Ma mi manca
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Anteprima del libro
Ma mi manca - Roberta Cadorin
Roberta Cadorin
MA MI MANCA
Prima Edizione Ebook 2020 © R come Romance
ISBN: 9788893472005
Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione
img1.pngwww.storieromantiche.it
Edizioni del Loggione srl
Via Piave 60
41121 Modena – Italy
romance@loggione.it
http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it
img2.jpgLa trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.
Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.
Roberta Cadorin
MA MI MANCA
Romanzo
INDICE
CAPITOLO I
VIRGINIA
CAPITOLO II
UN ALTRO MONDO
CAPITOLO III
CONFORTO DI LANA
CAPITOLO IV
ORDINE NEL CAOS
CAPITOLO V
IL PRIMO GIORNO DEL RESTO DELLA MIA VITA
CAPITOLO VI
VIOLA
CAPITOLO VII
COSA MANCA
CAPITOLO VII
INSIEME
CAPITOLO VIII
I SOGNI SI REALIZZANO
CAPITOLO IX
LA PRIMAVERA E LE SUE SORPRESE
CAPITOLO X
IL RINCONTRARSI
CAPITOLO XI
COLUI CHE ROMPE LE REGOLE
CAPITOLO XII
MATRIMONIO
CAPITOLO XIII
LA CURA
EPILOGO
VIGILIA DI NATALE 2013
L’ANGELO E LA STELLINA
L’autrice
Catalogo
Non avrai con un uomo relazioni carnali
come si hanno con una donna:
è cosa abominevole…
tutti quelli che commetteranno qualcuna
di queste cose abominevoli saranno eliminati
dal mezzo del loro popolo.
(Levitico 18: 22-30)
Se una persona omosessuale è di buona volontà
ed è in cerca di Dio,
io non sono nessuno per giudicare.
Secondo te Dio quando guarda una persona
omosessuale,
ne approva l’esistenza con affetto o la respinge
condannandola?
Dio è nella vita di ogni persona.
(Papa Francesco)
Novembre 2012
I tuoi capelli biondi sparsi sul cuscino di velluto.
Le tue palpebre chiuse sulle iridi azzurre.
Il tuo volto magro dagli zigomi sporgenti.
Le tue braccia tese lungo i fianchi.
Il tuo corpo avvolto nel vestito del nostro matrimonio che ti fa da sudario.
Il mio bacio è per te e tu non ricambi. La tua bocca è fredda.
Ecco l’ultima immagine che ho di te.
Poi arrivano loro: uomini che io non conosco.
Mettono il coperchio sulla bara e avvitano.
So che il rumore assordante del trapano mi rimarrà nelle orecchie per giorni.
Accarezzo il legno di rovere.
Ti dico addio in questo obitorio ricolmo di fiori e di persone che piangono.
Io non piango. Le lacrime si accumulano nella mia testa ma non scendono.
Non sento niente. Resto immobile a guardare mentre ti portano via da me, per sempre.
Tua madre mi ha chiesto di venire in chiesa.
Io lascio pregare gli altri. Loro sono capaci e Dio li ascolterà.
Io Dio non lo conosco.
Un gruppo di gente affolla il sagrato.
Ti guardo entrare.
La mia bocca si bagna. Mi asciugo con la mano.
È sangue.
Il mio dolore si è sciolto.
Il sangue continua a scendere dal naso.
Non ho un fazzoletto.
Alzo la testa e guardo il pallido sole autunnale.
Le foglie cadano, volano via.
Volano via con te.
CAPITOLO I
VIRGINIA
Helena se ne è andata.
Quattro mesi fa.
Oggi piove. Fa caldo. Un caldo insolito in questo inverno che non lascia tregua.
Io invece ho freddo, tanto.
Questa casa è fredda senza di lei. Non c’è più calore. Non c’è più il profumo delle sue tisane calde alla cannella. Non c’è più il profumo di biscotti. La mia cucina è spenta, come il mio cuore.
Ho bisogno di qualcuno che mi scaldi.
Prendo la bottiglia di grappa. Un bicchiere grande. Bevo una lunga sorsata. Il liquido mi brucia lo stomaco. Lo sento scendere velocemente, lungo la gola, come un fuoco. Ecco di cosa ho bisogno. Di bere. Guardo la bottiglia: Hasenuss-Schnaps. Questo mi rimane di Helena, una bottiglia quasi vuota e questo senso di inconsolabile gelo.
