Come Dedalo e Icaro
Di Tito Borsa
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Anteprima del libro
Come Dedalo e Icaro - Tito Borsa
Elena
Prologo
Se c’è una cosa, una soltanto, che accomuna me e mio padre è di aver sempre frequentato volentieri persone con poca cultura ma con tanta vita alle spalle. Lui insegna in un liceo padovano, io più modestamente ho venticinque anni e scrivo libri. «Scrittore» mi sembra un termine poco appropriato: rimanda a un obsoleto primato della letteratura che non esiste più. Oggi al primo posto ci sono gli scienziati che vivono delle loro certezze mentre le ipotesi filosofiche e le discussioni umanistiche hanno smesso di essere interessanti. Io e mio padre: se lui ha sempre cercato nelle persone del popolo una sorta di rivalsa verso gli intellettuali che, a suo dire, non hanno mai capito il suo potenziale, io cerco in loro esperienze che mai ho vissuto, nella mia breve vita da medio borghese, e che forse mai avrò occasione di vivere. Lui è una persona frustrata, lo è sempre stato, me lo ricordo così sin da quando ero piccolo e mi hanno detto che lo era anche da giovane. Io invece no. Non sono così ambizioso e mi va benissimo il mio quieto vivere. Scrivo e mi faccio i cazzi miei, per dirlo in modo schietto. Non bisogna vivere per lavorare, lavorare per vivere più tranquillamente semmai. A me basta godermi quello che ho, che è già tanto. Non capisco quelli che non si accontentano mai, che vogliono sempre qualcosa in più, quegli eterni insoddisfatti.
Non sono mai stato un frequentatore di librerie, se non da cliente, o di salotti televisivi: scrivo già ogni settimana su un giornale nazionale, forse l’unico con un bilancio che funziona, e i miei libri vendono quanto basta a me e all’editore. Cosa posso volere di più, se non starmene in pace e fare quello che voglio? Ho già difficoltà a tirare avanti ogni giorno, impazzirei se dovessi anche rispettare orari e impegni imposti da qualcun altro. Sono un privilegiato? Sono felice così.
I
10 aprile 2013
Si alzò dal letto malvolentieri, sottofondo: il solito studente che si fa bello con il cinquantino davanti agli amici, si infilò le pantofole consunte e si diresse verso il giorno che splendeva dalle grandi vetrate della cucina. Prese la caffettiera preparata con cura la sera precedente e la appoggiò stancamente sul fornello appena acceso. Forse l’aveva scampata: impostare la sveglia mezz’ora prima del solito gli avrebbe permesso di starsene un po’ senza di lei.
Lasciamo stare le capsule, pensò con la mente ancora assonnata, oggi voglio farmi un caffè alla vecchia maniera. Lenta ma efficace. Queste novità sono comodissime ma ci costringono a perdere la consuetudine di un gesto quotidiano salutare come quello di mettere la moka sul fuoco.
Si accese una sigaretta e iniziò a tirare pigramente il fumo nei polmoni ancora intorpiditi: mi dicono che smettere di fumare farebbe bene a salute e portafoglio, ma è l’unico vizio che ho e preferisco tenermelo.
La tranquillità di quella scena durò poco. Come ogni mattina si svegliò pure lei e apparve avvolta solo da una corta camicia da notte, i piedi nudi scivolavano sul pavimento. Nemmeno dopo tutto quello che gli aveva fatto, nemmeno dopo tutte le cose che gli aveva detto, nemmeno dopo tutto questo aveva perso la sensualità che l’aveva sempre contraddistinta.
«Vuoi un po’ di caffè?», le chiese senza convinzione, maledicendosi per non aver impostato la sveglia anche un’ora prima del solito.
Lei non rispose, gli si avvicinò, prese la sigaretta dalle sue dita e iniziò a fumarla rivolgendogli un sorriso di sfida. La sua ombra offriva a quella visione un’atmosfera un po’ retrò da femme fatale: mai similitudine fu appropriata, me l’aveva proprio messo nel culo in modo fatale, definitivo.
