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L'Erede del Sole
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L'Erede del Sole
E-book385 pagine5 ore

L'Erede del Sole

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Info su questo ebook

Sveva di Castell’Azzurro è stata una valorosa guerriera in un tempo passato e ora nasconde due segreti: i suoi figli, Dario e Corrado.
Entrambi legati al destino del Pentaregno, le pericolose missioni che dovranno affrontare contro il dominio delle Ombre sfoceranno in un’epica battaglia nella quale la loro stessa madre avrà un ruolo fondamentale.

In questo romanzo corale narrato con ironia, le vicende dei protagonisti si intrecciano con quelle di singolari personaggi, verità scomode e importanti vengono alla luce e trovano spazio perfino insolite, seppur romantiche, storie d’amore.

Marina Bacchiani è nata a Milano nell’ormai lontano 1967.
Dopo una breve, e forse nemmeno così brillante come credeva, carriera da ingegnere nucleare, si è dedicata a quelle di mamma e di salumiera (spesso confondendo le due attività), per poi trovare la sua vera realizzazione nella scrittura.
Questo è il suo settimo romanzo, il terzo di genere fantasy.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2014
ISBN9786050328141
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    Anteprima del libro

    L'Erede del Sole - Marina Bacchiani Dallaspezia

    Marina Bacchiani Dallaspezia

    L’Erede

    del Sole

    E-book published by

    NARCISSUS

    Devo anzitutto ringraziare le mie primissime lettrici, che mi hanno dato preziosi consigli e si sono dimostrate ottime redattrici.

    Grazie dunque ad Anna, Cristiana e Daria.

    Grazie anche ai miei figli, Vittoria e Fabrizio, per l’entusiasmo dimostrato alla prospettiva di leggere il nuovo libro, e alla mia mamma, a prescindere.

    Prima edizione

    © 2014 Marina Bacchiani

    Pubblicato in e-book da

    NARCISSUS

    Proprietà letteraria riservata

    La luce crede di viaggiare più veloce di ogni altra cosa, ma si sbaglia. Per quanto veloce viaggi, la luce scopre che l'oscurità arriva sempre prima, ed è lì che l'aspetta.

    Terry Pratchett, Il Tristo Mietitore

    1.

    Sull’ingresso della fucina illuminata dal sole del primo mattino, l’uomo e la donna osservavano, in favore di luce, la lama appena forgiata.

    La donna, che vestiva una semplice tunica di lana grigia e comode brache di feltro, strizzava gli occhi chiari per ripararsi dal riflesso abbagliante.

    «Rasenta la perfezione» affermò dopo un lungo e meticoloso esame.

    «Già, rasenta» ripeté il fabbro, le sopracciglia aggrottate per lo sforzo di apparire consapevole di quanto stava dicendo.

    «Ĕ quasi perfetta, mastro Lorenzo» precisò la donna intuendo la difficoltà del suo interlocutore.

    Il fabbro si illuminò per la comprensione del vocabolo, per rabbuiarsi subito dopo averne colto il significato.

    «Quasi perfetta» ripeté di nuovo, stavolta con un certo disappunto. «Mia Signora, dubito riuscirò mai a soddisfare le vostre aspettative.»

    Sveva sorrise al proprio maniscalco.

    «Il vostro lavoro è sempre al di sopra delle mie aspettative» lo lusingò facendolo arrossire. «Ma noi stiamo facendo insieme esperimenti di scienza metallurgica, non semplici, seppur perfette come le vostre, spade.»

    Il fabbro annuì con gravità, come se d’improvviso fosse diventato consapevole della propria importanza nel progresso della scienza metallurgica, sebbene, fino a pochi istanti prima, nemmeno sapesse di lavorare in quel settore.

    La donna stentò a nascondere un sorriso.

    «Io credo che, compatibilmente con gli impegni del vostro abituale lavoro, potreste provare a forgiarne una nuova aumentando nella lega la percentuale di metallo di luna» suggerì.

    «Certo» confermò il mastro fabbro con entusiasmo «era quello che pensavo anche io.»

    Raggiunto il compromesso, Sveva si apprestò a congedarsi dal maniscalco, quando, dai camminamenti del castello, giunse un notevole trambusto.

