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Il patto dell'abate nero
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E-book314 pagine3 ore

Il patto dell'abate nero

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Secretum Saga

L'autore italiano di thriller storici N°1 in Italia e più letto nel mondo

13 marzo 1460, porto di Alghero. Un mercante ebreo incontra in gran segreto l’agente di un uomo d’affari fiorentino, Teofilo Capponi. Vuole vendergli un’informazione preziosissima: l’esatta ubicazione del leggendario tesoro di Gilarus d’Orcania, un saraceno scomparso ai tempi di Carlo Magno. Venuta per caso a conoscenza della trattativa, Bianca de’ Brancacci, moglie di Capponi, si convince che quel tesoro ha a che fare con la morte di suo padre. Elabora così un piano preciso, ma per realizzarlo ha bisogno dell’aiuto di Tigrinus, il noto ladro fiorentino legato a Cosimo de’ Medici. Tigrinus dovrà partire alla volta di Alghero, spacciarsi per Teofilo Capponi, e poi mettersi sulle tracce dell’oro di Gilarus. A Firenze, Bianca cercherà di mantenere il segreto sulla missione affidata al ladro. Ma, mentre Tigrinus è lontano, qualcuno ha finalmente modo di mettere le mani sul tesoro più grande che il furfante nasconde: la Tavola di Smeraldo...

L'autore vincitore del Premio Bancarella
Oltre un milione e mezzo di copie

Dalla Firenze di Cosimo de’ Medici ad Alghero, fino a uno sperduto monastero della Catalogna. Un’avventura sulle tracce di un tesoro per cui molti hanno perso la vita.

«Marcello Simoni è uno spirito affine, un fratello. Attingendo alla sua formazione archeologica e letteraria riesce a infondere vita e poesia nella sua prosa. È un autore imperdibile per chi ama i romanzi storici.» 
Glenn Cooper

«Marcello Simoni deve il successo dei suoi romanzi all’incrocio sapiente di alcuni efficaci generi narrativi. Il romanzo di cappa e spada: avventure, tradimenti, intrighi; i romanzi gotici inglesi: sotterranei, agguati, misteri; il classico poliziesco con l’attesa del finale scioglimento.»
Corrado Augias, Il Venerdì
Marcello Simoni
È nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo e bibliotecario, laureato in Lettere, ha pubblicato diversi saggi storici; con Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. I diritti di traduzione sono stati acquistati in venti Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato L’isola dei monaci senza nome, con il quale ha vinto il Premio Lizza d’Oro 2013; La cattedrale dei morti; la trilogia Codice Millenarius Saga (L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni) e la Secretum Saga (L’eredità dell’abate nero, Il patto dell’abate nero e L’enigma dell’abate nero). Nel 2018 Marcello Simoni ha vinto il Premio Ilcorsaronero. Il segreto del mercante di libri è l’attesissimo seguito della Trilogia del mercante di libri, la saga che ha consacrato Marcello Simoni come autore culto di thriller storici.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2018
ISBN9788822720580
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    Anteprima del libro

    Il patto dell'abate nero - Marcello Simoni

    Prologo

    Alghero, quartiere ebraico. 13 marzo 1460

    Messer Giovanni Uzano fissava il vecchio che gli stava di fronte senza tradire alcuna fretta di proseguire il discorso. Sedevano sotto il pergolato di una locanda in Carrer de Sant’Elm, a pochi passi dall’antico Portal de la Mar che si apriva tra i bastioni, sulle acque scurite dall’imbrunire. L’unico suono a tener loro compagnia era il vociare delle donne dirette al porto. Madri, mogli e figlie dei pescatori di corallo avvolte in scialli e zendadi che si gonfiavano alle folate del maestrale.

    «Avete capito bene di cosa stiamo parlando?», ribadì il vecchio, tamburellando le unghie sul bordo del desco.

    Uzano si servì da una ciotola di pesce salato che aveva davanti a sé e annuì vago. «Perfettamente».

    «Scusatemi se insisto, ma ne dubito».

    «Scusatemi voi, mastro Lunell. Reputate forse che sia giunto fin qui per godere della vostra compagnia?».

