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Giovane ragazza scomparsa
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Giovane ragazza scomparsa
E-book434 pagine6 ore

Giovane ragazza scomparsa

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Info su questo ebook

N°1 in classifica in Inghilterra, Francia e Germania
Un grande thriller
Impossibile smettere di leggerlo

Estelle Paradise si risveglia in un letto d’ospedale: la sua macchina è stata ritrovata distrutta in fondo a un burrone, lei è ferita e i suoi ricordi sono confusi e frammentari. Poi una terribile verità si fa strada: sua figlia Mia, di soli 7 mesi, è scomparsa. Qualche giorno prima, qualcuno ha portato via la bambina dalla sua stanza. In preda al panico e incapace di ricordare cosa sia successo, Estelle si lancia in un’estenuante ricerca della verità, ma le prove smentiscono la sua versione dei fatti e la donna diventa la principale sospettata agli occhi della polizia e dei media. Estelle sa bene che la chiave per capire cosa è successo quella notte è nascosta nella sua mente: può davvero aver fatto del male alla sua bambina?

La prima cosa che ricordo è il buio, poi è venuto il dolore.

«Veloce e appassionante... La capacità dell’autrice di far credere al lettore di avere indovinato qualcosa rende impossibile smettere di leggere questo romanzo.» 
Independent

«Una storia davvero coinvolgente. Non si riesce a interrompere la lettura.»
Oprah Winfrey
Alexandra Burt
è nata in Germania. Dopo la laurea si è trasferita in Texas dove vive tuttora. Traduttrice, ha seguito corsi di scrittura e poi ha deciso di raccontare le proprie storie. Fa parte di Sisters In Crime, un’organizzazione che promuove le scrittrici di thriller. Giovane ragazza scomparsa, suo romanzo d’esordio, ha avuto un ottimo riscontro di critica e lettori.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2016
ISBN9788854194311
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    Anteprima del libro

    Giovane ragazza scomparsa - Alexandra Burt

    PRIMA PARTE

    «Purtroppo, signore, temo di non potermi spiegare.

    Perché, vede, io non sono me stessa».

    Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie


    SCOMPARSA UNA BAMBINA DI 7 MESI DALLA CULLA


    Brooklyn, NY – Il Dipartimento di Polizia di New York chiede aiuto alla popolazione per rintracciare una bambina di 7 mesi, Mia Connor.


    I genitori e il dipartimento di polizia di New York chiedono alla popolazione di collaborare alle indagini. I cittadini residenti a North Dandry, Brooklyn, sono pregati di segnalare eventuali comportamenti sospetti notati nella notte e nelle prime ore del 1˚ ottobre.

    Mia Connor è stata vista l’ultima volta da sua madre, Estelle Paradise, di 27 anni, a mezzanotte circa, quando l’ha messa a dormire. Al risveglio, la mattina seguente, si è accorta che la bambina non c’era più. Al momento della scomparsa il padre era fuori città.

    «È un caso davvero frustrante», ha dichiarato venerdì Eric Rodriguez, portavoce del dipartimento di polizia di New York, durante una breve apparizione a una conferenza stampa. «Speriamo che qualcuno si faccia avanti e ci fornisca qualche informazione utile a rintracciare la bambina».


    Se avete informazioni su dove possa trovarsi Mia, chiamate subito il Servizio Segnalazioni al numero verde 1-888-267-4880. Tutte le telefonate rimarranno strettamente confidenziali.


    Capitolo 1

    «Signora Paradise?».

    La voce spunta dal nulla. Mi sento intorpidita, soprattutto la testa, come se stessi correndo sott’acqua: ci provo con tutta me stessa, ma non riesco ad andare avanti.

    «Instabile. Ottanta su sessanta. Sta calando».

    Oddio, sono ancora viva.

    Provo a muovere le gambe, e ci riesco. A fatica, ma ci riesco. Una luce improvvisa mi trafigge le palpebre. Sento dei cani abbaiare forte: ansimano. Sento il tintinnio delle medagliette.

    «Ha avuto un incidente stradale».

    Ho il viso paralizzato: i miei pensieri sono vaghi e indistinti, come scatole impolverate riposte negli angoli più remoti della soffitta. C’è qualcosa che non va, lo capisco subito.