    Una delle sentinelle di ronda si precipitò nel cortile delle fucine, scapicollandosi per le strette scale di pietra rese scivolose dalla bruma mattutina.

    «Mia Signora, mia Signora!» gridò a una spanna dal suo naso, come se fosse ancora sui camminamenti. «Cavalieri a un paio di leghe, in avvicinamento.»

    «Descrivili» ordinò Sveva con urgenza; erano trascorsi troppi anni dall’ultima volta in cui cavalieri non attesi si erano presentati al castello.

    «Be’» rispose la giovane guardia a disagio «sono… a cavallo.»

    «Bene» lo incoraggiò Sveva senza alcuna ombra di sarcasmo nella voce «questo è sicuramente un dettaglio fondamentale per stabilire se siano o meno dei cavalieri.»

    Il ragazzino, figlio del mastro fornaio, tredici anni appena compiuti, gongolò di orgoglio; era il suo primo ciclo di addestramento come sentinella, al quale ne sarebbero seguiti altri in ogni mestiere praticato al castello. In questo modo a quindici anni avrebbe potuto scegliere la professione più adatta alle sue capacità, al pari di ogni altro giovane di Castell’Azzurro.

    «Hai visto se issavano degli stendardi?» continuò ad indagare Sveva con pazienza, mentre una piccola folla si radunava nella corte, attirata dalle grida.

    «Oh, sì, stendardi» esclamò il ragazzo come colto da improvvisa illuminazione. «Tanti stendardi triangolari bianchi e oro, con una specie di buffone sopra.»

    Un giullare dorato in campo bianco, lo stemma di Messer Giorgio della Terra dei Fiumi. Erano cavalieri di Giorgione, un amico. Almeno un tempo.

    «Lasciateli entrare» ordinò ai soldati di guardia ai cancelli di ingresso che, in tempo di pace, restavano sempre aperti, con voce calma per dissimulare l’apprensio-ne.

    «E tu» si rivolse di nuovo al figlio del fornaio «fila da maestro Furio e riferiscigli che, secondo me, potrebbe essere una buona idea insegnare a te e agli altri ragazzi un po’ di araldica.»

    Il giovane restò impalato a fissarla a bocca aperta, preoccupato.

    «A riconoscere gli stendardi» puntualizzò Sveva e lui schizzò via con un’espressione di sollievo sul volto, prima che i soldati a cavallo varcassero i cancelli.

    Si perse così l’arrivo del drappello il cui ingresso, dovette ammetter Sveva, fu impressionante, uno spettacolo unico per il piccolo borgo ai confini del regno. Una quarantina di cavalieri nelle loro lucide armature, scintillanti nel sole seppur pallido di un mattino autunnale, entrarono in quattro file ordinate dall’ampio portone della cinta esterna delle mura. Smontarono in perfetta sincronia facendo svolazzare i mantelli bordati d’oro che, prima del viaggio, erano stati di un bianco candido. Li aveva condotti all’interno un enorme cavaliere barbuto, con un’armatura e un mantello, per necessità più largo di quello dei suoi uomini, fra le cui pieghe si intravedevano le tre punte di un berretto da giullare dorato, ognuna delle quali finiva in un campanellino.

    Il massiccio comandante riuscì a smontare a sua volta, aiutato da un paio di forzuti attendenti.

    «Mia Signora delle Battaglie» la apostrofò l’uomo come saluto, quando infine si ritrovarono a faccia a faccia. Sveva si rallegrò che non l’avesse detto a voce abbastanza alta da farsi udire dagli spettatori curiosi che si tenevano comunque a rispettosa distanza.

    «Messer Giorgio» rispose lei con un lieve inchino.

    «Noto con piacere che in questi vent’anni non sei affatto cambiata; sempre elegante come ti ricordavo» la schernì squadrando il suo abbigliamento.

    «Non fosse che sembra ti sia mangiato il Giorgio dei Fiumi che conoscevo un tempo, nemmeno tu sei mutato troppo negli anni» ribatté Sveva con flemma.

