paola che chiamava «Chiara...Chiara, ehi, che hai??». Fatto sta che ora Daniele, il ragazzo di quel giorno, era proprio davanti a lei e la stava salutando come se nulla fosse. Per un attimo quegli anni passati senza incontrarlo le passarono davanti: le diete, le visite mediche, le ricadute mentre la sua vita proseguiva tra traslochi, lavori di fortuna per sostenere prima la sua laurea triennale, poi la specialistica. Nel frattempo aveva incontrato persone, amori, interessi e aveva curato in parte quell’ansia che le scavava un’insopportabile vuoto nel cuore e le consumava il corpo e le membra...e così se ne accorse: tra le mille cose accadute in quegli anni e le molte vite che aveva vissuto... era guarita!

    La ragazza guardò Paola e riprese a respirare normalmente. Rivolse allora a Daniele uno sguardo, non lo sguardo che gli aveva negato anni prima ma uno sguardo nuovo: quello di una donna! Esclamo: «Ciao, buona serata!», si allontanò con la sua amica, perché si rese conto che anche se aveva compreso l’immaturità di quel ragazzo non era riuscita a perdonarlo e perché a una persona così non aveva davvero nulla da dire. Tuttavia mentre gli girava le spalle le sue labbra rosse di rossetto si schiusero nel più ampio e sincero dei sorrisi nel realizzare la grandezza della sua forza e della persona che era diventata. Il suo sguardo incrociò quello di Paola, che le sorrise a sua volta rilasciando un’energia che avrebbe contagiato tutto il locale e che non avrebbe mai più lasciato l’anima delle due giovani donne, forti della loro esperienza. Erano proprio cambiate, pensava. E forse era stata proprio questa consapevolezza, il sentire in fondo al loro essere ferite e sbagliate che tutto cambia continuamente a farle andare avanti nei momenti più duri, forse è sapere che tutto cambia... che ci salva.

    anna la prosciuttona

    di Jonathan Antal

    Anna cammina per strada. L’eco delle risate sarcastiche delle belle modelle della 4 B è ancora dentro di lei. Il cuore va a mille. Le gambe ( troppo grosse?) corrono veloci per allontanarsi dal luogo dell’ansia. Anna: 17 anni, 85 kg su 1.60 e la voglia di sparire, di annullarsi, di non essere.

    Anna che si trascina al liceo senza aver fatto colazione, che cammina per km per bruciare calorie e che poi si butta sul cibo per reprimere il vuoto.

    «Anna la prosciuttona, Anna la secchiona, Anna del gruppo degli sfigati».

    Anna che nella foto su WA ha aggiunto mille filtri per apparire più magra, più simile a loro.

    «Sono grassa, grassa e inutile», si ripeteva tra sé, mentre la mente vagava.

    Vorrebbe essere magra, vorrebbe essere sicura, vorrebbe pure, chissà, avere una chance con il suo compagno di scuola dallo sguardo perso nel vuoto. Lui, uno dei pochi che le parla. Biondo con gli occhi azzurri, talentuoso. Sembra gentile.

    Ma…

    Anche alle medie un ragazzo carino le aveva lanciato un bigliettino: Vuoi uscire con me ? Sì o No? Lei era innamorata di quel bulletto dal fisico scattante e gli occhi color carbone. Aveva barrato sì con una penna dall’inchiostro rosa shocking e profumato. E poi lui, durante l’intervallo delle 12 , l’aveva raggiunta con il gruppo dei bulli e le aveva lanciato un biglietto : «Io no… brutta cicciona!»

    Allora pesava 60 kg. Le foto ci fanno vedere una bambina cresciuta troppo in fretta. Non grassa. Era una taglia 42 , in un mare di bambine taglia 36.

    Aveva ingoiato in 30 secondi lacrime e focaccia rossa. Poi a casa aveva mangiato tutto ciò che di commestibile aveva trovato: la pasta preparata dalla mamma e poi due panini con tre scatolette di tonno, un etto di cioccolata e 3 yogurt. Era piena, aveva placato l’ansia. Poi la rabbia. Nei confronti di se stessa, dei compagni, della mamma che l’avrebbe voluta diversa, della nonna che la rimpinzava di dolci.