    «Oddio, guarda la testa».

    Poi si sente una sirena. Parte a più riprese, poi diventa un’agonia costante.

    Voglio dire a queste persone che… Apro la bocca, le mie labbra cominciano a comporre le parole, ma il bruciore alla testa diventa insopportabile. Ho il petto in fiamme, e il ronzio nell’orecchio sinistro mi paralizza un intero lato del viso.

    Lasciatemi morire, vorrei dire, ma sento solo delle mani che strappano con urgenza un tessuto fragile.

    «Fatevi indietro, allontanatevi».

    Il mio corpo esplode, sobbalza.

    Questo non faceva parte del piano.

    Quando riprendo i sensi, la mia vista è confusa, annebbiata. Riesco a distinguere una donna con una divisa azzurra: è un’infermiera, che fa passare un tubo di plastica sulla mia testa, e infine due cannule sibilano e immettono aria fredda nelle narici.

    A questo punto l’infermiera manovra una leva e il letto si alza; con un’altra leva solleva la testiera finché non ho il busto quasi in verticale.

    Il mondo si fa più nitido. L’infermiera ha i capelli legati in una coda, e il suo cardigan ha le tasche slargate. La osservo gettare tubi e confezione, e poi la pattumiera si chiude con un tonfo irrevocabile. È una sensazione che non riesco del tutto a definire: un vago senso di perdita; come un borseggiatore che mi ruba gli spiccioli e scompare, risucchiato tra la folla che è il mio strano ricordo.

    All’improvviso mi giunge una voce maschile.

    «Devo metterle un catetere».

    Quella voce fin troppo gentile appartiene a un uomo con un camice bianco. Mi parla come se fossi una bambina che ha bisogno di conforto.

    «Si rilassi, non sentirà nulla».

    Devo rilassarmi? Non sentirò nulla? Facile a dirsi. Mi sento smarrita, come se fossi in mezzo a una bufera di neve e non sapessi decidere da quale parte andare. Provo ad alzare le braccia e vengo trafitta da una fitta di dolore, che parte dalla spalla e mi arriva fino al collo. Mi riprometto di non farlo più, almeno per il momento.

    L’uomo con il camice bianco mi strofina una salvietta imbevuta di alcol sul dorso della mano. Lascia una gelida scia, che mi scuote con forza dal mio stato di torpore. Osservo il dottore infilarmi un lungo ago nella vena. Un batuffolo di cotone giace dimenticato tra le pieghe della coperta a nido d’ape. Al centro, un puntino di sangue rosso vivo: sembra una lettera scarlatta.

    Vedo accendersi la scintilla di un ricordo, ma si spegne subito come un fiammifero bagnato. Mi rifiuto di farmi trascinare via. Mi oppongo, seguendo il rivolo cremisi, e mi aggrappo a quel ricordo iniziato come un impercettibile scricchiolio sulle scale, ma poi compaiono i mostri.

    Prima ricordo il buio.

    Poi il sangue.

    La mia bambina. Oddio, Mia.

    Il sangue non viene via. Sprazzi di cremisi esplodono come lampi nel cielo. Per un attimo illuminano tutto ciò che mi circonda; ma poi svaniscono di colpo, e il mio mondo sprofonda nel buio. Quelle immagini di sangue si affievoliscono e scompaiono, lasciando sullo schermo una tremula linea nera.

    All’improvviso sento lo scricchiolio delle suole di gomma sul linoleum e una mano che mi tocca la schiena.

    Non è reale. È solo una visione, nient’altro che una visione. Non vuol dire nulla.

    Un’infermiera mi stringe delicatamente le spalle, e io apro gli occhi.

    «Signora Paradise». La sua voce è dolce, sembra quasi volersi scusare. «Mi dispiace, ma mi hanno ordinato di svegliarla ogni due ore».

    «Sangue», mormoro e strizzo gli occhi cercando disperatamente di rievocare quell’immagine. «Non capisco da dove venga tutto questo sangue». Sono io che ho parlato? Non può essere: non sembra affatto la mia voce.