    Il sorriso svanì dal faccione del cavaliere, inghiottito dalla folta barba. I suoi uomini, che nel frattempo si erano radunati in modo altrettanto ordinato intorno al loro comandante, si scambiarono occhiate furtive; in tutto il regno era nota la suscettibilità di Giorgione relativa al suo smisurato aumento di peso.

    L’atmosfera si fece glaciale, non solo per il vento gelido che aveva iniziato a spirare dalle montagne, mentre Sveva non staccava gli occhi canzonatori da quelli dell’ospite.

    Questi, con una repentinità sconcertante, scoppiò in una sonora risata e attirò la donna a sé in uno sconveniente e soffocante abbraccio.

    I castellani, i quali in massa avevano abbandonato le proprie attività per assistere a quello straordinario evento, osservarono allibiti la loro Signora che rideva a sua volta, stritolata nella stretta affettuosa di quello che sembrava a tutti gli effetti un gran notabile del regno.

    Erano ormai abituati allo stile stravagante di Sveva, così differente da quello elegante e raffinato delle delicate dame che di tanto in tanto, più che altro per errore o per estrema necessità, si trovavano a sostare a Castell’Azzurro; d’altro canto apprezzavano la sua abilità nel governare la Terre delle Montagne meglio di ogni Signore che l’avesse preceduta, incluso suo padre. Eppure mai si sarebbero aspettati che un cavaliere di alto lignaggio l’abbracciasse in quel modo, figurarsi che lei ricambiasse.

    Quando si sciolsero dalla reciproca stretta, i luogotenenti di Giorgione stavano già impartendo le direttive per alloggiare i cavalli e montare un piccolo accampamento interno alle mura, nel cortile delle scuderie.

    «Dunque» Sveva sollecitò con tatto il suo ospite «ti posso proporre un buon bicchiere di vino caldo speziato di fronte al fuoco per espormi la ragione della tua visita?».

    Era ansiosa di scoprire il motivo che aveva spinto Giorgione, per la prima volta in vent’anni, a violare il loro tacito accordo e ad attraversare il regno per arrivare sin lì. Nulla di buono, immaginava Sveva.

    «Buona idea!» ribatté il cavaliere rifilandole una poderosa manata sulla spalla che la fece barcollare.

    Anche acconsentire così in fretta, senza nemmeno pretendere un poco di tempo per rinfrescarsi dall’ultimo impegnativo tratto di viaggio, prospettava comunicazioni urgenti. La mancanza di formalità fra di loro era invece una consuetudine nata da un’antica amicizia –d’altra parte il protocollo era materia piuttosto trascurata a Castell’Azzurro. Senza dunque alcun servitore, né tantomeno araldo, a precederli, Sveva condusse Giorgione attraverso un paio di corridoi semibui fino alla Piccola Sala del Consiglio. Non che, come si sarebbe potuto credere dal nome, ne esistesse anche una grande, era che gli abitanti delle Terre delle Montagne amavano dare alle cose la loro esatta definizione: la stanza era senza dubbio alquanto piccola.

    In realtà, Sveva non ricordava più da quanto la sala accogliente non ospitasse più un Consiglio; i suoi membri, dieci in tutto, erano ormai abituati a riunirsi a un tavolo della locanda di donna Evelina, che serviva la miglior birra e il miglior stinco di maiale al forno del Pentaregno.

    Dunque, a rigor di logica, essendo stata eletta da Sveva come stanza preferita per i suoi studi e per le questioni di governo, avrebbe dovuto cambiare denominazione; ciò tuttavia avrebbe minato un’altra delle radicate abitudini dei montanari: l’idiosincrasia nei confronti dei cambiamenti.

    Entrando, trovarono il fuoco acceso, come sempre giorno e notte nella stagione fredda, che dava modo a Sveva di recarvisi in qualsiasi momento; le torce, inutili alla luce del giorno, spiccavano spente, sinistre e numerose, sulle piccole porzioni di muro fra le ampie finestre, disposte su pareti opposte a cogliere la luce del sole in tutto il suo percorso. Trovarono pure uno sguattero intento a ravvivare il focolare con dei nuovi ceppi di legno profumato.

    «Aldus» lo richiamò Sveva «potresti dire a Greta di portarci una caraffa di brullo, per favore?».

