Preda/Predatore
Di Alan Palma
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Il racconto ha inizio col ritrovamento del cadavere di Riccardo Bevilacqua, giovane manager della Charleston Tobacco International, barbaramente ucciso in una rapina finita male. Siamo nella prima periferia di Roma, su una pista ciclabile, dove la vittima era solita praticare il suo hobby: il ciclismo. “Chi l’ha ucciso?” è l’interrogativo che si pongono gli accorsi sul posto, compreso il protagonista del romanzo, Stefano Preite, la Preda, amico e collega della vittima. «Probabilmente zingari. In questa zona, poco più in là, c’è un campo nomadi abusivo.» La netta risposta dell’ispettore Desideri non lascia margini ad interpretazioni.
Ma ben presto i mille dubbi finiscono per avvalorare la tesi del regolamento di conti. Sono troppe, infatti, le circostanze che rafforzano il sospetto di una messinscena orchestrata da qualcuno che ha un segreto da custodire a qualsiasi costo e ricorrendo a ogni mezzo.
Il racconto si sposta quindi in un altro luogo, nelle sterminate piantagioni di tabacco della CTI, dove la vita di Riccardo Bevilacqua, il Predatore, è scandita dal lavoro nei campi, fatto di sudore, polvere e fatica. Ogni giorno il copione è sempre lo stesso: la mattina il duro lavoro, la sera a casa con sua moglie Sara. Ma a sconquassare il tranquillo equilibrio del quotidiano, ci penserà una misteriosa voce al telefono che gli dà appuntamento in un luogo isolato, lontano dagli occhi di Sara.
Entrambi i personaggi, la Preda-Stefano e il Predatore-Riccardo, si imbatteranno in rivelazioni scioccanti che cambieranno il corso della loro vita: il primo verrà a conoscenza di un esperimento segreto attuato dalla sua azienda sulla ignara popolazione civile, del quale Riccardo voleva svelarne l’esistenza. Il secondo si troverà al cospetto di una giovane donna che gli racconterà del rapimento di Stefano Preite, del trattamento a base di U0126 (un potente farmaco in grado di stravolgere completamente i ricordi) e di una nuova identità: quella di Riccardo Bevilacqua.
Stefano e Riccardo sono quindi la stessa persona. Con la sua indagine Stefano stava diventando pericoloso, stava scoprendo verità troppo scomode, compromettenti. Così Stefano è stato rapito e drogato in modo che non ricordasse più nulla, neanche il suo nome. E infatti gli danno un altro nome: Riccardo Bevilacqua! Viene infine tenuto nascosto in un luogo sicuro e inaccessibile: le piantagioni di tabacco della CTI.
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Anteprima del libro
Preda/Predatore - Alan Palma
20
capitolo 1
PREDA
Quando intravide il cadavere, Elena perse i sensi. Sentì le gambe sciogliersi come fossero di burro e cadde, ritrovandosi tra le mie braccia appena in tempo, prima che rovinasse a terra. Tenendola delicatamente in braccio, la portai fino ad una macchina della Polizia parcheggiata sul ciglio della strada, dove la adagiai sul sedile posteriore.
«Chiamo un’ambulanza.» mi disse una agente, cercando di alleviare il mio senso di impotenza. La guardai dritta negli occhi, prima di annuire senza dire niente. Abbassai lo sguardo sul volto di Elena, era pallido e liscio come porcellana. Mi chinai appena e le accarezzai la fronte con la punta delle dita, scostandole una ciocca di capelli dal viso.
Coraggio, piccola mia!
Serrai i pugni, cercando di trovare la forza per affrontare quello che mi aspettava e mi diressi verso il punto dove era stato commesso l’omicidio.