    «Sangue? Quale sangue?». L’infermiera guarda il catetere pulito e ben fissato. «Sta sanguinando?».

    Mi volto verso la finestra. Fuori è buio. Tutta la stanza compare nel riflesso del vetro: come una stampa, una copia fasulla della realtà.

    «Oddio», esclamo, e la voce mi esce strozzata come da un microfono stridulo. «Dov’è mia figlia?».

    Lei inclina la testa in silenzio e comincia a sistemare la coperta. «Chiamo il dottore», annuncia ed esce dalla stanza.

    Capitolo 2

    Delle voci raggiungono la mia stanza come un banco di nuvole: si mescolano al profumo di frittelle, sciroppo d’acero, pane tostato e caffè, mettendomi in subbuglio lo stomaco. Avverto una mano sul braccio.

    «Signora Paradise? Sono il dottor Baker».

    Mi soffermo soltanto sulla sua età: è giovane; come se il mio cervello non mi permettesse di andare oltre. L’ho già incontrato? Non lo so. Non mi funziona bene niente: né il corpo, né i sensi, nulla. Quand’è che ho smesso di ricordare le cose? Da quando la mia mente è così confusa?

    L’uomo indossa un camice bianco con il nome cucito sulla tasca: DOTT. JEREMY BAKER. Tira fuori una penna e mi punta un fascio luminoso negli occhi. L’esplosione di luce è così dolorosa che mi fa serrare le palpebre. Mi scosto, e la mia mano tocca il lato sinistro della testa. Ora capisco perché ho la sensazione che i suoni siano attutiti: ho la testa completamente bendata.

    «Signora, lei si trova al County General Hospital. Un’ambulanza l’ha portata al pronto soccorso…». Si interrompe e controlla l’orologio al polso. Mi chiedo perché sia così importante comunicarmi l’orario d’arrivo. Perché si mette a calcolare le ore? Vuole essere preciso? «… il 5 ottobre, tre giorni fa».

    Tre giorni? E non ricordo un solo minuto.

    Chiediglielo. Avanti, chiediglielo. «Dov’è mia figlia?»

    «Signora, lei ha avuto un incidente automobilistico. Ha riportato delle ferite alla testa e le è stato indotto il coma farmacologico».

    Incidente? Non ricordo nessun incidente. Quest’uomo non ha risposto alla mia domanda. Mi parla come se non fossi in grado di comprendere frasi più elaborate.

    «L’hanno trovata nella sua macchina, in un burrone. Ha riportato una commozione cerebrale, fratture alle costole e diverse contusioni agli arti inferiori. Quando è arrivata aveva anche una brutta ferita alla testa: edema cerebrale, ecco perché le è stato indotto il coma farmacologico».

    Non ricordo nessun incidente. E Jack? Sì, Mia è con Jack. Deve essere così. Forza, provaci di nuovo. «Mia figlia era in macchina con me?»

    «No, c’era soltanto lei», mi risponde.

    «Mia è con Jack? Con mio marito?».

    «Andrà tutto bene».

    Il sangue è solo frutto della mia immaginazione, non c’era davvero. Per fortuna, Mia è con Jack, è al sicuro. Andrà tutto bene, ha appena detto il dottore.

    «Al momento non sappiamo ancora se ha riportato danni cerebrali, ma ora che ha ripreso conoscenza, potremo sottoporla a tutti gli esami necessari». Fa un cenno all’infermiera, che per tutto il tempo gli è rimasta accanto. «Ha perso molto sangue e dobbiamo somministrarle dei liquidi per aiutarla a ristabilirsi. L’ematoma guarirà nel giro di qualche giorno, ma nel frattempo dobbiamo evitare l’accumulo di liquido nei polmoni».

    Prende un aggeggio e me lo mostra. «Questo è uno spirometro. In pratica, lei deve cercare di tenere sollevata più a lungo possibile la pallina rossa. L’infermiera le spiegherà bene come funziona. Ogni due ore, per favore». Quest’ultima raccomandazione è diretta all’infermiera.

    Il gorgoglio nel petto mi mette a disagio, ma cerco di non tossire. Il dolore a sinistra dev’essere per via della frattura alle costole. Mi domando se riuscirò a stare sveglia per due ore; o a svegliarmi ogni due ore, o a usare questo aggeggio per due ore, o qualunque cosa abbia detto il medico.