    Il ragazzo, il viso sporco di fuliggine, li guardò con gli occhi spalancati per la sorpresa e la soggezione e scappò via, mollando a terra gli ultimi pezzi di legno in un rumore fragoroso.

    «Credi che porterà a termine la missione o moriremo di sete?» chiese Giorgione sghignazzando.

    Sveva sospirò: «Fa sempre così, ma è molto efficiente; non temere, ti rifocillerai presto.»

    Infatti, giusto il tempo di liberare la tavola massiccia al centro della stanza da tutte le carte, i libri, le penne e i calamai di Sveva, e Greta, servetta giovane, maliziosa e intraprendente, arrivò con un vassoio carico di cibo e con un paio di caraffe di vino, una di brullo, l’altra del prodotto di un vitigno forte e aromatico tipico delle Montagne. Appoggiò il vassoio accanto a Giorgione con moine ed ammiccamenti sfacciati che non lasciarono indifferente il grasso cavaliere.

    «Potresti essere suo nonno» lo rimbrottò Sveva quando la ragazza ebbe lasciato la stanza.

    «Ma i nonni sono sempre i preferiti dai nipoti, no?». Giorgione rise mentre versava il fumante vino speziato in un boccale, riempiendolo fino all’orlo. Lo tracannò in un unico lungo sorso e se ne versò un secondo che scolò a metà prima di sentirsi soddisfatto.

    «Eccellente» si complimentò con un rutto.

    Sveva lo aveva osservato bere, senza imitarlo e senza mostrare l’ansia crescente che la sua visita improvvisa le stava causando.

    «Vino delle nostre viti montane cotto con una miscela di spezie» recitò stancamente.

    Giorgione iniziò a spalmarsi del formaggio fresco su un’abbondante fetta di pane quando Sveva, al limite dell’esasperazione, lo incalzò: «Dunque, quale straordinaria ragione ti conduce qui dopo vent’anni, facendoti affrontare un duro viaggio in questo periodo dell’anno piuttosto sfavorevole?».

    L’autunno nella Terre delle Montagne era più rigido dell’inverno più aspro nella Terra del Re, e la condizione delle strade, rese fangose dalle piogge intense ovunque nelle zone a nord ovest di Rocca d’Olivo, rendeva sconsigliabile qualsiasi spostamento non affrontato per effettiva urgenza o necessità.

    Giorgione si prese più tempo di quanto fosse effettivamente necessario a rispondere, per tenerla sulle spine: masticò con calma l’enorme boccone che aveva appena addentato, lo ingollò aiutandosi con ciò che restava del suo secondo boccale di brullo, si pulì la barba insozzata con una mano e, da vero gentiluomo quale era sempre stato, ruttò di nuovo più rumorosamente di prima.

    «Il re ha tollerato la tua assenza a corte per vent’anni, ma ora non è più disposto a farlo» tagliò corto guardandola con aria di sfida.

    Era ciò che Sveva aveva più temuto; se Leonida non era più disposto a mantenere le distanze non era certo per buone intenzioni. Alle convocazioni reali aveva sempre patecipato suo zio, Messer Jacopone; il marito della sorella di suo padre era originario della Terra del Re ed era ben lieto di tornare al paese d’origine pur di lasciare l’eremo solitario sulle montagne dove viveva in estrema solitudine dopo la morte di moglie e figlio, precipitati da un dirupo dietro la loro stessa dimora.

    «Non sono mai stata convocata personalmente» si difese Sveva con poca convinzione.

    «Ah, balle!» sbottò infatti il cavaliere. «Risparmiati queste panzane per chi ci crede. Sappiamo entrambi che, qualsiasi fosse il motivo della tua sparizione, ora per lui non è più valido. Sono qui con l’ordine tassativo di portare a Rocca d’Olivo te e tuo figlio. Con la forza, se necessario.»

    «Mio… mio figlio?» fu solo in grado di boccheggiare Sveva, impallidendo.

    Giorgione, che non diceva sul serio sull’uso della forza, interpretò la reazione di Sveva come se ci avesse davvero creduto e se ne sorprese.