L’aria gelida della notte penetrava nei polmoni, mentre il buio fitto mi avvolgeva completamente, interrotto solo dalla vorticosa luce azzurra dei lampeggiatori. Mentre avanzavo nell’oscurità, sentivo il mio respiro farsi pesante, affannoso, accompagnato dallo scricchiolio dei miei passi sul selciato. Più avanti, sagome nere si muovevano lentamente facendosi luce con delle torce, la cui luce proiettava in modo contorto le loro ombre allungate sul terreno. Erano gli uomini della Scientifica, intervenuti per i rilievi, alla ricerca di indizi e dell'arma del delitto. Una telefonata anonima aveva avvertito la Polizia della presenza di un corpo insanguinato
su una pista ciclabile nella prima periferia di Roma e, quando i militari erano accorsi sul posto, intorno alle 23.30, ogni forma di soccorso si era rivelata inutile. Riccardo Bevilacqua fu raggiunto quando, oramai, se ne poteva constatare solo il decesso.
All’improvviso, il mio piede urtò qualcosa sul terreno, facendomi trasalire. Dal rumore prodotto, pareva essere qualcosa di metallico, pensai a delle catene, ma il buio mi impediva di identificare chi o cosa aveva prodotto quell’inquietante stridulo. Un istante dopo, un cono di luce squarciò le tenebre, bruciandomi gli occhi. Istintivamente, gettai le braccia in avanti per coprirmi gli occhi col palmo delle mani. Il fascio di luce, danzando nervosamente sul mio corpo, si diresse verso il basso, fino ad illuminare le mie scarpe. Solo allora capii che qualcuno degli uomini aveva puntato su di me la sua torcia elettrica. Guardai per terra, dove il telaio di una bicicletta sfavillava di mille colori come tanti Swarovski.
La mountain bike di Riccardo.
«Faccia attenzione!» mi urlò l’uomo con la torcia, prima di scomparire di nuovo nell’oscurità. La luce si spense e tutto ripiombò nel buio. In quel posto così tetro restai smarrito, disorientato, nel tentativo di raccogliere i miei pensieri che si sovrapponevano confusamente l'uno sull'altro.
Dove mi trovo? Perché sono qui? E poi... qui dove?
Scrollai leggermente il capo per scacciare quei pensieri dalla mia testa e mi diressi con passo deciso verso il punto dove era stato commesso l’omicidio.
Passai tra gli agenti della Scientifica, qualcuno di essi si scusò per avermi sfiorato, e mi fermai attonito davanti al cadavere. Appena lo vidi, una morsa alla bocca dello stomaco mi afferrò violentemente, mentre un’incontenibile voglia di piangere e urlare mi fece tremare le mani. Riccardo giaceva ai miei piedi, con una profonda ferita alla testa, dalla quale era uscito parecchio sangue che aveva formato una piccola pozza sotto il suo viso. Mi abbassai sulle ginocchia e, quando vidi l’espressione del suo volto, con gli occhi vitrei e fissi sul nulla, cercai di trattenere le lacrime con ampi respiri. Chiusi gli occhi, sforzandomi di non piangere… ma in un attimo le lacrime mi bagnarono il volto. Piansi, piansi con rabbia e con dolore, pensando a chi aveva potuto fargli una cosa così orribile.
«Devono essere spuntati da una di queste siepi che delimitano la pista ciclabile... Lo hanno buttato giù dalla bicicletta e lo hanno colpito alla testa con quel bastone.»
L’uomo con la torcia elettrica, orientò il fascio di luce in direzione della vegetazione ai lati, e quindi sulla pista ciclabile, fin quando il cerchio di luce inquadrò un paletto di legno.
«Hanno preso quello che la vittima portava con sé e, quindi, si sono dileguati rapidamente, facendo perdere le loro tracce.»
Finita la fredda ricostruzione, l’uomo si voltò verso di me, guardandomi fisso negli occhi, come per dimostrarmi che si fidava di me e che io avrei dovuto fare altrettanto con lui.
«Sono l’ispettore Desideri.»
Incrociai per un attimo il suo sguardo, prima di tornare sul corpo di Riccardo.
«Chi... Chi è stato a fargli questo?» domandai con un filo di voce.
Desideri affondò le mani nelle grosse tasche dell’impermeabile e, con voce pacata, mi chiese: «Era un suo amico?»