    A questo punto, prima di fare i compiti, Anna si ficca un dito in gola e vomita tutto. Vomita la pasta, la focaccia, la cioccolata, il tonno, il pane, lo yogurt, la rabbia, la frustrazione, l’angoscia.

    Il primo episodio di abbuffate, che continuano ancora ora…

    A volte va meglio, poi arriva l’ansia dello studio, l’insicurezza e via: abbuffata senza senso.

    4 di matematica: Anna la prosciuttona è grassa e non capisce niente. Dice la voce dentro di lei. Un pacco di biscotti, una vaschetta di gelato e un panino con il tonno. Poi la testa nel cesso se è a casa. Altrimenti il mal di stomaco e la frustrazione l’accompagnano tra la biblioteca e i palazzoni popolari di un quartiere periferico.

    Festa di compleanno di N , la bella della classe , quella col culo d’acciaio e le zampe palmate dentro le scarpe taccate . Invitate tutte tranne lei: Anna la prosciuttona non è instagrammabile. Vaschetta di gelato, un litro di coca cola, uno sfilatino con la nutella, l’abbraccio con il cesso e le lacrime che sgorgano.

    85 kg di ansia. 85 kg e non può indossare i crop top con la pancia in evidenza. Il budino molle che ha al posto degli addominali è nascosto da un maglione informe. Le altre la guardano, la giudicano. «Prosciuttona, quarto di bue cellulitico» è come l’aveva definita R, lo scorso anno, nella chat di classe. «È cyberbullismo lasciatela stare, stupide oche» Era intervenuto il biondino. Sì, lui, alla fine era il difensore dei casi umani. Non del resto partecipava a tutte le manifestazioni per i diritti delle minoranze. Ovviamente la prosciuttona era la minoranza obesa in un mondo di ragazze filiformi, che dichiaravano di essere grasse quando non entravano perfettamente in una 38.

    «Ho messo su ciccia» (taglia 40… E lei Anna annegava anche ciò nella crema al cioccolato, mentre faceva fatica ad allacciare i pantaloni taglia 50).

    Le vacanze di Natale le portano il covid. Non riesce a mangiare. Torna a scuola dopo due settimane. La bilancia dice 83 kg. Si trucca senza un perché.

    Tutti la ignorano, come al solito. Il ragazzo carino e riservato la guarda, le si avvicina : «Ti trovo bene. Sei dimagrita. Stai bene truccata così».

    Anna si guarda le scarpe e corre al suo banco. Guarda di sottecchi gli altri. Quando arriveranno a prendermi per il culo? Pensa tra sé. Quando il biondino andrà a recuperare il credito della birra o del pacchetto di sigarette scommesso con qualcuno?

    Perché sa che sarà così…Un complimento al maiale truccato? Figuriamoci. Detto da lui : musicista, bravo a scuola con l’aria di quello che è lì per caso?

    Invece fino alle 14.00 nessuno la guarda, tranne loro.

    Le solite modelle con le gambe fasciate nei leggins che osservano i suoi prosciutti nascosti da una tuta morbida e nera. Il nero sfina… sì… se sei 1,80 per 60 kg… sfina. Altrimenti sei solo un prosciutto scuro.

    Lui e i suoi amici, però, non le dicono nulla. Anzi ogni tanto accennano a un sorriso.

    Passano due giorni. Lui, cappotto, occhiali che nascondono fanali azzurri persi nel vuoto, è con il suo amico del cuore . Si stanno avvicinando. Cosa vorranno?

    «Anna.. c’è una conferenza sull’ambiente in una scuola qui vicino? Vieni con noi? Ci farebbe piacere».

    Non è un appuntamento, non è amore. Ma loro non la stanno prendendo in giro, la stanno invitando davvero. Le stanno sorridendo.

    Nel secondo intervallo il biondino si avvicina e le dice: «Dovresti avere autostima . Sei una bella persona».

    La strada è lunga per Anna. Lei lo sa. Intanto, però, finalmente, ha la voglia di indossare un maglione colorato e telefonare allo psicologo.