    «Vuole dare a tuo figlio in sposa la sua primogenita, la situazione a corte… Che c’è, stai male?».

    Aveva iniziato a spiegare con un tono più conciliante, ma si interruppe nel vedere la donna tremare ansimando, il pallore del suo volto ancora più intenso.

    Sveva annaspava alla ricerca di aria, quasi che i suoi polmoni si fossero sgonfiati come soffietti. Giorgione si precipitò, per quanto glielo consentiva la sua mole, a soccorrerla, facendole bere un sorso di vino.

    Lei tossì quel tanto che bastava a farle riprendere fiato.

    «Non si possono sposare» gracchiò prima di riaversi del tutto.

    Giorgione, passata la preoccupazione, scoppiò a ridere, celiando: «Non avrei mai creduto tu fossi una mamma gelosa del proprio figlio! O peggio, una di quelle donnette che crede nei matrimoni d’amore!».

    L’ilarità gli morì sul volto quando capì che Sveva non era affatto disposta a scherzare e che, in quel momento, era pure oltremodo adirata.

    «Sono stata la Signora delle Battaglie ed ora sono la Signora della Terre delle Montagne; chiamami ancora donnetta ed uscirai da Castell’Azzurro senza poter più assolvere ai tuoi doveri coniugali.»

    Giorgione le lanciò un’occhiata sorpresa, quindi, pur non avendo visto nella sua espressione o percepito dal suo tono alcun cenno di ironia, scoppiò lo stesso in una nuova, fragorosa risata.

    «Per la barba del Dio degli Inferi, non sono sposato ma ho colto il concetto» starnazzò strappando suo malgrado un sorriso a Sveva.

    In quel preciso istante un ragazzo irruppe nella stanza con irruenza.

    «Messer Giorgio!» esclamò. «Scusate i miei modi, Messere, ma un Cavaliere del Re a Castell’Azzurro non c’è mai stato. E tu, mamma, perché non ci hai fatto chiamare subito?» concluse rivolgendosi a Sveva.

    L’abito da caccia che indossava il figlio di Sveva ne esaltava il fisico alto e muscoloso, e la bellezza del suo viso era accesa dall’allegria che sprizzavano gli occhi chiari, mettendo di buon umore qualsiasi suo interlocutore.

    Tuttavia il sorriso apparso sul faccione di Giorgio al precipitoso ingresso del ragazzo si spense lentamente a mano a mano che, studiandoli, riconosceva i lineamenti di quel volto.

    «Per le palle del Dio degli Inferi…» bisbigliò infine, compresa la verità.

    L’espressione del ragazzo si fece perplessa; non aveva mai visto la madre così tesa –arrabbiata sì, ma era un’altra cosa– e la situazione gli sfuggiva del tutto.

    «Mamma?» si limitò a sollecitarla, sperando fosse sufficiente a ottenere una risposta esauriente al suo stato d’animo.

    «Somigli molto a tuo padre» si limitò ad affermare Sveva in tono piatto, lasciando vagare lo sguardo dalle ampie finestre sul panorama delle montagne dell’ovest, già innevate.

    «Sì, me lo dici spesso» ribatté lui irritato, fissando con insistenza prima la madre, poi Messer Giorgio. «Ma perché lo ripeti ora, di fronte a un Cavaliere del Re?».

    A quel punto Giorgione fu colto da un’intuizione.

    «Non sa nulla del tuo passato, vero?» chiese a Sveva, senza tuttavia distogliere gli occhi dal volto del ragazzo.

    «Quale passato?» strillò questi con un timbro di voce più alto del solito, ormai sull’orlo dell’esasperazione.

    Trascorse quella che sembrò un’eternità prima che la madre tornasse a guardarlo negli occhi; la sua espressione era cambiata, si era fatta ferma e decisa.

    «Siediti, Corrado» ordinò al figlio e lui ubbidì al suo tono imperioso.

