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Le Mani In Faccia
Le Mani In Faccia
Le Mani In Faccia
E-book158 pagine2 ore

Le Mani In Faccia

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Info su questo ebook

Una storia incalzante, scritta a ritmi a tratti vorticosi, suddivisa in quattordici capitoli che sembrano quasi autonomi tra loro e che, se letti dall’inizio alla fine, ci lasciano una sorta di romanzo episodico, una storia che fa rimanere senza fiato. La storia di un uomo, Claudio Pedretti, e della sua solitudine, quella di una vita che cerca di continuo una rivalsa, e lo fa raccontando le sue ossessioni, i suoi errori, le proprie pulsioni ancestrali.

Un antieroe della porta accanto, un personaggio che è il solo responsabile del proprio destino, al tempo stesso vittima e carnefice della propria esistenza, condannato a ripetere gli stessi errori in eterno.

A far da sottofondo alla narrazione, una Bologna distratta, stanca e dimenticata, che alla fine, però, viene amata come poche città lo sono nei libri di oggi. I protagonisti vengono messi a nudo, spogliati delle proprie inibizioni, a volte derisi, altre, invece, guardati con ammirazione e commozione. Ma lo sguardo pietoso dell’autore cerca sempre di rivestire i loro corpi, come se provasse un pizzico di pudore nel mostrare a tutti la loro miseria.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2016
ISBN9788893370684
Le Mani In Faccia

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    Anteprima del libro

    Le Mani In Faccia - Luca Martini

    Carbon 

    PRIMA PARTE

    LE MANI

    Tu non sai cos’è l’amore

    Mi chiamo Claudio Pedretti, e posso dirlo con certezza: io non ho mai capito cos’è l’amore.

    La mia era una famiglia molto normale: un padre comunista che faceva l’operaio specializzato in una fabbrica di automobili, una madre agnostica che faceva la sarta per le signore bene della città, una sorella di diciotto anni più grande, che praticamente non ho mai conosciuto e che, se devo dirvi cosa sognasse o cosa desiderasse, be’, non saprei proprio cosa rispondere.

    Bologna è la mia città, ci sono nato e ci vivo tuttora, e non potrei pensare di stare in un altro posto. Forse per via delle persone, forse per i portici e le piazze che si aprono quando meno te l’aspetti, dietro una stradina che pare conduca a niente. Fatto sta che non posso far altro che immaginare di consumarmi qui, in questa città, tra questa gente.

    Ho avuto un’infanzia strana, con genitori come tanti che si sono mollati e presi due volte, pochi amici che poi mi hanno girato le spalle e una sorella che non mi ha mai chiesto se ero felice. Sono sempre stato un po’ timido e introverso, ma, tenuto conto di tutto, posso dire di avere avuto un’adolescenza normale.

    Io non ho mai capito cos’è l’amore, ho cercato di farlo per tutta la vita, fin da ragazzo, ma ho sempre avuto diversi problemi con la realtà e spesso ho faticato a distinguere tra il sogno e la vita di tutti i giorni, forse perché speravo che la fantasia e il desiderio potessero diventare le mie concrete armi di esistenza.

    Mi sono iscritto a ragioneria dopo aver ponderato a lungo cosa fare da grande. Mio padre, che aveva studiato fino alla quinta elementare ed era finito ad assemblare radiatori, all’inizio cercava di convincermi a fare il liceo classico, perché la cultura è una gran cosa, sosteneva, e chi sa latino e greco può fare di tutto nella vita. Poi con il tempo ha capito che i libri e lo studio non servono a niente e ha iniziato a disinteressarsi completamente di me e del mio futuro.

    Contano i soldi, soltanto i soldi, diceva, da buon comunista riconvertito al consumismo.

    Questa divenne la sua nuova filosofia di vita.

    Mia madre, invece, propendeva per il niente, che tanto, diceva, la strada l’avrei trovata da solo con il tempo. Io le scelte degli altri le ho scartate tutte e, dopo averci pensato a fondo, mi sono convinto che la scuola che faceva per me era l’istituto tecnico commerciale. Il motivo era uno solo, fondamentale: le ragazze. Non c’era scuola a Bologna che annoverasse un numero maggiore di fanciulle. Allora ho seguito l’esempio di mia sorella che aveva frequentato lo stesso istituto e che poi aveva fatto tutt’altro. Almeno, diceva, se poi decidi di non andare avanti il contabile lo puoi sempre fare.

