Corri incontro all'amore
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Info su questo ebook
Decide quindi che è giunto il momento di riscattarsi, di essere finalmente protagonista della propria vita e subaffitta un appartamento a Milano dove svolgerà uno stage presso un’importante agenzia di comunicazione e pubblicità. Da giovane inesperta impara una professione, coltiva buone amicizie che l’aiuteranno ad aprirsi al mondo, a fare inaspettate scoperte, molto spesso eccitanti, ma ogni tanto davvero deludenti.
Per la prima volta conosce l’amore, ma per lei sarà devastante.
La passione, l’intrigo, l’ossessione, la scoperta dell’attrazione per Vanessa; l’ambiguità, il desiderio, la delusione, il tradimento, le disavventure, la “piccola” Chiara sarà sottoposta a tutto questo in così poco tempo che la grande forza d’animo e l’intelligenza che la contraddistinguono non basteranno a salvarla da se stessa.
La crisi di coscienza sarà forte, tanto da mettere in discussione il suo fragile mondo ordinato.
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Anteprima del libro
Corri incontro all'amore - Paola D.R. Toniolo
Paola D.R. Toniolo
Corri incontro all'amore
UUID: 827fbfc4-5a85-11e8-8f7d-17532927e555
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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Indice dei contenuti
3 AGOSTO
L’INIZIO DEL MIO VIAGGIO
LA MIA NUOVA OCCUPAZIONE
CAMBIAMENTI
SEMPRE PIÙ INDIETRO NEL TEMPO
SVENTURA SU SVENTURA
UNA VITA DIFFERENTE
MONDO A COLORI
L’AMORE DISARMANTE
LE COSE CAMBIANO
NON DEVE FINIRE COSÌ
A chi non si arrende mai
"Lascia il tuo Essere libero di fluire:
Lui sa sempre dove sorge il sole"
Questo romanzo è un’opera di fantasia.
Ogni riferimento a persone, luoghi e avvenimenti, è puramente casuale.
Copertina: fotografia di Paola Toniolo
© Copyright 2014/2015 - Paola Toniolo
Printed in Italy
3 AGOSTO
Il mio cuore ha smesso di battere, prima del suo.
Alle parole Vanessa
, disperata
, superare la notte
il mio cervello invece ha preso a ripercorrere questi ultimi mesi, tutta la mia vita, ogni istante, ogni scelta, ogni gesto. Tutti i miei errori.
Ho iniziato a correre come se dovessi perderla questa sedia di formica: e ora sono qui, seduta in fondo a questo corridoio male illuminato a fissare la porta chiusa del reparto di terapia intensiva del San Raffaele.
L’aria pare condensata e i minuti sono eterni, pareti tinte di un giallo pallido, un silenzio quasi irreale, inquietante, e la sedia sempre più scomoda.
Sono qui da sola, ho preferito che Andrea non restasse, Malika pure mi ha lasciato diverse ore fa, aveva bisogno di riposare… però adesso vorrei che ci fosse qualcuno, a stringermi la mano, qualcuno a garantirmi che alla fine andrà tutto bene, i medici si stanno prendendo cura di lei e si riprenderà.
Poi a tratti, sento parlare, di là dalla porta, ma non riesco a capire che cosa stanno dicendo, se ci sono novità, vorrei sapere, ho bisogno di sapere, ma ancora non mi dicono nulla.
Ho le mani fredde e sudate, infilzo le unghie nella pelle cercando di provare dolore e insieme liberazione dall’angoscia che mi rende impotente, atterrita, incapace; ma è tutto inutile, ho soltanto un grande peso sul cuore.
Penso che a breve la porta si aprirà, il medico mi verrà incontro, non riuscirò ad alzarmi in piedi, le gambe cederanno, il battito impazzito, il sudore che cola da sotto la camicia, e quel senso di acido che sale corrosivo dalla bocca dello stomaco… Nulla sarà più come prima, nemmeno la luce fioca di questo corridoio, il giallo spento della parete diventerà così forte da sembrarmi accecante.
Ecco, ora sono qui, in questa sera d’inizio agosto, ma la mia testa mi costringe a correre indietro senza fiato. Torno al mio addio all’Istituto, al mio arrivo a Milano, allo stage, al bar, alle feste… a noi. E rivivo tutto. Vivo tutto di nuovo.
L’INIZIO DEL MIO VIAGGIO
19 aprile
Il caldo rende l’aria nauseante, su questo treno che odora di spezie e di sudore; la primavera è già umida come l’estate della pianura, e il vagone, occupato per metà, risuona di lingue straniere e dialetti locali. I sedili consunti e in parte sdruciti sono anche macchiati di fresco; i bocchettoni dell’aria condizionata, come se fossimo ancora in inverno, eruttano vampate di calore.