    «Ho rimandato questo momento troppo a lungo» cominciò a spiegare «e temo che ora sia tardi, ma è tempo che affronti le mie responsabilità. Quando eri bambino eri piccolo per poter capire e, d’improvviso, sei diventato talmente grande che mi era impossibile non provare vergogna a rivelarti la verità» la voce le si ruppe in gola e i suoi due ascoltatori credettero fosse l’e-mozione e non la incalzarono; Sveva si era invece infine resa conto che le sue erano semplici scuse per non affrontare la realtà dei fatti e le probabili conseguenze.

    «Anche io vent’anni fa ero un Cavaliere del Re» riprese. «Io ero la Signora delle Battaglie.»

    Corrado trattenne il fiato, sgranando gli occhi per la sorpresa che cedette ben presto posto alla sensazione bruciante di essere stato tradito; quante lezioni maestro Furio aveva loro tenuto sulla Guerra dei Cinque Anni, raccontando delle feroci battaglie vinte dai Cavalieri del Re, uno dei quali era la mitica Signora delle Battaglie. Corrado se l’era sempre immaginata forte e valorosa, ma androgina come un guerriero. Invece era sua madre.

    Era certo non avrebbe potuto essere più sconvolto e arrabbiato, ma si sbagliava. Quando la madre lo guardò, impassibile, negli occhi, non era pronto alla nuova rivelazione.

    Sveva gli confessò, senza alcuna emozione, ciò che gli aveva sempre tenuto nascosto: «Tu sei il figlio del re».

    Corrado sbiancò ed arrossì nel tempo che un fulmine impiega a colpire il suolo.

    «Mio padre era un valoroso guerriero morto nella Battaglia della Vittoria» ringhiò rabbioso, rifiutando le parole di sua madre e ripetendo la versione ufficiale della sua nascita, nella quale il misterioso guerriero aveva sposato Sveva in punto di morte.

    «Ĕ la Signora delle Battaglie ad essere morta in quel-l’ultimo scontro» replicò lei con freddezza. Si sforzava di contenere le emozioni dirompenti che, se liberate, avrebbero travolto tutti coloro che amava.

    Anche suo figlio si stava trattenendo dallo scappare via da quella discussione sgradita; d’altro canto, l’intu-izione che, dietro alle enormità che gli erano già state confessate, ci fosse ancora qualcosa di oscuro che doveva apprendere lo inchiodava alla sedia sulla quale era crollato, le nocche sbiancate nello sforzo involontario di serrare i pugni per la tensione.

    «I resoconti storici esaltano la Battaglia della Vittoria che pose fine alla guerra» riprese a raccontare Sveva, che aveva anche in Giorgione un ascoltatore attento, «come esempio di nobile forza degli alleati; nessuno menziona la strage vergognosa nella quale sfociò il trionfo di Leonida.»

    «Il re voleva ripristinare un’antica usanza…» tentò di giustificare il cavaliere, ma desistette, conscio del grave abuso commesso.

    «L’antica usanza era quella dei Merici, e avremmo dovuto rispettarla» proseguì infatti Sveva per spiegare a Corrado. «I loro generali si spostavano in guerra con le famiglie; in tempi remoti, in caso di sconfitta, era considerato per loro un disonore che mogli e figli sopravvivessero ai responsabili della disfatta passati a fil di spada dai nemici vittoriosi, e lasciavano che toccasse loro la medesima sorte. Superate le usanze barbare, era rimasta per i comandanti quella scaramantica di farsi accompagnare da donne e bambini, confidando nell’evoluta clemenza dei propri avversari delle terre dell’Ovest. Non la trovarono in Leonida: per assecondare la sete di vendetta e di sangue che né l’eccita-zione della vittoria né i fiumi di vino e di birra avevano spento in alcuni dei suoi più fedeli luogotenenti, il nuovo re ordinò di sterminare ogni essere vivente si trovasse al seguito dei perdenti. La strage iniziò all’in-saputa di coloro dai quali Leonida sapeva non avrebbe ottenuto l’approvazione; qualcuno venne allontanato con una scusa, qualcun altro messo in condizione di non potersi opporre.»

    «Ero talmente sbronzo che ho perso i sensi per un’in-tera giornata» borbottò Giorgione. «Solo in seguito mi sono ricordato che, al banchetto dei festeggiamenti, c’era un valletto di Leonida il cui unico compito era di non lasciare mai vuoto il mio boccale.»