Quella semplice e apparentemente innocua domanda, mi provocò una fitta allo stomaco. Chiusi gli occhi per trattenere quello che sarebbe stato un pianto disperato, mentre sentivo il suo sguardo che mi studiava con attenzione. Inspirai profondamente, facendo entrare l’aria gelida nei polmoni. Quindi annuii in silenzio con un semplice cenno del capo.
«Probabilmente zingari. In questa zona, poco più in là, c’è un campo nomadi abusivo. Stiamo già indagando.»
Restai imperturbabile, con lo sguardo perso nel buio, mentre Desideri, guardandomi con aria di sfida, aggiunse «Li troveremo, quei cani.».
«Stia attenta a dove mette i piedi!» gridò qualcuno dietro di noi. Ci voltammo entrambi di scatto, scorgendo Elena in compagnia della agente che l’aveva soccorsa poco prima. Appena la vidi, le andai incontro correndo e la abbracciai forte. Mentre la stringevo, chiusi gli occhi come se volessi dimenticare tutto ciò che avevo appena visto. Lei restò immobile senza dire niente, mentre sentivo il suo respiro farsi lento. Sollevai la testa dalla sua spalla e, dopo pochi istanti, vidi il suo volto impallidire, mentre teneva gli occhi fissi sul cadavere di Riccardo.
«Non guardare.» le dissi tirandola a me. La abbracciai ancora e, mentre la stringevo, alzai lo sguardo incrociando quello di Desideri che, in silenzio, mi fissava dubbioso.
capitolo 2
Tre settimane dopo, nella sede della Charleston Tobacco International, l’attività procedeva coi consueti ritmi frenetici, nonostante la cappa di malinconia che sembrava ancora avvolgere i diversi uffici. Lo sgomento e il dispiacere si leggevano sui volti dei colleghi, i quali si erano trovati privati, senza un apparente motivo, di una figura importante. Riccardo era considerato da tutti una persona di elevate doti morali e professionali, ben voluto dai colleghi e particolarmente stimato dai superiori. In pochi anni la sua carriera era stata folgorante, passando da brillante neo-assunto a manager capace e determinato. Per tutti, Riccardo rappresentava non solo un modello di riferimento da emulare nel lavoro, ma anche l’esempio da seguire nella vita di tutti i giorni. I suoi genitori erano morti in un incidente stradale quando era ancora bambino, ed era stato affidato ad una zia depressa che si suicidò con una dose eccessiva di barbiturici quando Riccardo aveva l’età di vent’uno anni. Tutti ammiravano il ragazzo orfano che, tra mille problemi e sofferenze, si era laureato a pieni voti e, con le proprie forze, era riuscito a raggiungere i vertici di una importante multinazionale. Una multinazionale che con i suoi 950 miliardi di sigarette prodotte ogni anno nelle 70 fabbriche dislocate in tutto il mondo, rappresentava una delle società di tabacco leader nel mondo. Un autentico colosso, che produceva nove fra le prime venti marche più vendute nel mondo, con una quota pari al 25% del mercato internazionale di sigarette.
Al quarto piano, in piedi nel mio ufficio, osservavo in silenzio la pioggia che incessantemente picchiava sulla vetrata. Le gocce d’acqua scendevano lungo il vetro, muovendosi le une con le altre, rincorrendosi, fermandosi e ripartendo di nuovo, in un gioco privo di significato. Alzai gli occhi fino a incrociare il mio stesso sguardo riflesso nella vetrata. Restai immobile a fissarlo per alcuni minuti, i miei occhi sembravano assenti e persi nel vuoto. Un lampo fece balenare nella mia mente la dolorosa scena di diversi giorni prima, l’angosciante nugolo di figure scure che sembrava danzare attorno al corpo senza vita di Riccardo. Chinai il capo fino a toccare il vetro con la fronte. Un flusso di pensieri inondò la mia mente riportando a galla il nostro primo incontro, che coincise col mio primo giorno di lavoro. Fu proprio lui, Riccardo, ad accogliermi appena varcata la porta d’ingresso. Mi strinse la mano come un amico ritrovato dopo tanto tempo.