    C’era una nota di fastidio nei modi di Uzano. Del resto si trovava al cospetto di un ebreo, nel cuore di una juharia eretta quasi in spregio ai cristiani nella zona più incantevole di Alghero. E benché quel Simeone de Lunell vestisse alla catalana e non portasse nemmeno la rotella obbligatoria a chiunque appartenesse al popolo di Jahvè, continuava a sbattergli in faccia le sue origini giudaiche arricciando il grottesco nasone da civetta.

    «Ma se pretendete maggior attenzione», mise in chiaro il fiorentino, «dovrete essere ben più esauriente».

    «Non vi basta il nome di Gilarus d’Orcania?», declamò l’altro, contrariato.

    «Un nome legato a un tesoro leggendario resta pur sempre un nome. Io sono qui per la mappa».

    Il vecchio scosse il capo. «Forse ho sbagliato a concedervi udienza», e fece per alzarsi.

    Uzano lo trattenne con un gesto aggressivo. «È morta fin troppa gente a causa della vostra ambiguità. Troppi cristiani, a dirla tutta».

    Simeone de Lunell tornò a sedersi, scrutando il suo accusatore in un misto di sdegno e di sorpresa. «Si può sapere a cosa diavolo alludete?»

    «Ai precedenti, messere. Precedenti assai spiacevoli». Il fiorentino allargò un ghigno. «O forse son mendaci le voci sugli infelici scomparsi dieci anni or sono, dopo essere partiti alla ricerca dello stesso tesoro di cui parlate?»

    «Se quegli incapaci fallirono, non fu certo colpa mia».

    «Eppure foste voi a indirizzarli», Uzano gli puntò l’indice contro, «proprio come ora state facendo con me. Ragion per cui, il mio padrone inizia a chiedersi se dietro le vostre promesse si celi davvero un’opportunità di guadagno o piuttosto una trappola ordita ai danni dei mercanti cristiani».

    Il vecchio allibì. «Avreste l’ardire di calunniarmi?»

    «Valuterà l’Inquisizione se si tratta o meno di calunnie», ribatté il fiorentino, per poi voltarsi con indifferenza verso la strada. L’ultimo gruppo di donne stava attraversando il Portal de la Mar alla luce fioca di lanterne che oscillavano nel buio. Lui seguì per un attimo quella processione spettrale, soffermandosi su un pensiero che lo divertì. «Non è difficile indovinare il vostro rovello, sapete?», aggiunse d’un tratto. «Appartenete a una delle famiglie ebree più facoltose di Alghero, una delle intoccabili risorse finanziarie del re d’Aragona. Ma all’idea che qualcuno vi scateni contro i sospetti di un tribunale ecclesiastico, privandovi in una volta sola di tutti i vostri privilegi…».

    «Perché mi minacciate?», lo interruppe l’altro, inarcando le folte sopracciglia grigie. Era angosciato, ma ancor più disgustato dalla piega presa dal discorso. «Mi avete già in pugno, è palese. Non potrei tradirvi nemmeno se lo volessi».

    «Allora coraggio», lo spronò Uzano, «sciogliete la lingua».

    «La fate un po’ troppo semplice, voi. Se lo facessi non vi servirei più a nulla».

    «Verrete pagato, se è a questo che alludete. Il tempo che il mio signore svincoli la somma da voi richiesta e potrete riempirvi le tasche di fiorini d’oro».

    «Ducati», rettificò il vecchio con un’ombra di cupidigia. «Dovrete convertire la vostra moneta in ducati, non dimenticatelo».

    «Come desiderate», l’assecondò il fiorentino. «Ora, però, venite al sodo».

    Simeone de Lunell annuì un paio di volte, quasi stesse ascoltando i consigli di una voce interiore. Continuava d’altro canto a mostrarsi scontroso e diffidente, al punto che, per un attimo, manifestò ancora il desiderio di andarsene. Alla fine, però, sbuffò rassegnato. «Non è una mappa che possiedo», confessò.

    «Allora cosa?»

    «La lettera di un dragomanno», rivelò con un filo di voce. «Un dragomanno, ovvero la guida che mostrò all’esercito di Carlo Magno come prendere la città spagnola di Noble».

    «Una città di cui si sono perse notizie da secoli», chiosò Uzano per dimostrare di essere al corrente dei fatti.