Vorrei che qualcuno mi prendesse tra le braccia e mi dicesse che tutto andrà bene. Ho bisogno che questo dolore lancinante che mi sta divorando, come questo alcool, si fermi.
Helena non ce la faccio a sopravvivere senza di te. Non è così che doveva andare. Ero io quella più vecchia e tu quella più giovane di dieci anni. Dicono che i brutti ricordi si stemperino con il tempo ma i mesi passano e le immagini lentamente si affievoliscono mentre io sto sempre peggio.
Devo uscire, andarmene da qui, dove tutto mi ricorda te. La foto del nostro matrimonio, i tuoi libri, quello stupido carillon con le fontane del Bellagio. Tutto troppo allegro per il mio stato d’animo.
Devo uscire. Prendo il cappotto. Lo infilo sopra il pigiama a righe. Gli stivali in gomma.
Mi passo una mano tra i capelli: sono duri e ispidi. Da quant’è che non vado da un parrucchiere, da quant’è che non li lavo?
Prendo la borsa di tela e la infilo a tracolla. Devo uscire da qui, sto soffocando, l’aria è irrespirabile. Il corridoio dell’ingresso è ingombro di sacchetti. Li scanso con un calcio. Uno di essi cade e si apre, ne escono alcuni costumi da bagno di Helena. Non guardo, non voglio guardare. Apro la porta e poi mi volto. Il costume a righe è ancora lì, a ricordarmi di una vacanza con poco sole ma molto amore. Una rabbia incontrollata mi prende le mani, sbatto la porta e rientro in casa.
Corro verso il salotto, prendo una bottiglia a caso e bevo. Non mi importa cosa sia, mi basta solo sentire il fuoco che m’incendia la pancia. Prendo la mia droga e infilo tutto nella borsa. Non c’è più l’accortezza di avvolgerla in qualcosa: un pezzo di stoffa o un sacchetto di cartone, come facevo all’inizio, per evitare che la gente potesse vedere e giudicare.
Sono pronta. Lo specchio mi rimanda un’immagine che non riconosco. Cerco di ritrovarci i miei occhi grandi e neri, le mie labbra turgide, le mie guance tonde e rosa, i miei boccoli. Nulla è come dovrebbe essere. Ho un aspetto davvero terribile, come questa casa. Siamo entrambe sporche, vuote e prive di attenzioni.
Il salotto, in fondo al corridoio, è diventato la mia discarica; il tavolo raccoglie tutta la mia vita: le confezioni vuote del cibo da rosticceria, i bicchieri sporchi, i giornali non letti. Il tappeto al centro ha delle macchie scure, così come il divano in tessuto. Le grandi vetrate che si affacciano in cortile sono opache a causa del riscaldamento. Il caminetto è ormai spento, da tempo. La cucina l’ho usata per stiparvi tutti i fiori e le piante che mi hanno regalato quando lei è morta. C’è un odore di umido e putrefazione al quale ormai mi sono assuefatta. Anche le scale hanno il ruolo di contenere oggetti, sono diventate per me degli scaffali, del resto non mi servono più. La mia vita si esaurisce in questo lurido primo piano.
I sacchi sparsi per casa raccolgono la vita di Helena, tutto quello che lei è stata.
Ne apro uno, a caso, con uno strappo netto. So che ci troverò i suoi vestiti invernali che si spargono sul pavimento. Raccolgo il maglione viola, il suo preferito e osservo il forellino che ha nel gomito. Lo annuso, sa di lei. Inizio a spargere quei vestiti ovunque: sullo specchio, sul pavimento, sulle sedie, sul tavolo, con la vana speranza che al mio ritorno la casa profumi di lei. Rientrerò e Helena sarà lì ad aspettarmi, come ha fatto per undici anni.
Fuori la pioggia è battente. Non ho voglia di rientrare per prendere l’ombrello. Uso una busta di plastica per la spesa e me l’annodo in testa. Una barbona, ecco cosa sono diventata: una squallida barbona di mezza età.
Esco in giardino e apro il cancelletto. Cigola, come faceva prima che lei se ne andasse. Ora però non riesco più a riderci, come facevamo allora. Lo lascio aperto. Non mi importa che qualcuno possa entrare perché la mia vita ormai non ha più alcun valore da conservare.
Poi la vedo. È una scritta bianca sul marciapiede: STRONZA.
Sorrido. Finalmente qualcuno mi odia. Finalmente qualcuno non ha pietà di me, del mio aspetto, della mia disgrazia, come tutti continuano a chiamarla.