«Ventiquattro anni non sono poi molti, e il tuo sorriso è ingenuo, gli occhi chiari e trasparenti, la tua indole fragile, e il cuore gentile. Attenta piccola mia: la vita è insidiosa, il mondo equivoco e la grande città è una giungla da attraversare con estrema cautela.»
Non riesco a ignorare le ultime parole di suor Gertrude, prima della mia partenza; riecheggiano cupe dentro di me quanto un presagio di sventura.
Mi allontano di nemmeno un centinaio di chilometri dai luoghi in cui sono cresciuta, tra le colline dell’Oltrepò Pavese, eppure mi sembra di viaggiare verso l’infinito, piena di speranza e in cerca di opportunità.
La mia nuova vita mi attende.
Guardo dal finestrino e mi accorgo che i miei colli appaiono ormai lontani, laggiù a fare da sfondo i campi coltivati poco alla volta iniziano a fare spazio al cemento, fabbricati sbiaditi, case popolari, tutto dello stesso colore, un grigio opaco, spento; il cartello Milano Rogoredo
; le ruote della carrozza stridono in mezzo alla polvere, e ora percepisco un fetore chimico, di sicuro entra dall’unico finestrino appena abbassato: ecco lo smog della grande città.
Slaccio il bottone della camicia stirata con cura e dal colletto inamidato, ricordo dell’ultimo amorevole servizio di suor Gertrude, la mia madrina; d’ora in avanti dovrò cavarmela da sola.
Lasciarla sbottonata forse è un gesto lascivo e poco elegante, ma il caldo è opprimente così come l’ansia che mi fa avvertire un groppo alla gola simile a un cappio sempre più serrato attorno al mio collo.
Da alcuni sedili più avanti arriva la lieve melodia di una canzone che mi suona familiare; dei giovani ridono a volume sostenuto e ogni tanto urlano qualche imprecazione, nemmeno fossero allo stadio.
L’uomo che mi sta di fronte ha dei pantaloni di velluto pesante, occasionalmente mi lancia un’occhiata ma poi distoglie lo sguardo se prendo a osservarlo.
La signora di colore che mi siede accanto sta sfogliando una rivista; ha delle braccia robuste e nerborute e ogni tanto mi urta energicamente spostando tutto il suo peso contro il mio fianco, in seguito a un sussulto del convoglio; indossa un copricapo africano e un largo abito di cotone a fiori sgargianti.
Mi sento le mani sudaticce e vorrei potere bere dell’acqua fresca ma mi sono dimenticata di portarla. Controllo di continuo che il mio borsone e il trolley siano ben ancorati al ripiano portabagagli, non so se è più per il timore che possano cadere magari urtando qualcuno o per l’ansia che me li rubino.
Forse dovrei provare a rilassarmi, a lasciarmi andare, a intraprendere il mio cammino verso l’indipendenza.
Eppure non mi abbandona la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato. Mi sento in colpa, me ne vado e lascio tutto ma io so che non smetterò mai di provare gratitudine verso chi, pur non avendo doveri reali nei miei confronti, si è preso cura di me da quando avevo sette anni e poi fino alla maggiore età, e oltre ancora; certamente, a quel punto, più per affetto che per necessità.
La vecchietta seduta accanto al finestrino accenna un sorriso; chissà se ha intuito i miei pensieri, la tenerezza provata ricordando il passato e l’affetto che nutro per suor Gertrude (mi mancherà molto) devono avere rasserenato il mio viso; ricambio il sorriso e comincio a sentirmi più quieta.
Ma la piacevole sensazione dura poco: mi volto e mi accorgo che l’uomo dai pantaloni marroni a coste sta sbirciando all’interno della mia camicia, non può avere intravisto molto, non il mio seno, di sicuro non prosperoso, ma ha uno sguardo così avido e lussurioso che mi mette a disagio e provo disgusto. Riallaccio subito l’ultimo bottone; afferro un libro dalla mia borsa e m’immergo nella lettura come forma di difesa.
Il treno si arresta a un’altra fermata; ormai non dovrebbe mancare molto, cinquanta minuti di viaggio e già ne sono passati bisogna che presti attenzione e mi prepari prima dell’arrivo per evitare di perdere tempo scaricando i bagagli.
L’uomo voglioso scende; grazie a dio, almeno non rischio di scontrarmi con lui appena mi alzo: solo l’idea di sfiorare il suo corpo mi dà la nausea.
Mentre cerco di allontanare questi pensieri, il treno rallenta di nuovo, di là dal vetro mi appare possente la stazione di Milano Centrale, mi alzo e afferro dapprima il borsone, facendo attenzione a non schiacciare il piede dell’arzilla vecchietta che è pronta a scattare verso l’uscita, quindi il mio trolley.
Riesco a raggiungere lo stretto corridoio trascinando a fatica il pesante carico e sbattendolo più volte contro le ginocchia dei viaggiatori ancora seduti, controllando ossessivamente la borsa tracolla che non ho tolto di dosso da quando sono salita, ci manca soltanto che mi derubino prima ancora di scendere dal treno.