    L’ebreo assentì. «Noble era un importante presidio saraceno, una roccaforte ben guarnita e capace di resistere anche al più feroce degli assedi. Ma il dragomanno conosceva alcuni passaggi segreti che consentirono ai soldati franchi di oltrepassare le difese e di sorprendere i mori. Noble cadde, dunque, e l’esercito di Carlo Magno s’impadronì del tesoro di colui che la governava, il condottiero turco Gilarus d’Orcania».

    «Continuate».

    «Il resoconto del dragomanno è assai preciso», disse Lunell. «Nonostante la vittoria, Carlo Magno si adirò nel vedere i suoi duchi contendersi l’oro di Gilarus e, affinché la bramosia non li mettesse l’uno contro l’altro, ordinò che sigillassero il bottino in dodici forzieri e che lo sotterrassero in un luogo in cui nessuno avrebbe mai potuto trovarlo».

    Uzano si sporse in avanti. «Quale luogo?»

    «Non vi dirò altro», fece il vecchio, ritrovando il suo atteggiamento arcigno. «Null’altro, avete inteso?», e gli rivolse un sorriso tronfio. «Tornate pure dal vostro padrone e annunciategli che le mie labbra resteranno cucite finché non sarà lui, e non un suo leccapiedi, a condurre la trattativa. L’attendo con ansia, affinché egli possa elargire il compenso che mi ha promesso e, prima ancora, giurare di non rivolgere più minacce a me, né alla mia famiglia».

    Preso alla sprovvista da quella reazione oltraggiosa, Uzano si alzò di scatto facendo rovesciare lo sgabello. «E nel caso le vostre condizioni gli dispiacessero?»

    «Un mese», rincarò la dose Simeone de Lunell. «Se non avrò sue notizie entro un mese da oggi, vi do la mia parola, messere, che getterò nel fuoco la lettera del dragomanno e ne disperderò le ceneri al vento». Si alzò a sua volta e accennò un congedo. «I miei omaggi».

    «Altrettanto a voi», ricambiò l’uomo di Firenze con un burlesco inchino. Prima d’incamminarsi verso il porto, tuttavia, parve rammentarsi di qualcosa e, infilata una mano sotto il mantello da viaggio, estrasse un minuscolo rotolo di stoffa che lasciò cadere con malgarbo ai piedi del vecchio.

    Lunell rimase impettito, in una posizione di sfida che rendeva oltremodo ridicola la sua figura di vegliardo. Soltanto quando rimase solo si chinò in fretta per raccogliere ciò che gli era stato gettato da Uzano.

    Non appena capì di cosa si trattava, soffocò un’ingiuria.

    Era una pezza di tessuto giallo, a forma di cerchio.

    L’infame rotella che ovunque, eccetto ad Alghero, gli ebrei avevano l’obbligo di cucire sui propri abiti.

    parte prima

    Uomini perduti

    NAVE_TIGRINUS

    1

    Firenze, quartiere di Santa Croce. 25 marzo

    Vicino all’abbazia della Santa Vergine, a circa cento passi dal suo altissimo campanile, sorgeva il palazzo della famiglia Capponi. Incastonato quasi a forza tra tante botteghe di legatori e pergamenai, rivolgeva la sua facciata alla via del Podestà, suscitando riverenza in chiunque notasse sul portale lo stemma dell’Arte del Cambio. Ma se per caso un curioso, in quel mattino gravido di pioggia, avesse sbirciato poco più in alto, verso un piccolo balcone del primo piano, sarebbe rimasto colpito da una giovane donna seduta con una gamba penzoloni, alla guisa di un monello, con un libro in grembo.

    Non che Bianca de’ Brancacci disdegnasse assumere un contegno da signora, ma negli ultimi tempi le riusciva sempre più difficile. La filatura l’annoiava, il ricamo le pareva un passatempo da vecchia e così pure andare a messa, ragion per cui aveva scelto di dedicarsi alle Istorie de Tristano. Un volume donatole da Angelo in un tempo in cui lui le aveva voluto bene. O almeno aveva finto di farlo.

    Al pensiero del cugino, la donna chiuse il libro amareggiata e osservò il brulicare di gente verso Porta Ghibellina. Il grigiore dei nembi sembrava aver contaminato ogni cosa, spingendo i bottegai ad accendere i primi fuochi e i carrettieri a spronare le bestie. Lo spettacolo, tuttavia, fu sufficiente a fugare i brutti ricordi.