Che ore saranno? Forse le dieci. Le scuole sono già iniziate. Sarà stato qualche mio studente. Indagherò e se scopro chi è stato lo promuoverò con il massimo dei voti, mi batterò per lui, anche fosse De Marco, il caso irrecuperabile della scuola. Giuro che se è stato lui diventerà il mio eroe.
«Buongiorno.»
Gloria la vicina mi distoglie dai miei pensieri.
Non la saluto. Mi calo il sacchetto in testa ed evito di incrociare il suo sguardo. Lei ha sofferto della morte di Helena, come avrebbe sofferto una sorella. Erano diventate inseparabili e io ne ero diventata gelosa. I nostri giardini sono attigui, divisi solo da un piccolo muretto, dove entrambe avevano deciso di piantare un gelsomino. Passavano ore a curare le rispettive piante chiacchierando e scambiandosi ricette per far crescere più grasse le petunie. Ogni anno si sfidavano a chi riusciva a ottenere una più splendida fioritura dalle ortensie. Io mi ero ingelosita di quella giovane donna, con quel suo sorriso perennemente stampato sulla faccia. Ero gelosa delle loro confidenze e delle loro risate.
«Con lei condivido il giardino, con te la vita. Sei la parte buona di me, quella stessa parte che mi rende speciale e mi fa apprezzare quella che sono diventata. Tu sei il motivo per cui mi guardo la mattina allo specchio e mi piaccio. Non privarmi di quella parte, non potrei sopportarlo» mi disse una sera Helena, davanti a una qualsiasi puntata di Criminal Minds.
Non avevo parlato per tutto il tempo della cena, nonostante il suo entusiasmo circa una piantina di rosmarino, cresciuto spontaneo nel nostro giardino.
Il rosmarino è considerata una pianta di buon auspicio, sincerità, fedeltà e felicità. Io avevo ignorato le sue spiegazioni, mi sentivo esclusa da quella parte della sua vita, nonostante lei mi volesse coinvolgere.
«Mi fa schifo l’odore del rosmarino» era stata l’unica frase che ero riuscita a pronunciare, ma lei aveva capito tutto.
Di fronte al sangue e ai delitti del serial killer di turno, come vuole la serie TV, Helena mi aveva rinnovato la sua dichiarazione d’amore. L’aveva fatto in modo inaspettato e sorprendente, come era capace di fare solo lei. Senza guardarmi, con le braccia incrociate e i piedi rannicchiati sotto il sedere. In quel momento avevo capito quanto spesso perdiamo le cose importanti per sospetti mai chiariti. Avevo preso la coperta dal fondo del divano e avvolgendola intorno alle sue spalle.
«Allora mi fai vedere questa piantina di rosmarino, così finirai di rompermi le palle?»
Lei aveva sorriso con le lacrime in bilico sugli occhi.
È stato di fronte a quei quattro teneri aghi che spuntavano dal terreno, con una logora coperta a farci da cappotto, che le ho chiesto:
«Helena, perché non ci sposiamo? Andiamo a Las Vegas e coroniamo il nostro sogno! Ce ne fottiamo di tutto, della legge italiana, dei vicini e di quel cretino del supermercato che non ci guarda mai negli occhi.»
Ci siamo baciate così, sotto quella notte di inizio primavera. Una notte ancora fredda, là nel nostro giardino. La porta era aperta e le urla della televisione arrivavano fino a noi.
Non ero mai stata così felice.
Ora, della nostra pianta di rosmarino sono rimasti solo degli stecchi legnosi, secchi e privi di vita. Come me del resto. Forse non era di buono auspicio come Helena mi aveva fatto credere. Mi chiudo nell’impermeabile sgualcito, come se potesse ripararmi dalla pioggia sempre più fitta. Inizio a camminare, veloce, sempre più veloce. Gli stivali squittiscono sotto i miei piedi e dentro le pozzanghere.
Il bar all’angolo è buio, anche se ci sono alcuni avventori all’interno. L’edicola, poco distante, raccoglie un crocchio di persone che chiacchierano. Perditempo, come lo sono diventata io. La strada è poco trafficata e le poche macchine corrono veloci, incuranti del semaforo, sollevando cascate di acqua che mi investono.
Io continuo a camminare, non ho nessuna meta, se non quella di perdermi.
Nella vita ci sono sempre dei punti fermi che ti fanno ricordare dove sei o dove dovresti essere.