    In prima ragioneria più della metà della classe era formata da ragazze e io ero tra quei pochi fortunati che potevano condividere cinque ore al giorno con Elena Guadagnini, la divina, la ragazza più bella e incostante che Dio avesse mai forgiato. I suoi genitori erano separati e facevano entrambi gli avvocati. Non si risparmiavano gentilezze, la carta bollata a loro non costava nulla e facevano a gara a suon di regali costosi per assicurarsi la benevolenza della figlia. Elena era bravissima a scuola e viziata nel suo intimo, perfetta nel vestire, profumata e pettinata in maniera impeccabile e stava in seconda fila, in un banco vicino al termosifone, sotto la finestra, proprio dalla parte opposta alla mia. A ricreazione compravo sempre i bomboloni alla crema perché sapevo che a lei piacevano tanto. Quando suonava la campanella mi fiondavo fuori e mi mettevo di fronte alla porta, appoggiato alla finestra, e aspettavo che uscisse per farmi vedere con la pasta in mano. Lei mi chiedeva di dare un morso, io la lasciavo fare e quando girava l’angolo mi inebriavo all’idea di mettere le labbra dove le aveva appena messe lei, cercando i resti della sua saliva che per me era il nettare più voluttuoso della terra.

    In classe ero sempre distratto.

    Dal mio banco potevo vederla soltanto buttandomi all’indietro con la sedia, alla ricerca di un equilibrio precario sulle due gambe posteriori. Lei lo sapeva, percepiva i miei sforzi e il mio struggimento pur senza farlo capire, e ne gioiva, il suo ego si gonfiava e le sue tette diventavano sempre più grandi e inavvicinabili. Una volta durante una lezione di ragioneria sono crollato all’indietro sulla schiena, facendo cadere il banco addosso a Conti che seguiva la lezione dietro di me. Tutti risero tranne lei, che sapeva di esserne la causa e, per questo, si sentiva realizzata nella sua intima perfidia.

    La professoressa di ragioneria, tal Giovanna Cadorna, chiese cosa fosse accaduto e se qualcuno si fosse fatto male. La tranquillizzai, domandando il permesso di andare in bagno.

    Lei acconsentì e io mi unii agli altri nove che erano fuori da più di mezz’ora.

    Capitava spesso che durante le sue lezioni l’aula si svuotasse.

    Una volta siamo rimasti seduti a seguire la sua lezione in quattro su ventinove, un record assoluto.

    La professoressa Cadorna era cieca dalla nascita e tutti se ne approfittavano. Portava una parrucca incredibilmente finta, sia nel colore che nella forma, che spesso andava fuori posto e assumeva posizioni improbabili che le conferivano un’aria buffa e ridicola. Era una persona dall’animo gentile e condiscendente, che a volte fingeva di innervosirsi e minacciava tutti senza mai spaventare nessuno, perché tanto sapevamo che alla fine non ci avrebbe mai fatto niente e che, nel peggiore dei casi, avrebbe scosso la testa e detto: «Siete degli ignoranti», voltando le pagine del suo manuale scritto in Braille.

    In classe c’erano due ragazzi più grandi che erano stati bocciati tre volte uno e due volte l’altro. A vederli vicino a noi sembravano più i genitori di qualche alunno che nostri compagni di scuola. Erano loro a prendersi gioco più di tutti della Cadorna. Si mettevano in fondo, con la finestra aperta e si accendevano una sigaretta a turno. Ogni tanto lei alzava la testa, puntava il suo naso rossiccio da bracco e diceva: «Sento puzza di strinato, qui. Qualcuno sta fumando?»

    Tutti ridevano e i due si guardavano con compiacimento e intesa. «No, prof, è che stanno bruciando dell’erba fuori» rispondeva Trasforini sghignazzando. Lei, secondo me, capiva di essere presa in giro ma non aveva la forza di combattere contro degli stupidi. Con quelli si perde sempre e una come lei, ne sono sicuro, doveva aver lottato contro l’ignoranza delle persone ogni giorno della sua vita. Allora minacciava sbattendo la mano piccola e piena di macchie brune di vecchiaia sulla cattedra, dicendo: «Silenzio! Guardate che vi faccio un compito a sorpresa, chiaro?»

    Qualcuno si zittiva, altri continuavano e allora lei lasciava trascorrere il tempo necessario per far scemare una risata media e diceva: «Ignoranti, siete soltanto degli ignoranti» e tornava con le mani ad accarezzare il suo libro.

    Nessuno si rendeva conto di quanto fossimo fortunati ad avere la Cadorna come professoressa di ragioneria e di come quella corda che ogni giorno veniva tirata fosse lì lì per rompersi.