«Stefano Preite?» mi chiese con un gran sorriso.
«Si.» gli risposi.
«Lieto di conoscerti. Io sono Riccardo Bevilacqua.»
Mi offrì il caffè, poi iniziammo il giro degli uffici.
«Lui è il nostro nuovo collaboratore.» diceva ad ognuno che incontravamo. Tutti sorridevano e annuivano, mentre io ricambiavo imbarazzato. Da quel giorno ebbe inizio la mia avventura nella CTI, sotto la guida di Riccardo. Furono anni di duro lavoro ma anche di eccellenti risultati. Tutto questo anche grazie alla straordinaria capacità di Riccardo di trasmettere conoscenze, esperienze e giuste motivazioni che gli permisero di creare un team di persone ad elevata performance. Eravamo un gruppo affiatato, solidale, stavamo bene insieme e riuscivamo pure a divertirci… finché i rapporti non si incrinarono in modo irreparabile.
Lo squillo improvviso del telefono mi strappò dai ricordi, riportandomi al presente. Staccai la fronte dal vetro e mi voltai a guardare il telefono, come se fosse un oggetto sconosciuto. Mi avvicinai alla scrivania e, prima di prendere il ricevitore, lessi sul display il numero di chi mi stava chiamando. Era la reception.
«Sì.» risposi con voce bassa, ma con tono fermo.
«Dottor Preite, ho in linea una chiamata per lei… è la Polizia.» aggiunse timidamente la receptionist.
Restai per qualche secondo senza riuscire a dire nulla, come paralizzato, guardando dubbioso la cornetta. La Polizia?
«Dottor Preite?» la voce della receptionist mi riportò alla realtà.
«Si… Si, la prendo.» le dissi.
La musichetta di attesa si inserì per qualche secondo, dopo di che risposi.
«Pronto, sono Stefano Preite.»
«Buongiorno, dottor Preite. Sono l’ispettore Desideri, del commissariato di piazza Venezia. Ci siamo conosciuti la sera del ritrovamento del cadavere di Bevilacqua.»
L’ispettore Desideri, l’uomo con la torcia elettrica!
«Si, ricordo… dica pure, ispettore.»
«La disturbo per chiederle se stasera ha la possibilità di fare un salto qui in commissariato. Avremmo qualche domanda da porle riguardo Bevilacqua.» La sua voce sembrava tranquilla.
«Certo.» risposi dopo qualche istante di esitazione, curioso di ciò che desiderava chiedermi. «Avete scoperto qualcosa?» chiesi.
Notai che, prima di rispondere, l’ispettore prese un respiro.
«Preferiamo che ci raggiunga in commissariato… le spiegheremo tutto.»
«Capisco. Conto di uscire dall’ufficio per le sette e trenta.»
«È perfetto.» rispose Desideri, il quale tagliò corto «Allora ci vediamo stasera. La saluto.»
Restai in piedi davanti alla scrivania, con la cornetta del telefono ancora sull’orecchio. Dubbioso, mi interrogavo sul perché la Polizia mi aveva rintracciato e, soprattutto, su quello che aveva da chiedermi su Riccardo. La cosa mi mise una certa ansia. Tornai vicino alla finestra, mentre mille pensieri mi affollavano la mente. Guardai fuori, accorgendomi che era smesso di piovere e che un timido sole stava facendo capolino.
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta e, subito dopo, aprì senza attendere il permesso. Era De Longhi il quale, entrando precipitosamente, disse «Stefano, sono arrivati quelli della Freeman. Ti stanno aspettando nella sala riunioni.»
Solo allora ricordai dell’incontro fissato due giorni prima con una grossa agenzia pubblicitaria, la quale doveva curare il lancio dell’edizione limitata di un prodotto. Negli ultimi anni, la CTI ricorreva spesso a questa tecnica di marketing, mettendo in commercio lo stesso prodotto in confezioni speciali, create per attirare l'attenzione dei potenziali compratori. Soprattutto giovani.