    «Prima che me ne dimentichi». Il dottor Baker mi guarda e rimane in silenzio per un po’. Mi chiedo se per caso mi sia sfuggita una domanda. Poi il dottore riprende a parlare, a bassa voce. «Sono venuti due investigatori, volevano parlarle. Non permetterò che le facciano nessuna domanda fino a quando non avremo terminato i nostri esami». Fa un cenno all’infermiera e si incammina verso la porta; poi si volta e mi concede un’ultima informazione. «Suo marito arriverà presto. Nel frattempo c’è qualcuno che possiamo chiamare? Parenti? Amici? Nessuno?».

    Scuoto la testa e mi pento subito di averlo fatto. Sento un martello che batte all’interno del cranio: la mia testa è un gigantesco bulbo rigonfio, e la pulsazione all’orecchio riesce persino a distrarmi dal dolore alle costole.

    Le mie palpebre si muovono da sole e si chiudono, eppure avrei così tante domande. Faccio un respiro profondo come se mi preparassi a saltare da un trampolino. Devo sforzarmi per riuscire a scandire le parole.

    «Dove è avvenuto l’incidente?».

    Perché mi guarda perplesso? C’è qualcosa che mi sfugge?

    «Mi dispiace, ma non posso raccontarle molto dell’incidente», risponde. Sembra molto controllato, come si stesse sforzando di rimanere composto per non farmi agitare. «Sappiamo solo che la sua macchina è stata trovata al confine, nel Nord dello stato, in fondo a un burrone». Pausa. «Ha riportato molte ferite, alcune dovute all’incidente. Riesce a ricordare quello che è successo?».

    Rifletto sulle sue parole e provo a concentrarmi. Un incidente. Niente, assolutamente nulla. C’è un grande buco nero al posto della mia memoria.

    «Non ricordo nulla», mormoro.

    Lui si acciglia. «Vuole dire… dell’incidente?».

    L’incidente. Parla dell’incidente come se ne sapessi qualcosa. Vorrei chiedergli di farmi una radiografia alla testa, così vedrebbe che c’è un’ombra scura nel mio cranio al posto della memoria.

    Ce la posso fare. Concentrati, pensa alla domanda e ripetila in mente; fai un bel respiro, e poi parla.

    «Lei non capisce. Non ricordo niente dell’incidente, e neppure ciò che è successo prima».

    «Si ricorda se voleva farsi del male?»

    «Farmi del male?».

    Me lo ricorderei, giusto? Che diavolo sta dicendo? Comincio a disperarmi. Non capisco dove vuole arrivare. Devo fare uno sforzo enorme per rimanere sveglia.

    «O quello, oppure le hanno sparato».

    Se mi hanno sparato o mi sono fatta del male da sola? Che razza di domande mi sta facendo?

    Giro il più possibile la testa a sinistra, e riesco a intravedere la gamba distesa di un poliziotto seduto in corridoio accanto alla porta. Non credo si tratti della procedura normale. Cosa sta succedendo?

    Il dottor Baker si guarda indietro; poi si volta di nuovo verso di me. Si avvicina e abbassa la voce. «Non se lo ricorda». Lo dice come se fosse un dato di fatto: non è più una domanda, ma un’affermazione.

    «Come faccio a sapere qualcosa che non ricordo?», replico. È divertente, se ci penso. Sogghigno, e lui si incupisce.

    Poi mi parla della mia voce. Dice che è monotona, e che le mie emozioni sono ridotte a livello di quantità e intensità, le mie reazioni sono appiattite, attenuate. Non capisco cosa voglia dire. Forse dovrei sorridere di più, essere più allegra? Sto per chiederglielo, ma poi sento una parola che mette tutto a tacere.

    «Amnesia», conclude il dottore. «Non ne conosciamo ancora la causa. Si tratta di amnesia retrograda, probabilmente post-traumatica. Forse è collegata al trauma che ha subito».

    Quando un uomo con il camice bianco pronuncia la parola amnesia, la situazione è grave. Irrevocabile. Non è esattamente come dire Me ne sono dimenticata, oppure Mannaggia, che sbadata!.