Lui si alzò irritato, non faceva niente per celarlo, spense il fuoco, prese la moka e con un rapido gesto rovesciò il caffè bollente sulla testa della sgualdrina. Lei urlò dal dolore e lui si diresse verso la camera da letto. Si lavò con accuratezza, quasi a voler cancellare davanti al mondo ogni traccia della convivenza con quella donna, si infilò i jeans e afferrò il papillon dal tavolino.
Si infilò la giacca: è una giornata importante e devo essere sobrio ma elegante, impeccabile. Uscì dalla porta, senza nemmeno rivolgere lo sguardo verso la cucina da cui la sentiva singhiozzare, e venne avvolto dal dolce tepore delle giornate di primavera inoltrata. Via degli Obizzi e i suoi altissimi palazzi splendevano di vita: le finestre riflettevano i forti raggi solari intonati con l’immatura gioia dei suoi coetanei riuniti di fronte alla facoltà di Scienze della Formazione, distante pochi civici dal suo portone.
Si accorse di aver dimenticato in casa le chiavi dell’auto, poco male: una camminata poteva fargli solo bene in una giornata che era già iniziata male e che non prospettava alcun miglioramento.
Si avviò a passo stanco verso il Duomo tirando fuori dal taschino della giacca la seconda sigaretta. Dall’altro lato della strada una ragazza tutta felice parlava al telefono forse con quello che riteneva essere l’amore della sua vita. Ah, pensò guardandola, non pensare che duri e, soprattutto, non portartelo a letto finché ti propone solamente castelli di carta e cuscini sgualciti. La ragazza lo guardò, stupita e forse spaventata da quello strano tipo che la fissava senza vergogna. I capelli rossi circondavano un viso dolce di gioventù condito da un paio di occhiali dalle lenti scure.
«Scusami», disse rivolgendosi alla ragazza che aveva appena finito la telefonata, «ti andrebbe un caffè?».
Lei lo guardò perplessa, il suo sorriso si stava trasformando in un’espressione di spavento, quanti maniaci di questi tempi. Si guardò attorno e vide che via Vandelli brulicava di passanti che, all’evenienza, potevano venire in suo soccorso. Si girò nuovamente verso quel giovane spavaldo e, pentendosene l’istante successivo, annuì e infilò il suo cellulare da due soldi nella tasca della giacca. Era bella, davvero bella, ma probabilmente non lo sapeva: teneva lo sguardo basso anche quando telefonava.
Si presentarono. Aveva diciannove anni, anche se sembrava più giovane, stava concludendo l’ultimo anno di liceo classico e quel giorno aveva marinato la scuola per uscire con un ragazzo che la stava facendo aspettare un po’ troppo. Si chiamava Laura.
Entrarono in pasticceria con lui che le tenne aperta la porta per farla passare. Due cappuccini e due pastine con le fragoline di bosco.
«E tu, cosa fai nella vita?», gli chiese Laura curiosa.
Lui si concesse qualche istante per decidere se regalarle una delle tante stronzate che raccontava alle ragazze conosciute alle feste o se concederle la verità.
«Mi sono laureato in Lingue pochi mesi fa, ora scrivo libri e corsivi sul Corriere della Resa», le disse. Si sentiva più leggero dopo averle detto la verità: ricordarsi le balle è sempre un problema, soprattutto quando si è fantasiosi e non si racconta sempre la stessa.
Laura lo guardò scettica sussurrando qualcosa. Addentò con sensualità la pastina lasciando che una fragolina cadesse sul piattino bianco di ceramica. La ragazza prese il cellulare che si era illuminato sul tavolo e il suo viso dolce divenne presto rosso di imbarazzo.
«Lui è arrivato», disse un po’ a disagio.
Si alzò veloce, ingurgitò il cappuccino in un sorso e ringraziò con lo sguardo per la colazione offerta. Dio quando ti sei alzata ho sentito un brivido lungo la spina dorsale. Uscì senza guardarsi indietro, trascinata da un’immotivata fretta.