«Arrivo subito. Per favore, di’ loro di attendere qualche minuto.» dissi a De Longhi, il quale uscì senza richiudere la porta. Tornai alla scrivania e presi il mio blocco degli appunti. Feci un profondo respiro e mi diressi verso la sala riunioni.
A pomeriggio inoltrato, rientrai esausto nel mio ufficio, la giornata era stata pesante, come ormai di consueto. Il mio ufficio era essenziale: entrando dalla porta a vetro fumé, dov’era affissa una targhetta nera riportante il mio nome, si sfiorava un divano in pelle marrone giungendo di fronte a una scrivania con su un computer, un tappetino per il mouse con il logo della CTI e un paio di riviste di economia. Il resto dell'ufficio era composto da una libreria con decine di libri e altri documenti, e due sedie davanti alla scrivania. Ero da tempo giunto a conclusione che l’ufficio aveva un assoluto bisogno di un po’ di personalità. Pertanto, avevo cominciato a riempirlo di trofei sportivi, fotografie incorniciate, libri ispiratori e un quadro con una copertina di un album dei Pink Floyd.
Mi accomodai sulla poltroncina della scrivania e, dopo aver disattivato lo screen saver e digitato la password, aprii Outlook per una rapida occhiata alla posta elettronica… Niente di urgente. Guardai l’orologio, le lancette segnavano le sette passate. Spensi il computer e uscii dall'ufficio attraversando il lungo corridoio, dove ormai regnava il silenzio. Qualche secondo dopo, giunsi davanti all’ascensore, la cui spia rossa indicava che era occupato. Ero troppo stanco per prendere le scale, così attesi che si liberasse. In un istante i miei pensieri volarono alla telefonata di Desideri. Avremmo qualche domanda da porle riguardo Bevilacqua. Perché avremmo
e non ho
? Quanti sarebbero stati ad attendermi in commissariato? In quanti avrebbero ascoltato la mia deposizione? E che intendeva Desideri con Qualche domanda?
Dieci, venti… forse cinquanta domande? Un interrogatorio! Si, volevano mettermi sotto torchio, volevano estorcermi una… confessione!
«Stefano!» la voce improvvisa di Elena mi fece sobbalzare. Immerso nei miei pensieri, non mi ero accorto che le porte dell'ascensore si erano aperte. «Cercavo te. Te ne stai andando?» mi chiese uscendo dalla cabina.
«Si, sto andando dalla Polizia.»
«Dalla Polizia? » mi chiese stupita
«Sono stato convocato dall’ispettore Desideri… vuole farmi qualche domanda su Riccardo.»
La sua espressione si contrasse.
«Cos’ha da chiederti?» mi domandò, mentre entrambi entravamo nell’ascensore.
«Non ne ho idea, non mi ha accennato niente.» replicai.
«Ti posso accompagnare?» mi chiese lei mentre premeva il pulsante del piano terra. Ci pensai qualche secondo, prima di annuire. In fondo non ci vedevo nulla di male.
Uscimmo dal palazzo della CTI, camminando a passo spedito. Provai a fermare un taxi, ma trovarne uno libero a quell’ora non era facile. Decidemmo così di proseguire a piedi, del resto Piazza Venezia non era tanto lontana. Imboccammo via Condotti, passando davanti alle scintillanti vetrine dei famosi nomi del lusso italiano. Il nome della famosa strada, derivava dalle condutture dell'Acqua Vergine che nel XVI secolo servivano la parte bassa del Campo Marzio.
«Ma non ti ha accennato proprio niente l’ispettore… come si chiama? » mi chiese Elena.
«Desideri.» risposi, mentre dribblavo due turisti giapponesi intenti a fotografare le insegne di Gucci.
«…mi ha solo riferito l’intensione di farmi qualche domanda su Riccardo. Nulla di più.»
«Non sarai