    Sveva lo osservò con durezza; sebbene fino a quel momento avesse creduto di essersi lasciata il passato alle spalle, il suo cruccio rimaneva quello di non aver colto nessun segnale, di non essere riusciti, lei e gli altri come lei, a intuire le intenzioni di Leonida e, per il medesimo motivo, ce l’aveva ancora con Giorgione, oltre che con se stessa. Ma il suo risentimento nei confronti di chi era, in seguito all’eccidio, rimasto al fianco del re proveniva anche dalla facilità con cui aveva giustificato l’accaduto.

    Corrado ascoltava in silenzio, le labbra strette a formare una fessura.

    «Per allontanare me, Leonida mi aveva affidato l’incarico di portare notizia della vittoria a Rocca d’Olivo» continuò ancora Sveva, catturando il nuovo interesse di Giorgione che di quei fatti era ignaro. «Credeva di conoscermi abbastanza da sapere che avrei eseguito i suoi ordini senza indugi e che non mi sarei lasciata distrarre dall’euforia del successo; ma ero giovane e molto fiera delle mie prodezze in battaglia, così mi attardai a festeggiare con i miei uomini, per rendere onore anche al loro coraggio. Fu così che divenni testimone della strage; non mi limitai però ad osservare, mi battei per difendere donne e bambini delle Terre del Sole, uccidendo i miei stessi alleati.»

    Si interruppe per la sorpresa di scoprirsi ancora piena di rabbia per quell’accaduto; studiò suo figlio, lo sguardo vitreo perso nel vuoto e la mascella serrata, e Giorgione, l’espressione esterrefatta, ognuno dei due avvinto dal racconto sebbene con diverse emozioni.

    «Leonida fu astuto, non partecipò al massacro; affidò invece il comando della missione per attuare l’eccidio al fratello più giovane, Leandro. Stava per passare a fil di spada un neonato, quando lo affrontai e lo uccisi. No» rispose all’occhiata interrogativa del cavaliere «non è stato il principe Elior in fuga, come ha voluto far credere il re per gettare ulteriore fango sulla stirpe merica, sono stata io. Ma eravamo soli, io e pochi dei miei luogotenenti senza possibilità di radunare i nostri uomini; soccombemmo in fretta, soverchiati in numero da guerrieri esperti.»

    Calò nuovamente il silenzio, rotto solo dallo scoppiettare allegro del fuoco che stonava con il patos che permeava la stanza. Sveva era giunta alla parte più difficile del racconto e non poteva più tornare indietro.

    «Non mi uccisero; i suoi sgherri probabilmente intuirono che Leonida aveva in serbo per me una punizione di gran lunga più umiliante. Credevo di essere, ai suoi occhi, un buon stratega e un coraggioso guerriero, invece nella sua considerazione sono sempre e solo stata una stupida donna; quella notte me lo dimostrò con tutta la crudeltà di cui era capace.»

    Il significato delle parole della madre giunse a Corrado con lentezza, superando a fatica la sua ingenuità e la sua inesperienza; ma, quando lo colse, sul suo volto apparve una maschera di orrore che fece quasi desistere Sveva dal proseguire. D’altro canto aveva superato il limite per potersi fermare.

    «Restai priva di conoscenza a lungo e, quando mi ripresi ritrovandomi nella mia tenda, tutti si comportavano come se non fosse successo nulla, né a me né altrove. Mi adeguai e feci altrettanto; Leonida aveva vinto su ogni fronte. Il nostro esercito, ciò che ne restava, fu il primo a partire; non incontrai mai più il re.»

    Corrado si alzò, ancora fremente di rabbia, ma esitò accanto alla porta.

    «Tu sei nato sette mesi e mezzo dopo quella notte; avevi fretta di venire al mondo.» Sorrise, ma vi riuscì a stento solo con la bocca e Corrado appoggiò la mano sulla porta. «Da allora sei sempre stato la parte migliore di me» gli disse sua madre in un bisbiglio, che lui comunque sentì.

    Sveva provò un senso di sollievo quando il suo ragazzo tornò a guardarla, ma fu di breve durata.

    «Mi hai mentito» le ringhiò addosso dando sfogo a tutta la sua collera.