    A casa cerca il numero di quella terapeuta esperta in disturbi alimentari. Poi indossa una maglia verde che mette in risalto gli occhi, si trucca leggermente e si incammina verso la conferenza.

    cercare il desiderio

    di Tiziano Apolloni

    Anna-lisa, di nome e di fatto. Consumata nel corpo e nel desiderio di vivere, è stata una delle mie prime pazienti, e io il suo primo psicologo.

    Diciassette anni lei, io trenta. Era arrivata al mio studio condotta letteralmente per mano da una comune amica, che si era presa a cuore la sua condizione fisica. Era calata di peso, da 60 a 35 chili in meno di tre mesi, in una sorta di indifferenza dei suoi genitori che pur rilevando quanto Annalisa stesse scomparendo dentro le ampie felpe che indossava, non avevano preso alcuna iniziativa di intervento. Caduta di peso vertiginosa iniziata con un proposito di dieta alimentare, cui era seguita un’eccessiva pratica del footing serale. Quindi una riluttanza ad accettare le pietanze preparatele dalla madre, e infine il rifiuto di un’alimentazione che non fosse rigorosamente dietetica, praticata da Annalisa nella solitudine della sua camera. I pasti che Annalisa era costretta a consumare a tavola con i genitori venivano poi rigurgitati nella tazza del bagno.

    Più che indifferenza ai suoi genitori la consunzione di Annalisa aveva provocato uno stato di paralisi emotiva: sua madre, già di per sé poco incline all’allegria, si era appiattita in umore cupo, senza variazioni e poco reattivo alle sollecitazioni, mentre suo padre, disertate le amicizie esterne, trascorreva il suo tempo in casa a cucinare pietanze che potessero appetire Annalisa; oppure si isolava in camera, seduto immobile al buio.

    Tre mesi prima, quando lo sguardo di quel ragazzo aveva cominciato ad insistere nei suoi pensieri, Annalisa si era trovata a interrogare lo specchio, a chiedergli se quell’immagine potesse essere desiderabile. Ma le risposte erano deludenti. I seni, i glutei e il ventre non disegnavano linee di desiderio, bensì apparivano piuttosto gonfiori informi dall’aspetto molliccio.

    Né la mamma interpellata era stata d’aiuto.

    «Mi diceva - riferì Annalisa - che le mie sono tutte fisse, che ai ragazzi un po’ di carne piace, e che se sono pelle e ossa nessuno mi guarderà. Ma queste cose a lei non sono mai interessate. Da giovane era bella, e magra; ma ora pesa 80 chili e non le importa più di niente. Neanche a mio papà gli interessa più di niente.

    Io non volevo finire come loro. Io volevo dimagrire. Mia madre aveva sempre avuto la fissa del cibo, che fin da piccola io non potevo rifiutare. Io dovevo mangiare, e solo se avevo mangiato tutto ero una brava bambina. E non potevo fare i capricci, come tutti i bimbi.

    Mi urlava addosso: «Devi mangiare, un sacco vuoto non sta in piedi!», ma a me, più che un sacco vuoto, pareva di essere un sacco sempre pieno.

    Annalisa si era imposta una dieta. E se pur la bilancia aveva premiato i suoi sforzi, non li premiava lo specchio, che mostrava sempre pieghe, cuscinetti e rigonfiamenti insopportabili.

    Comunque sua grande soddisfazione era stata riuscire a resistere a stimoli della fame così intensi come non aveva mai provato. Sopportare i morsi della fame, sopportare il desiderio senza soddisfarlo, era diventata una condizione appagante, perfino esaltante, di cui non riusciva più fare a meno.

    Poi nel tempo l’appagamento esaltante si era inasprito, e aveva assunto gli aspetti di una battaglia spirituale per elevarsi a corpo sempre più magro, sempre più spolpato, a vittoria ascetica dello spirito sulla carne, nel delirio di una rappresentazione il cui ultimo ideale estetico era lo scheletro.

    Annalisa non aveva retto ai tre giorni che dovevano passare per il nostro secondo appuntamento. Il suo peso era sceso a 32 Kg, e i parametri corporei drammaticamente collassati. Era stato necessario il ricovero ospedaliero.