    Bianca aveva sempre amato quel mondo operoso, dal picchiettare dei maniscalchi al vociare dei marinai lungo le sponde dell’Arno. Come pure il coraggio dei mercanti che portavano le merci, la moneta e la lingua di Firenze fino ai confini del mondo. Un’impresa capace di far impallidire le canzoni degli eroi leggendari e di cui lei, seppur femmina, aveva sempre sognato di far parte.

    Rivolse un saluto sfrontato a un paio di anziane matrone intente a fissarla con disapprovazione, poi ripescò il libro scivolato tra le pieghe della gonna con l’intenzione di riprendere la lettura. Ma un particolare la costrinse a tenere gli occhi puntati sulla strada.

    Si trattava di due uomini appena sbucati da un vicolo e diretti verso il palazzo. Il primo era un individuo dall’aspetto losco, avvolto in un mantello da viaggio e con una bisaccia a tracolla. Il secondo, agghindato come un pavone, era invece messer Teofilo Capponi.

    Bianca si meravigliò nello scorgere il marito a quell’ora del mattino. Di solito Teofilo usciva di casa all’alba e tornava soltanto dopo compieta. Sempre solo, per giunta. Mai una volta che gli fosse capitato di portare subalterni o soci in affari entro le mura domestiche, giacché egli destinava quel genere d’incombenze alla Loggia dei Pisani, sede ufficiale dell’Arte del Cambio.

    Ripiegando d’istinto nella penombra di una bifora, Bianca continuò a spiarlo finché non lo vide fermarsi sotto il balcone e picchiare al battente d’ingresso. Un attimo dopo, un famiglio gli aprì senza indugio.

    «Dov’è la mia sposa?», lo sentì chiedere.

    «Nelle sue stanze», rispose il servo.

    «Che resti là», ordinò secco Teofilo, mentre entrava con il misterioso compare al seguito.

    A quel punto una comune padrona di casa avrebbe iniziato ad agghindarsi nell’eventualità che l’ospite volesse fermarsi a pranzo. L’indole sospettosa di Bianca la indusse invece a uscire di soppiatto dalla camera da letto per cercare di scoprire cosa stesse accadendo.

    Il piano superiore del palazzo era cinto da un ballatoio interno dotato di un parapetto in legno, attraverso le cui grate si poteva osservare di nascosto il pianoterra. La donna non esitò a rannicchiarsi e, tenendo celata la propria presenza, seguì le figure dei due uomini che, superato l’atrio, avevano raggiunto la sala conviviale nel lato posteriore dell’edificio.

    In quella posizione, Bianca si sentiva ridicola e goffa, senza contare che se avesse incontrato un servo sarebbe stata costretta a spiegare quel suo strano comportamento. Ma pur di tenere d’occhio il marito, non esitò a procedere ingobbita e a sporgersi oltre la balaustra delle scale che portavano al piano sottostante.

    Fu allora che vide Teofilo colpire con uno schiaffo l’altro uomo. Il gesto le parve così violento che si aspettò ne scaturisse una lite.

    Il viandante invece si limitò a massaggiarsi la guancia, allargando la bocca in uno di quei sorrisi che s’intravedevano oltre gli ingressi delle peggiori taverne. «Anche se ve la prendete con me», ghignò, «le sue labbra resteranno serrate come la fica di una suora».

    «Non siate volgare in casa mia!», l’ammonì Teofilo, minacciando di colpirlo una seconda volta.

    «A meno che…», insinuò l’altro, senza mostrare alcun timore.

    Messer Capponi ritirò la mano. «A meno che non mi rechi io stesso ad Alghero», aggiunse con una nota di sconforto. «Ma per chi mi avete preso? Non intendo certo fare la fine di Teodoro de’ Brancacci».

    Al risuonare di quel nome, Bianca dovette soffocare un’esclamazione. Teodoro de’ Brancacci, suo padre, era scomparso in Francia da oltre dieci anni a seguito di un disgraziato incidente. O così almeno le aveva raccontato lo zio, Giannotto Bruni, che si era prodigato per crescerla come una figlia prima di morire con un pugnale conficcato nelle viscere.