    Quindi non sono semplicemente sbadata, ma soffro di amnesia. Adesso il dottore mi chiederà in che anno siamo? Chi è il presidente? Quando è il mio compleanno? È così che fanno nei film. E comunque non è difficile, conosco tutte le risposte. Allora perché non mi ricordo dell’incidente? E cos’altro ho dimenticato?

    «Parliamo di amnesia retrograda perché non ricorda gli eventi accaduti appena prima dell’insorgenza del disturbo. Post-traumatica perché si tratta di un danno cognitivo improvviso, e la perdita di memoria può riguardare le ore oppure i giorni precedenti al trauma, o a volte anche un periodo più a lungo. Alla fine le torneranno alla mente gli eventi più lontani del suo passato, ma potrebbe anche non riuscire a ricordare mai più ciò che è successo appena prima del suo incidente. L’amnesia non può essere diagnosticata con una radiografia, come si fa con una frattura. Abbiamo fatto una risonanza magnetica e una TAC. In nessuno dei due casi è emerso nulla. In pratica non abbiamo nessuna prova che ci sia stato un danno al cervello, ma l’assenza di prove non ne nega la possibilità. Potrebbero esserci dei danni microscopici che la risonanza magnetica e la TAC non sono in grado di individuare. Nessuno dei due esami ha rilevato danni alle fibre nervose».

    Rimango in silenzio. Non so se dovrei chiedergli qualcos’altro, non sono neppure sicura di averci capito qualcosa. Non si sa ancora nulla di certo, quindi perché dovrei fargli altre domande?

    «È possibile che lei soffra di amnesia dissociativa. In seguito al trauma potrebbe aver cancellato determinate informazioni associate all’evento. Purtroppo neanche questo può essere accertato con un esame. Dovrebbe rivolgersi a uno psichiatra o uno psicologo. Ma procediamo con calma, facciamo un passo per volta. Il neurologo le prescriverà degli altri esami. Come ho detto, il tempo aiuterà a fare chiarezza».

    Faccio un profondo respiro. Gli sono grata per il bollettino medico, ma non riesco a togliermi di dosso la sensazione che mi stia nascondendo qualcosa.

    «Dove mi hanno trovata?»

    «In un burrone, dalle parti di Dover, nel Nord dello stato. È stata trasferita qui dall’ospedale di Dover».

    Dover? Dover. Niente. Tabula rasa.

    «Non sono mai stata a Dover».

    «È lì che l’hanno trovata, solo che lei non se lo ricorda. È normale, considerato che ha perso la memoria». Infila di nuovo la penna nel taschino. «È stata fortunata», aggiunge. Con l’indice e il pollice mi mostra quanta fortuna abbia avuto. «Ci mancava tanto così perché il proiettile provocasse danni molto seri. L’orecchio è compromesso, ma deve ricordarsi che è stata molto fortunata. Se lo ricordi, mi raccomando».

    Se lo ricordi. Divertente. D’istinto mi porto la mano all’orecchio. «Il mio orecchio è compromesso, in che senso? Che danno ho riportato?».

    Lui si ferma un istante. «Purtroppo l’ha perso. Del tutto. L’area era infetta, e così abbiamo dovuto prendere una decisione». Mi fissa con lo sguardo serio. «Poteva andare peggio. Le ripeto che è stata fortunata».

    «Già, ho avuto una gran fortuna». Ma a pensarci bene, non mi importa nulla dell’orecchio.

    «C’è sempre la chirurgia plastica».

    «E cosa c’è lì adesso? Insomma, c’è un buco?»

    «C’è una piccola apertura che drena i liquidi. Oltre a quello, c’è un lembo di pelle disteso sulla ferita».

    Un’apertura che drena i liquidi. Stranamente non mi ha fatto molta impressione sapere che là, dove una volta c’era il mio orecchio, ora c’è un buco ricoperto da un lembo di pelle. Soffro di amnesia. Ho dimenticato di chiudere la macchina. Ho perso l’ombrello. Ho perso l’orecchio. Più o meno è lo stesso, no, cosa importa?

    «E lei la chiama fortuna?»