Da dietro mi arriva una spinta che quasi mi fa ruzzolare giù dagli scalini insieme alle valigie; per fortuna un ragazzo dall’aria gentile mi si piazza davanti e contiene il capitombolo aiutandomi a reggere il peso; lo ringrazio sinceramente a gran voce, ed è in questo momento che mi rendo conto di essere arrivata, davvero, a Milano. Persa in uno spazio vasto e affollato, un luogo sconosciuto, pieno di persone che camminano spedite e con aria sicura, mentre io non ho la più pallida idea di dove andare.
Inizialmente il vocìo mi confonde, quasi mi si appanna la vista, non so proprio in che direzione muovermi. Poi l’ansia lascia spazio all’eccitazione, quindi torno lucida: ora devo prendere in mano la situazione, guardare avanti verso il mio nuovo destino.
Allora mi accorgo che, tra la folla, una giovane donna si sbraccia con energia per attirare la mia attenzione, deve essere Elena, la ragazza con cui ho preso contatto per lo stage.
LA MIA NUOVA OCCUPAZIONE
Parallelamente agli studi universitari mi ero data da fare per guadagnare qualcosa come baby sitter e con le ripetizioni d’italiano e latino ai ragazzini delle medie e delle superiori; contavo di utilizzare il denaro che avevo risparmiato per pagarmi un affitto dopo la laurea visto che, di comune accordo con i miei tutori, avevo pensato di cercare un’azienda dove fare un po’ di gavetta e andare a vivere da sola, magari condividendo un piccolo appartamento.
Elena è la mia referente per un lavoro-formazione presso un’importante agenzia di comunicazione e pubblicità, la PromoCorporation, che ha sede da parecchi anni in una zona non troppo distante dalla famosa via Montenapoleone.
Mi ha anche aiutato a trovare un posto dove vivere, starò da una sua conoscente che divideva un monolocale con una cugina che pare se ne sia andata da Milano in tutta fretta; lei aveva bisogno subito di una coinquilina, io di un appartamento che non costasse troppo.
«Ciao Chiara, finalmente ci conosciamo com’è andato il viaggio? Ti do una mano col trolley. Caspita, quanto pesa!» La voce di Elena è delicata e gentile, il primo impatto è decisamente positivo, tiro un sospiro di sollievo.
«Hai ragione, pochi vestiti ma è pieno di libri. Il viaggio non male, grazie… Per caso riusciamo a lasciare a casa i bagagli prima di correre in ufficio?»
«Certo, non ti preoccupare, la pausa pranzo dura un’ora ma ho avvisato il responsabile che, prima di accompagnarti da lui, ti avrei fatto vedere l’appartamento, quindi non c’è fretta.»
Scendiamo giù in metropolitana, cerco di memorizzare il tragitto prestando attenzione ai nomi delle fermate, mi servirà quando mi dovrò muovere da sola; anche qui la gente si accalca e spinge sgradevolmente appena spunta il treno.
«Dovrai farci l’abitudine!» sembra che Elena possa leggermi nel pensiero, ci scambiamo uno sguardo d’intesa.
C’è posto soltanto in piedi e non so come fare a trattenere il borsone mentre mi aggrappo alla maniglia in alto cercando di non cadere a ogni frenata, continuando a controllare la tracolla che ora ho spostato davanti, sul petto; Elena è decisamente più agile e pure elegante.
«Spero di abituarmi in fretta.»
«Non ti preoccupare, soltanto un altro paio di fermate e poi ci siamo.»
Arriviamo in un quartiere modesto con vecchi palazzi di differenti periodi, alcuni ben ristrutturati, altri più trascurati. La prima sensazione che provo è un sentimento misto di ansia e tristezza, ma poi mi colpisce l’immagine di un grazioso chiosco colorato stipato di fiori variopinti, piccoli vasi di erbe aromatiche, mazzi di rose e tulipani, gerbere e composizioni di lavanda; a mano a mano che ci avviciniamo, sento il profumo, è delicato, si diffonde nell’aria con un colpo di vento che spazza via i pensieri, dura un attimo ma è balsamo per il mio cuore affaticato. Mi accorgo che ci sono numerosi bar e locali, piccoli e poco ricercati ma molto accoglienti, e anche tanti negozietti di generi alimentari, d’abbigliamento e una cartoleria; comincio a sentirmi meno spaesata, certo, è una grande città, e i volti, di tutte le nazionalità, che incrociamo camminando, me lo confermano; ma proprio per questo inizio a sentirmi più libera, e improvvisamente, con un odore di fritto che giunge alle mie narici, mi viene anche un certo appetito, accidenti, mi ricordo che devo ancora pranzare!
«Ti piace il cibo cinese?» Elena indica la vetrata del piccolo take away a fianco di un grande portone di legno scrostato, dove mi fa segno di entrare.
«Sì, abbastanza,