    Un improvviso fragore la colse di soprassalto, avvisandola che aveva appena iniziato a diluviare. Il tetto risuonava come la pelle di un tamburo.

    «Forse vostro suocero è ancora vivo», stava dicendo l’uomo col mantello da viaggio.

    «Ne dubito», ribatté Teofilo. «Scommetto cento fiorini che l’ha ucciso quell’ebreo bastardo».

    «In tal caso, Simeone de Lunell vi avrebbe fatto un piacere».

    «Tacete, per Dio».

    L’uomo lo squadrò con una smorfia di derisione. «Se fra queste mura vi fate tanti riguardi», osservò, «perché non mi avete ricevuto alla Loggia dei Pisani?»

    «Perché certi discorsi devono restare tra noi», rispose Capponi, guardandosi intorno con circospezione.

    Fu allora che, per un istante, i suoi occhi incrociarono quelli di Bianca.

    La donna si chinò di scatto e tornò a nascondersi dietro il parapetto. Forse suo marito non aveva fatto in tempo a scorgerla, si disse. Forse era riuscita a eclissarsi abbastanza velocemente da non farlo insospettire.

    Teofilo tornò a rivolgersi all’interlocutore come se nulla fosse. «Avete almeno la lettera?».

    L’uomo annuì ed estrasse dalla bisaccia un foglio arrotolato.

    Il marito di Bianca se la fece consegnare. «Restate nei paraggi», concluse, tradendo un’improvvisa premura. «Potrei avere ancora bisogno di voi».

    Poi, non appena l’ebbe congedato, guardò di nuovo verso l’alto. E imboccò la scala diretta al piano superiore.

    2

    Oltrarno, palazzo Bruni

    Il batacchio del portone continuava a picchiare con insistenza, diffondendo nell’edificio un suono molesto e cavernoso. Angelo Bruni lo udiva a malapena, perso com’era in uno stato di torpore che lo affliggeva da giorni. Curvo su uno scranno, tutto ingrugnito davanti a una finestra, sembrava in attesa di un evento infausto non solo per se stesso ma per l’umanità intera. E ora che si erano aperte le cateratte del cielo, fissava la pioggia cadere come infinite lance di vetro che minacciavano d’infilzare chiunque vagasse per le strade di Firenze. Primo fra tutti il seccatore alla porta. Adesso sì, ne percepiva il bussare. Doveva essere un creditore, o più probabilmente lo sgherro di un qualche usuraio ansioso di farsi restituire i propri denari. C’era quasi da ridere al pensiero di quel bischero intento a bussare sotto lo scroscio.

    Quasi da ridere, rimuginò Angelo.

    Guardò, intorno a sé, le pareti dello studio che aveva tanto amato. Gli scaffali erano completamente vuoti, fatta eccezione per qualche scartoffia e cianfrusaglia priva di valore. I libri, le carte nautiche e persino l’inestimabile Geographia di Tolomeo erano finiti nelle botteghe di avidi rigattieri in cambio di una miseria già dissipata per sopravvivere all’inverno. Anche i mobili e gli arredi del palazzo erano spariti quasi tutti, a poco a poco, insieme alla servitù e ai ricordi di una vita trascorsa negli agi.

    Gli restavano soltanto lo scranno su cui sedeva, uno scrittoio troppo vecchio per essere venduto a un prezzo accettabile e un’enorme lanterna turca appesa al soffitto, un cimelio proveniente dal passato avventuroso di suo padre.

    Ah, se tutto fosse potuto scorrere via insieme alla pioggia! Angelo immaginò le proprie disgrazie colare sul pavimento come fango e sciogliersi in rivoli nerastri lungo la strada. Subito dopo tornò ad avvertire il peso delle catene che l’opprimevano e maledisse il momento in cui era emerso dal torpore.

    Colpa della pioggia, si disse. Se non fosse stato per la pioggia avrebbe continuato a vagare nel dormiveglia come una nave alla deriva. Invece lo scroscio dell’acqua, e poi quel maledetto percuotere all’ingresso…

    Tese l’orecchio.

    Ben lungi dal desistere, il seccatore insisteva a picchiare il batacchio. Ci sarebbe stato quasi da lodarlo per lo zelo, se non fosse risultato più fastidioso di una cornacchia. Nello sforzo di farsi udire, aveva persino iniziato a gridare a squarciagola.