    «È ancora viva, è questo che conta».

    Avverto di nuovo quel ronzio, e poi la voce del dottore si smorza all’improvviso, come se qualcuno avesse girato la manopola del volume.

    «Cosa mi dice del mio orecchio, allora?».

    Lui mi guarda perplesso.

    «Mi ha spiegato che l’ho perso». Del tutto, è l’espressione precisa che ha usato. «Insomma, l’udito. Cosa mi dice del mio udito? I suoni mi arrivano smorzati».

    «Mentre era in stato di incoscienza abbiamo eseguito un esame elettrofisiologico dell’udito». Prende la mia cartella dal comodino e la apre. Sfoglia le pagine. «Ha avuto un calo della capacità uditiva, ma leggero, niente di grave. Le prescriveremo altri esami, in base ai risultati della prossima TAC. Bisogna solo avere pazienza, e aspettare».

    «Questa cosa dell’orecchio… tutto questo è successo durante l’incidente?»

    «Hanno trovato una pistola in macchina. Non sanno esattamente come si è ferita, se qualcuno le ha sparato o se ha agito da sola. Speriamo che se lo ricordi presto».

    Proiettile. Mi hanno sparato o ho sparato a me stessa? Ecco perché c’è quel poliziotto davanti alla porta. Chissà se mi sta proteggendo o sta controllando che non faccia nulla di male. Tutta questa storia del proiettile, la pistola, il burrone, l’orecchio che non c’è più. La mia mente è svuotata, completamente. Eccetto…

    «Mi sono ricordata una cosa».

    Sento le parole uscire e animarsi di vita propria.

    «Ho bisogno di sapere se ciò che vedo è… Ecco… Credo di ricordare alcune cose qua e là, ma non è un ricordo vero e proprio. Sono piuttosto frammenti». È come sfogliare un album fotografico senza sapere se si tratta della mia vita o di quella di qualcun altro. Sangue. C’è così tanto sangue.

    «È un po’ come nella filastrocca di Humpty Dumpty: c’è un uovo rotto, e lei non riesce a rimettere insieme i pezzi. Forse non riuscirà mai a ricordare ogni singolo minuto di ciò che è successo, ma a un certo punto sarà in grado di unire tutti i puntini».

    Humpty Dumpty… Tutti i cavalli e i soldati del Re… Cavalli selvaggi . Prendo una decisione: il sangue è solo un’illusione ottica, un prodotto dell’immaginazione.

    «Sono molto stanca», mormoro, e così mi sento sollevata.

    «Se vuole che contattiamo qualcuno, lo comunichi all’infermiera. E non dimentichi lo spirometro, ogni due ore…». Indica qualcosa alle mie spalle. «Dietro di lei c’è una pompa elastomerica. Rilascia piccole quantità di analgesico. Se ha bisogno di una dose più consistente», mi mette in mano una scatoletta con un pulsante rosso, «le basta premere il pulsante rosso per ricevere una dose supplementare di morfina. Un dispositivo di sicurezza stabilisce la quantità massima erogabile entro un dato intervallo di tempo. Domande?».

    Ormai ho imparato la lezione, ed evito di scuotere troppo la testa.

    Lo osservo uscire dalla stanza, e subito dopo entra un’infermiera. Cerco di concentrarmi su ciò che mi sta dicendo a proposito dell’apparecchio giallo. Devo respirare con forza nel tubo finché non si solleva una pallina rossa; poi devo continuare a soffiare per tenere la pallina sollevata, il più a lungo possibile, perché ho del liquido nei polmoni.

    Quindi soffro di amnesia e ho perso un orecchio. Mi sento… Insomma, è come se non stessi reagendo come dovrei. Dovrei urlare e strepitare, imprecare, ma ciò che ha detto il dottor Baker sulla mancanza di emozioni – reazioni attenuate, le ha definite – sembrerebbe logico. Sì, la logica riesco a gestirla; sono le emozioni che mi sfuggono.