Dopo poche centinaia di passi me lo ritrovo lì, l’Istituto Tecnico Industriale che è stato la mia ragione di vita per anni, da quando ho abbandonato la Puglia per dedicarmi all’insegnamento.
«Il risveglio delle menti», diceva sempre Helena. «Se avessi avuto un’insegnante come te, forse la matematica non sarebbe il mistero che è per me.»
La matematica e i ragazzi erano la mia passione, il motivo che mi faceva credere che il mondo sarebbe stato migliore e io sarei stata parte di quel progetto. Adesso neanche questo basta.
Guardo la scuola. Qualcuno corre sulla scalinata per sfuggire alla pioggia. Non c’è nessun’altro intorno. Mi appoggio al muro di entrata e vedo un volantino che propone una festa di Carnevale. Si stacca e lo raccolgo. Mi trovo a fissarlo, senza riuscire a leggerlo veramente. Un’ombra mi arriva davanti, alzo gli occhi. Lui è lì che mi guarda. Il suo metro e novanta mi sovrasta. La sua magrezza irreale, il naso spigoloso, gli occhi infossati. Le caratteristiche ideali per terrorizzare gli studenti. Non potevano scegliere persona migliore di lui per ricoprire il ruolo di preside di una scuola così grande. Il preside Parrella. Ha addosso quello sguardo penoso e triste, che usa solo nei miei confronti.
«Virginia hai bisogno di un periodo di riposo, prenditi qualche giorno di malattia, ci penso io ai tuoi alunni.»
Sono passati 15 giorni da quando me lo ha detto, da quando ho abbandonato tutto, anche la mia classe, per rifugiarmi nell’unica consolazione che conosco: l’alcool. Proprio io che tediavo i miei ragazzi con raccomandazioni sul restare sobri. Bere con moderazione per non perdersi il bello della vita. Quel bello che per me non esiste più.
Mi stringo addosso la borsa, sento sotto la mano la sagoma della bottiglia. Apro la bocca per respirare, ma l’aria umida mi si appiccica in gola. Tossisco.
«Come stai?»
Parrella avvicina la sua mano al mio braccio e mi protegge dalla pioggia con il suo ombrello. Scanso qualsiasi contatto e inizio a correre, lasciandolo lì. Sento l’acqua scorrermi lungo la schiena, sulle gambe. Nemmeno gli stivali sono più sufficienti. Mi fermo dopo pochi metri, ho il fiatone e non riesco a respirare. Vorrei saper fumare.
Mi appoggio a una panchina rossa. Ci passo una mano e una piccola scheggia di legno mi entra in un dito. Mi viene da piangere. Per tutto, per quella scheggia, per il vuoto che ho dentro, per questo tempo che non passa mai. Mi viene da piangere ma non ce la faccio.
L’autobus si ferma. Salgo senza riflettere. Non cerco nemmeno il mio abbonamento da mostrare all’autista, mi butto su un sedile. Ho freddo anche se dentro l’aria è densa e calda. Quel calore lasciato da orde di ragazzini che si sono riversati nelle scuole delle città. Per un attimo riconosco l’odore della mia classe, quell’odore familiare e rassicurante.
«Altro che odore di casa, sono gli ormoni.»
Helena lo diceva per prendermi in giro.
Le sue frasi mi martellano in testa affastellandosi su ogni mio pensiero.
Mi tolgo il sacchetto di plastica e lo infilo sotto al sedile. Appoggio la testa al vetro appannato e chiudo gli occhi. Vorrei morire così, come una senza tetto, ritrovata su un autobus, senza una meta. Un pigiama, una bottiglia e pochi soldi nella borsa. Unico riconoscimento un abbonamento scaduto dell’autobus. Questo pensiero mi rassicura.
Mi perdo nell’oblio.
25 settembre 1983
Oggi ti ho perso Rino. Ho perso un amico.
Ho ancora davanti il tuo sguardo di disprezzo e nelle orecchie le parole che mi hai vomitato addosso:
«Non sono abbastanza intelligente per te, abbastanza bello, abbastanza elegante? La signorina vuole di più, non uno stupido meccanico con la licenza elementare. Restiamo amici, sai cosa me ne faccio della tua amicizia? Io mi ci pulisco il culo!»
Come potevo dirti che tu per me eri tutto? Il mio confidente, il mio angelo custode che mi toglieva sempre dai guai, il centro attorno cui girava il mio mondo. L’unico con cui potevo dividere le mie passioni e i miei interessi. L’unico che non mi giudicava in questo cavolo di Paese solo perché faccio ingegneria elettronica, invece di accasarmi per fare la moglie e la madre.