    Mi sono recato al suo capezzale. Nel lettino in penombra al centro della stanza un lenzuolo bianco velava come un sudario il suo corpo emaciato.

    Mi vide. A fatica le sue esili braccia issarono la schiena ossuta sul cuscino dorsale.

    Le sue labbra esangui si contorsero in un movimento che avrebbe voluto essere un sorriso, ma che la spossatezza costrinse a una smorfia di tristezza.

    Parlai io. Le dissi che i nostri incontri sarebbero avvenuti lì, nell’ attesa che lei ritornasse a casa. Dissi che quel luogo mi sembrava un posto tranquillo, e che ero certo che quelle persone gentili le sarebbero state d’aiuto.

    Poi arrivò sua madre, con in mano un piccolo vassoio incartato in una carta a fiori.

    Io in equilibrio nel mio sorriso instabile, la madre tesa nel suo silenzio immobile.

    Fu Annalisa a parlare. Chiese cosa contenesse quel pacchetto. Sua madre non rispose ma glielo porse tendendo in avanti le mani. Annalisa lo prese e l’aprì, con gesti scanditi dalla lentezza cui la sua debolezza la costringeva. Tolse ordinatamente l’involucro, lo pose sul letto, e guardò i sei cannoncini alla crema allineati nel vassoio.

    Alzò gli occhi, che la magrezza aveva reso enormemente grandi e tristi, e rivolta a sua madre, chiese:

    «Tu pensi che io non sia capace di mangiare vero?».

    E sempre guardandola negli occhi, lentamente si infilò in bocca i sei cannoncini, uno di seguito all’altro, mentre grosse lacrime le solcavano le gote.

    Il giorno seguente il medico ci informò che durante la notte Annalisa aveva avuto uno scompenso psicotico, e che il suo corpo, nutrito per mesi a sola acqua e poco cibo dietetico, non aveva retto al bombardamento di carboidrati e zuccheri di quei sei cannoncini alla crema. Per cui il medico di turno aveva dovuto praticarle una lavanda gastrica.

    Nella partita tra il corpo e il desiderio, la bulimia che soppianta l’anoressia indica solamente un cambiamento di strategia.

    Se l’anoressia si nutre del desiderio che la fame evoca, la bulimia lo soffoca nell’appagamento dell’abbuffata.

    Nei due mesi successivi Annalisa era ingrassata di 25 chili. «Sono cambiata, - mi disse - sono tornata a essere quella di prima, anzi peggio, perché prima mi rimpinzava mia madre, ora lo faccio da sola. Mangio continuamente senza sentire fame. E siccome il cibo mi è indifferente, mi riempio di pane, che almeno costa poco».

    Ho avuto buoni maestri. Mi hanno insegnato che crescere significa assumere su di sé il proprio desiderio, e rimanerne fedeli. Desiderare non è bruciare di passione, bensì assumersi la responsabilità di amare e di agire. Ho cercato di fare mia quest’ etica di vita, e di farne un’etica per la terapia. Ho detto ad Annalisa che per recuperare il suo desiderio, del cibo e della vita, dovevamo cercarlo laddove era andato perduto.

    Abbiamo così avvolto il filo rosso che annoda il presente al passato, scoprendo che nella storia della sua famiglia il desiderio femminile era sempre stato esiliato.

    Fin da quando la nonna di Annalisa, Maria, abbandonata infante nella ruota degli esposti della Chiesa di San Rocco, venne consegnata alla pietà di un orfanatrofio.

    Al tempo, l’accoglienza negli istituti religiosi comportava fondamentalmente due obblighi. Rigida osservanza delle regole educative e repressione dei desideri in tutte le loro forme. Mortificazioni inutili, perché il desiderio non rinuncia mai a sé stesso. Alimentandosi della propria rinuncia, scava i suoi cunicoli per riemergere sempre laddove era stato vietato.

    E così Maria a 17 anni, al sesto mese di gravidanza, venne espulsa una seconda volta, e riconsegnata al mondo nello stigma del suo disonore.