    Non si trattava di minacce né d’improperi, tuttavia.

    Pareva piuttosto il richiamo di una persona allarmata.

    Angelo indugiò ancora un attimo, restando sprofondato nello scranno. A dispetto della bancarotta che l’aveva spogliato di ogni bene, non si riconosceva più nell’ingenuo ragazzotto che pochi mesi prima si era lasciato turlupinare da messer Teofilo Capponi. Gli sberleffi, le minacce e i lividi lasciati dai creditori gli avevano insegnato a diffidare di ogni cosa e a odiare chiunque, ricco e povero che fosse.

    Afferrò quindi il bastone appoggiato al bracciolo e si alzò a fatica, trascinando il suo corpo adiposo verso l’esterno dello studio.

    «Andate via!», abbaiò. «Andate via o, giuraddio, vi prenderò a randellate!».

    Ma il piantagrane perseverava.

    Messer Bruni raggiunse il vestibolo a passi pesanti, sempre più deciso e incattivito. Sapeva bene di aver dato fiato alla bocca troppo presto, giacché, se oltre il battente ci fosse stato più di un uomo, non gli sarebbe certo riuscito di mantenere la promessa. D’altra parte poteva sempre controllare attraverso lo spioncino. E fu proprio ciò che fece non appena ebbe raggiunto la porta di legno borchiato.

    Aperto lo sportellino, osservò oltre la grata e scorse la faccia di un giovane avvolto in una schiavina fradicia di pioggia.

    «Non mi avete udito?», prese coraggio Angelo. «Volete che vi rompa le ossa?»

    «Messere, perdonatemi!», ribatté quello, mentre l’acqua gli grondava giù dal naso alla guisa di un doccione. «Reco notizie per Giannotto Bruni».

    «Mio padre è morto», e fece per chiudere lo spioncino.

    «Vi prego, aspettate!», insistette il ragazzo. «Se siete suo figlio, riguarda anche voi».

    Il padrone di casa proruppe in una risata amara. «Se intendete gravarmi di altri debiti…».

    «Quali debiti?», lo contraddisse l’altro. «Qui si tratta di una nave».

    «Una… nave?»

    «Una nave, sì! Una nave zeppa di merci. Mi manda la Decazia di Pisa per informarvi che ha attraccato tre giorni fa».

    Combattuto tra la diffidenza e lo stupore, Angelo spalancò il portone e afferrò il messaggero per il bavero. «Cosa diavolo andate blaterando?», urlò, sollevando il bastone.

    «Appartiene alla vostra compagnia…», squittì il giovane, mentre gli porgeva tremante un foglio di pergamena. «Se solo deste una rapida lettura al manifesto di carico…».

    3

    Teofilo salì verso il piano superiore avanzando di due gradini per volta. Allertata dal rumore dei suoi passi, Bianca riparò in fretta verso la camera da letto ma non fece in tempo a serrare l’uscio che il calzare del marito s’insinuò tra lo stipite e il battente, spingendola indietro.

    «Moglie!», irruppe messer Capponi con un sorriso mordace. «M’inganno o erano vostri gli occhi che un attimo fa erano intenti a spiarmi?».

    Indecisa tra il mentire e l’affrontarlo a viso aperto, lei strinse i pugni sui fianchi. «Mi è forse proibito conoscere ciò che avviene nella mia dimora?»

    «Questa è la mia dimora», specificò lui, quasi ammonisse una bambina. «La vostra – o meglio, ciò che ne resta – è passata in eredità a quello spiantato di vostro cugino».

    «Spiantato grazie a voi, se ben rammento».

    Teofilo chiuse la porta e prese a camminare con noncuranza verso il letto a baldacchino. «Chi è causa del proprio male pianga se stesso».

    Bianca si scostò al suo passaggio. Dopo nove mesi di matrimonio, quell’uomo restava un estraneo. L’aveva presa in sposa servendosi di un raggiro e ora si limitava a curarsi di lei soltanto dopo il crepuscolo, con sempre minor interesse. Di certo non l’amava e men che meno si degnava di mentire al riguardo. Ma anche se madonna de’ Brancacci vedeva in quell’atteggiamento una sorta di liberazione, non smetteva d’interrogarsi sul perché un individuo del genere, avido e tracotante, avesse

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