Lui si alzò con calma, guardò l’orologio, cazzo sono già le nove e mezza, pagò il conto e uscì in strada. Si sentiva a disagio. Cosa mi è successo nell’ultima mezz’ora? Ho invitato una sconosciuta, ancora liceale per di più, a fare colazione con me e sono stato pure sincero con lei. La verità non è mai stata parte di me, è di certo più bello e affascinante condire la realtà con mille balle molto più piacevoli della verità. Non è questa forse la maturità, che tutti agognano fuorché io che la fuggo? Se così fosse, sarebbero finiti i folli tempi nei quali l’unico obbligo che mi apparteneva era il divertimento. Allora di certo è meglio la morte.
Assorto com’era nei suoi pensieri, non s’accorse d’essere già arrivato davanti a una casa ben conosciuta. Suonò il campanello. Il portone si aprì e il ragazzo lo varcò, trovandosi un’antica scalinata davanti. Raggiunto il primo piano, passo sfaticato dopo passo sfaticato, gli sembrava di aver percorso chissà quale lungo tracciato.
«Oh Giorgio, aspettavamo solo te!», esclamò felice Marta.
Si accomodò senza fare tanti complimenti nel salone e si aggiunse al tavolo. Altre quattro persone, che conosceva molto bene, avevano già preso posto. La sala da pranzo, già piccola di per sé, era colma di libri posti con ordine nelle librerie che occupavano gran parte delle pareti. Le uniche cose che riuscivano a farsi spazio erano le due finestre e il divano angolare su cui Giorgio Dedalo aveva dormito più di una volta, quando ancora viveva con i suoi genitori ed era troppo ubriaco per tornare a casa.
«Sandro, finalmente ti vedo, da quando hai iniziato il tuo lavoro come educatore di comunità non ti ho più trovato! Come sta andando?», domandò Giorgio Dedalo all’altro ragazzo presente.
«Molto bene direi. Ho tra le mani un caso molto interessante, finito qua sarò lieto di raccontarti ogni particolare, se mi prometterai una certa discrezione: sai, si tratta di persone in vista».
«E tu, Lucia? Non ti sei ancora rotta definitivamente i coglioni di mantenere Sandro e Marta? Saranno anche i tuoi figli, ma hanno ormai superato entrambi i vent’anni e devono divenire autosufficienti! So che non è facile prendere una decisione che dovrebbero prendere loro secondo coscienza, però i genitori servono anche a far capire ai figli quando è giunta l’ora di spiccare il volo, di levarsi dalle palle».
«Hai ragione, Giorgio. Ma sono pur sempre una madre e questi due cialtroni sono i miei figli. Non riuscirei a vivere sapendoli allo sbando. Pensa che ieri ho beccato Sandro, alla tenera età di ventisette anni, che sputava dal finestrino sulla macchina degli sbirri. Per fortuna era vuota, se no oggi non sarebbe con noi».
«Pensandoci bene, per quanto mi riguarda, tornassi indietro non saprei davvero scegliere se vivere con i miei o essere indipendente, se all’indipendenza fosse annessa anche la convivenza con Bianca. Quella volta ho fatto la più grande cazzata della mia vita».
«Non incolpare te stesso», intervenne Gioia, «al tuo posto mi sarei comportata nello stesso modo. Cosa puoi fare quando una vecchia puttana morente ti chiede, come ultimo desiderio, di sposarti sua figlia? E poi tu eri fidanzato con Bianca».
Giorgio Dedalo era lì lì per darle ragione ma la conversazione venne troncata dall’arrivo di Marta che si sedette a capotavola, chiuse gli occhi e aprì le braccia rivolta verso il soffitto.
«Siamo qui quest’oggi a celebrare i due anni dalla scomparsa di Markus. Dio, se esisti e sei lassù ad ascoltarci… allora lasciaci perdere: non ci stiamo rivolgendo né a te, né a nessun altro. Markus, te ne sei andato a ventun anni volando giù da un balcone. Mai sapremo quanto il tuo cuore era affranto e la tua mente stanca, non sapremo nemmeno a chi pensavi mentre l’asfalto del marciapiede inesorabilmente s’avvicinava al tuo biondo capo. Sappiamo solo che una giovane e promettente vita è stata interrotta. Anche se probabilmente non ci saremmo più rivisti – eri tornato a vivere nel tuo paese, in Olanda – noi qui