    Anche il mondo le chiese un prezzo di riscatto: la riabilitazione di Maria è stata possibile solo nella cura e nella dedizione al figlio del peccato, e nella rinuncia al peccato stesso. E così il suo corpo desiderante, zavorrato dai sensi di colpa, venne per sempre consegnato, come in un funerale di mare, alle profondità dell’oblio.

    Dal quel naufragio del desiderio l’unico sopravvissuto fu l’amore tra la madre e il figlio, che durerà tutta la vita, e oltre.

    Nell’inevitabilità delle cose che ritornano, quell’uomo sposerà la madre di Annalisa a causa una gravidanza inattesa, e il loro destino sarà di vivere un amore di second’ ordine, ridotto, sempre all’ombra di un amore più grande.

    Nell’inevitabilità delle cose che ritornano, anche la madre di Annalisa abbandonerà il suo desiderio tra le pieghe di un’obesità che era cominciata con la gravidanza.

    Il tempo della terapia ha potuto restituire ad Annalisa frammenti di emozioni e di ricordi, e ricostruire, in un’archeologia ora possibile, la storia della perdita del suo essere donna: i rimproveri di una madre a una bimba che balla e si compiace delle proprie smorfie davanti allo specchio, o il divieto di colorarsi le unghie e di vestirsi da ballerina, le si rivelarono le misure della censura e del divieto che la femminilità aveva subito nella storia e nella carne di Annalisa. Carne che ricordò l’avvampare della vergogna per lo schiaffo in pieno viso preso da sua madre perché, giocando a nascondino in casa, si era chiusa nell’armadio con un bambino, o per quelli schiaffi presi perché veniva colta a curiosare con le dita nel proprio inguine, o perché, più avanti con l’età, era stata sorpresa in bagno a depilarsi le ascelle con il rasoio da barba di papà.

    Trame di ricordi che inseriti nell’ordito della sua storia famigliare, hanno dato ad Annalisa la possibilità di scorgere nel manifestarsi della sua anoressia il valore della lotta di un corpo che voleva essere visto per i suoi desideri e non per i suoi bisogni.

    Verso la fine della terapia il suo corpo allo specchio appariva, realisticamente, ancora un po’ abbondante. Ma piaceva al suo ragazzo, e questo le era sufficiente. Fece veloci progressi in tempi abbastanza brevi, non superiori ai due anni.

    Agli ultimi incontri Annalisa mi chiedeva che le riservassi la sua ora di terapia, che mi pagava, ma mi aveva chiesto di poter decidere lei, senza avvertirmi, se presentarsi o meno, nel rispetto di una distinzione, ancora fragile, tra desiderio e obbligo.

    Quando lei non c’era io ho sempre rispettato la sua richiesta. Me ne stavo li, nella nostra ora, a pensare che non abbiamo tradito il desiderio. Né il suo, né il mio.

    mi chiamavano moby dick

    di Laura Aquilani

    Ho odiato il mio corpo con tutta me stessa, ho cercato di cambiarlo, di omologarlo a quelli che, per decenni, ci hanno sbattuto in faccia come degli standard di bellezza e felicità. Ci ho provato, ma l’ho odiato perché comunque sempre cosciente di avere una fisicità tutta mia, in una quotidianità che ci fornisce direttive su come dovremmo essere, e di fatto ci impedisce di essere come vorremmo, o come semplicemente siamo. Come se fosse normale esser tutti impeccabilmente uguali, atletici… magri.

    Ho conservato, e conservo ancora, gli insulti e gli scherni che ho subito, li ho ingoiati tutti quanti, uno ad uno, fino a che loro hanno ingoiato me. Ho odiato per anni il riflesso della mia immagine. Oggi mi guardo allo specchio e vedo la donna bellissima che sono diventata, anche grazie alle cattiverie. E il mio unico rammarico, è il tempo perso con la faccia sopra il water.

    Il primo episodio che mi viene in mente è il sorriso sul volto stupefatto di una compagna delle elementari durante una riunione social. Una di quelle organizzate con i vecchi compagni di scuola che per anni hai continuato ad incontrare per il quartiere senza che neanche ti salutassero, ma che improvvisamente ti braccano su Facebook e sono colti dall’irrefrenabile desiderio di sedersi di nuovo tutti insieme davanti

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