Quel bacio però non ci voleva. Ti sei avvicinato e me l’hai piazzato sulle labbra. La tua lingua troppo veloce dentro la mia bocca, spalancata per lo sconcerto. Ho sentito un conato di vomito, un senso di disgusto. Ti ho scansato, come tu fossi un estraneo e mi sono pulita con il dorso della mano, come una bambina impulsiva.
«Cosa fai?» ti ho chiesto e mi sono messa a ridere.
Non potevo farti un affronto peggiore. Tu, uomo del Meridione. Anche se eri mio amico rimanevi pur sempre un uomo del Sud, con quel tuo orgoglio tipico e io, quell’orgoglio, te l’ho calpestato, senza ragionare che tu fossi la cosa più bella che la vita mi aveva concesso.
Per un attimo ho pensato di dirti tutto. Volevo dirti che non eri tu il problema, che il problema sono io. Io sono sempre stata un problema. Come potevo dirti che a me gli uomini non piacciono che a me piacciono le donne? Amo le loro forme, il loro odore, la loro delicatezza.
No non potevo dirti che sono scappata dal Paese per studiare lontano, dove nessuno mi conosce per poter essere libera di essere me stessa. Non avresti capito. No, non avresti capito nemmeno tu. L’avresti raccontato a tutti e la voce si sarebbe sparsa a macchia d’olio fino ad arrivare ai miei genitori. Loro non possono sapere. Non devono sapere.
Posso sopportare le loro continue domande tipo: Perché non ti sposi? Quando ci porti un bravo ragazzo a casa?
, ma non posso sopportare la loro umiliazione. Non capirebbero. Sono la loro unica figlia e tutte le loro aspirazioni sono per me. Tutto quello che hanno fatto, lo hanno fatto per me.
L’università occupa la mia vita e questa è l’alibi della mia solitudine.
Domani ritornerò a Pisa. La Normale è stata la mia salvezza. Andrò via anche da te, Rino. Per sempre.
Rino mi dispiace, ma non puoi capire. Spero davvero che tu possa trovare una donna vera che sappia amarti, come ti meriti.
Io scapperò, con il tuo odio nel cuore. Quell’odio che ti consentirà di liberarti di me.
Forse un giorno avrò il coraggio di dirti tutto.
Forse un giorno il mondo capirà.
Forse un giorno io mi sentirò libera di essere quella che sono, senza vergogna.
Ma oggi tutto questo non è possibile. L’unico mio confidente sarà sempre e solo questo diario in cui fisserò le mie emozioni. Solo scrivendo riesco a capire chi sono veramente e cosa voglio. Solo scrivendo riesco a sciogliere il dolore che spesso mi soffoca. Solo scrivendo riesco a rendere questa vita sopportabile.
CAPITOLO II
UN ALTRO MONDO
«Signora… Signora…»
La voce mi arriva alle orecchie, ma non riesco ad aprire gli occhi.
«È svenuta»… «è morta…»
«Ma non senti che odore di alcool? Ha bevuto e ora chi la tira su?»
«Guarda dentro la borsa e vedi se trovi dei documenti.»
Un carnevale di voci, riesco a distinguere ogni frase, ogni tono, ma gli occhi sono pesanti. Le palpebre incollate. Devo riuscire a muovermi, a parlare, prima che queste voci alterate si tramutino in persone reali e possano scoprire la mia identità, prendendomi quell’intimità che è solo mia.
«Andate tutti a fanculo», vorrei urlarlo ma l’unica cosa che mi esce dalla bocca è un grugnito.
«È viva, fate spazio, lasciatela respirare.»
Apro gli occhi. Sono ancora seduta, nella stessa posizione in cui mi ero addormentata. Sopra di me vedo la faccia giovane dell’autista dell’autobus, le sue guance sbarbate e tonde. Gli occhi grandi dalle ciglia lunghe. Le sue narici si allargano e le sue labbra dicono qualcosa.
Cerco di concentrarmi sulle parole.
«Sta bene? Vuole che chiami un’ambulanza?»
Il suo tono è cortese.
Uno stupido tono cortese, imbarazzato e penoso.
Non voglio la pietà di nessuno.
Aspiro aria e gliela soffio in faccia, consapevole che tutto l’alcool che ho nello stomaco gli esploderà addosso.
Il ragazzo indietreggia disgustato.
Ecco cosa voglio dagli altri: il