    Lo capimmo tutti a gennaio, dopo le vacanze di Natale, quando al rientro in classe trovammo ad attenderci il preside. Quel giorno era stranamente sobrio e aveva lo sguardo triste, fermo sulla punta delle scarpe.

    «Ragazzi, devo accogliervi al vostro ritorno dalle vacanze con una brutta notizia» annunciò con la voce rotta dall’emozione. «Il primo dell’anno la professoressa Cadorna ci ha lasciati» ci disse.

    Noi ci guardammo in faccia, avremmo voluto chiedere spiegazioni, ma il preside ci anticipò.

    «La professoressa è morta» aggiunse alzando gli occhi verso la zona nella quale, con ogni probabilità, la Cadorna era volata.

    Io rimasi a fissarlo con lo sguardo ebete di chi rallenta in auto per guardare un incidente che non capisce come possa essere successo.

    «Il suo cuore non ha retto, mi dispiace essere io a dovervelo dire».

    Ma come, pensai, uno muore così? Approfitta delle vacanze di Natale, la gioia, la festa, il presepe, i torroni, la stella cometa, e poi? Nemmeno il tempo di smaltire le mangiate o di godersi una sana dormita che se ne va subito, così, senza avvertire?

    Mi sembrò una cosa sleale, quella, e ancora oggi a pensarci ho l’impressione di essere stato tradito.

    «Da questo momento fino alla fine dell’anno avrete una nuova insegnante di ragioneria. Prego, professoressa» disse il preside rialzando la testa per un istante, indicando con il dito la cattedra.

    «Vi presento la professoressa Caterina Carbone» disse affrettandosi a concludere il cerimoniale di presentazione. Quella che ci trovammo davanti fu una donna di una quarantina d’anni o giù di lì, bionda, gli occhi chiari, color acquamarina, lo sguardo duro e algido, la figura slanciata e l’abbigliamento aggressivo.

    Di colpo la bellezza di Elena Guadagnini mi parve quella di una inutile sciacquetta e la sua immagine in declino lasciò spazio a quella di una fredda valchiria giunta direttamente sul suo cavallo di ghiaccio tra noi piccoli mortali.

    Lei si presentò in fretta, e fece l’appello squadrando ognuno di noi con attenzione, per fotografarselo dritto nella memoria.

    Quando giunse al mio nome si fermò e mi trafisse con gli occhi come un san Sebastiano laico. Sentii le mie budella andare in subbuglio e la bocca mi si schiuse condannandomi a un’espressione stupida e priva di intelligenza.

    «Pedretti Claudio...» scandì, e facendolo, ne sono sicuro, si soffermò a scrutarmi più a lungo degli altri. Sono anche certo abbia alzato l’angolo destro delle labbra in una specie di sorriso di sfida, come se avesse in serbo per me qualcosa di diverso.

    Io deglutii rumorosamente e distolsi lo sguardo dopo pochi secondi, sconfitto da quella gelida dea nordica, in preda a una tachicardia selvaggia.

    Al termine dell’appello qualcuno parlava e rideva forte.

    «Trasforini, se non la smetti di far casino ti do un tre e ti mando subito dal preside» gli disse minacciandolo.

    «Ma prof, io...»

    «Professoressa! Non sopporto di essere chiamata prof... professoressa Carbone, per favore» precisò infilzandolo con lo sguardo come uno spiedino di carne fresca.

    «Professoressa Carbone» aggiustò il tiro Trasforini, «noi con la Cadorna, voglio dire, cioè si rideva e ci lasciava fare...» aggiunse cercando l’assenso dei compagni con un lieve imbarazzo nella voce.

    «Non me ne frega niente, io non sono la Cadorna, con me si fa quel che dico io. Questa è una democrazia dittatoriale o una dittatura democratica, fate voi. Io vi avverto, nella mia classe si studia, testa bassa, articolo per articolo, vi interrogo quando voglio, vi do voti dallo zero all’otto e non mi importa se siete figli del papa o del sindaco. Se mi va io vi boccio tutti» disse affilando la voce e togliendosi gli occhialini argentati, compiendo una panoramica generale sui nostri volti impauriti.

    Trasforini rise ancora.

    «Vieni qui, tu» gli intimò mettendosi a scrivere qualcosa. «Vieni, vieni, questa è una nota, ora te ne vai dal preside, e in fretta» fece la Carbone porgendogli il registro, «e ti prendi pure un bel due, che farà media, Trasforini,

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