    «Ti ha protetto» si intromise Giorgione con foga «se a corte si fosse saputo di un erede maschio, seppur illegittimo, con una madre di tale lignaggio nessuno dei due sarebbe vissuto a lungo. La successione del regno, senza eredi maschi del re, il motivo della mia presenza qui, è ancor oggi un problema scottante, figurati allora.»

    Corrado lo ignorò.

    «Perché hai continuato a propinarmi bugie per tutta la vita?» sibilò a denti stretti.

    «Volevo proteggere la tua infanzia felice da una simile responsabilità; poi, d’un tratto, sei diventato un uomo e io… non ne ho più avuto il coraggio.»

    Per la prima volta nella vita di Corrado, e perfino da che potesse ricordarsi Giorgione, gli occhi di Sveva si riempirono di lacrime che tuttavia trattenne.

    Il cavaliere fu sicuro che la tenerezza che provava in quel momento nei confronti della sua vecchia amica non potesse non essere condivisa, ancora più intensamente, da suo figlio; ma non aveva alcuna esperienza di figli, infatti Corrado esitò per un solo istante, poi tornò a stringere i pugni, strizzando gli occhi per la collera.

    «Mi hai tradito» ripeté mentre si sbatteva la porta alle spalle con la medesima, ma di ben altra natura, foga con la quale era entrato in quella stessa stanza.

    «Per la barba e le palle del Dio degli Inferi» bofonchiò Giorgione.

    

    «Supererà tutta la faccenda in fretta» affermò il grasso cavaliere con il tono di chi, per primo, non crede a quanto sta dicendo, poi ingoiò un grosso boccone d’ar-rosto che, al calar della sera, era stato servito da Greta.

    Sveva tuttavia non lo stava ascoltando, nemmeno si accorgeva della sua presenza, assorta com’era nelle sue elucubrazioni; si chiedeva come potesse disubbidire all’ordine di Leonida senza incorrere nella sua ira o nella sua vendetta.

    «Devo prima parlarne con Dario» sussurrò infine, continuando a interloquire con se stessa.

    Così, quando Giorgione tornò ad imporre la propria presenza con un: «Chi sarebbe Dario?», trasalì per la sorpresa.

    «È… è l’altro mio figlio» rispose riaffiorando infine alla realtà.

    Il cavaliere quasi si strozzò con il sorso di birra che aveva appena sorbito.

    «Hai un altro figlio?» riuscì a chiedere sputacchiando.

    Sveva sospirò rendendosi conto che le spiegazioni non erano ancora finite; quantomeno quella storia era a già a conoscenza di entrambi i figli.

    «Non l’ho messo al mondo» iniziò, cincischiando con il pezzetto di patata ormai fredda che aveva infilzato «ma l’ho cresciuto dalla nascita ed è mio figlio tanto quanto Corrado.»

    Gli raccontò come avesse preso con sé il neonato, nella versione che tutti conoscevano; come l’avesse cresciuto insieme al fratello nell’isolamento, solo in parte forzato, del suo maniero; come fosse stato semplice mantenere il riserbo su quella sua seconda maternità, e sull’origine della prima, vivendo in quella terra sperduta fra le montagne: i viaggiatori erano rari, i mercanti ancor di più, considerando che erano i castellani ad andare ad approvvigionarsi altrove, e nessuno aveva interesse a fermarsi troppo a lungo in quel luogo remoto, ancorché capitale della signoria. La scarsa predisposizione ai pettegolezzi dei montanari e quella ancor più scarsa dei suoi figli a rimanere al castello, preferendo esplorare i boschi e le grotte circostanti, l’ave-vano aiutata a conservare il duplice segreto.

    «E ora dov’è il tuo Dario?» domandò ancora Giorgione.

    2.

    Incubo filava come il vento attraverso la fitta foresta di conifere che si arrampicava sulle pendici della montagna. Corrado si lasciava trasportare dall’imponente stallone con il mantello colore della notte –a volte credeva addirittura di scorgervi i riflessi delle stelle; in un angolo remoto della sua mente sconvolta, era consapevole che, nella galoppata irruenta, il cavallo non

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