    Mi stanno nascondendo qualcosa. Forse perché si preoccupano di non dare brutte notizie ai pazienti, specialmente a quelli che si sono beccati un proiettile in testa e hanno perso un orecchio, e che bastava tanto così perché morissero. Dev’essere questa la ragione. Forse me lo dirà la polizia, o Jack, non appena arriva. Mi hanno già spiegato che ho perso ore e ore della mia vita; che cosa può esserci di tanto peggio?

    Reggo lo spirometro con la mano destra, soffio nel tubo e mi abbandono all’oblio mentre guardo la pallina rossa che si solleva. Poi strizzo gli occhi e mi sforzo di mantenere la palla sospesa. Improvvisamente mi appaiono degli sprazzi – il lettino vuoto, i biberon spariti – come se quei frammenti di immagini fossero rimasti incastrati dietro le palpebre. La mia mente esplode, si disintegra, si frantuma in minuscole particelle.

    Mia non è con Jack. È scomparsa.

    La rivelazione è così potente e improvvisa che gli elettrodi attaccati al petto sembrano tremare: dietro di me i macchinari rilevano subito il cambiamento. I trilli accelerano, quasi fossero gli zoccoli di un cavallo che comincia a muoversi, poi passa al trotto, infine si lancia al galoppo. La scomparsa di Mia è un fatto, eppure è slegata da tutte le conseguenze che implica. C’è una parte che non riesco ad afferrare. Un lettino vuoto. Non c’erano più i vestiti, i biberon e i pannolini. Non c’era più nulla. La cercavo e non riuscivo a trovarla. Sono andata dalla polizia. Poi nient’altro: un buco nero.

    Studio i pezzi come fossero i tasselli di un puzzle; li attacco, li stacco e ricomincio da capo. Ricordo di essere andata alla stazione di polizia, ma dopo si fa tutto sfocato, confuso, come un vecchio ricordo di quando ero bambina. La mia mente gioca al telefono senza fili: i pensieri trasmettono dei messaggi, e poi li ripetono distorti. Ambigui, addolciti, inaffidabili.

    Ogni volta che guardo sollevarsi la pallina dello spirometro, nella mia mente si formano altre immagini: le cabine di un bagno pubblico, un mocio per pavimenti, le scale, i piccioni, l’odore di vernice fresca. Poi gradualmente appare un quadro, come se qualcuno avesse acceso un interruttore a intensità regolabile: frammenti di corpi celesti; un sole, una luna. E le stelle. Tantissime stelle.

    Che ci facevo a Dover? Dov’è mia figlia? E perché nessuno mi parla di lei?

    Mentre giaccio in quel letto d’ospedale, mi accorgo del tempo che passa dall’effimero sprazzo di luce là fuori: il giorno che diventa notte, e poi di nuovo giorno. Adesso vorrei soltanto… un minuscolo assaggio della mia infanzia, una briciola di ricordo: mia madre che si prendeva cura di me quando ero al letto con l’influenza o qualche malattia esantematica, come il morbillo o la varicella. Poi mi ricordo di essere stata una bambina robusta. Una bambina forte, resistente ai virus, alle faringiti e alle congiuntiviti.

    Non so cosa dire a Jack quando verrà. Gli avranno riferito che Mia è scomparsa, e lui mi interrogherà. Jack tornerà da Chicago e mi farà delle domande, molte domande. Mi chiederà del giorno in cui Mia è scomparsa. Della mattina in cui ho trovato il lettino vuoto. L’amnesia è solo un’altra delle mie innumerevoli mancanze. Una lunga lista di difetti e inadempienze.

    Devo essere pazza, perché riesco a darmi un’unica spiegazione: mia figlia e il mio orecchio sono sicuramente insieme, nello stesso posto. E sospesi sopra di loro, a fluttuare come una giostrina sopra una culla, ci sono il sole, la luna e le stelle. Luminosi e splendenti nell’oscurità. Un universo caotico illuminato da corpi celesti.

    Poso la mano in grembo. Il mio corpo si blocca, è pietrificato. Ho avuto un incidente. Mi hanno sparato, oppure ho cercato di farmi del male. Ho perso un orecchio. Al suo posto c’è un buco che drena i liquidi.

    Ma non m’importa niente di tutto questo. Mia non c’è più. Basta solo il pensiero di mia figlia a farmi male, troppo male. Voglio che il dolore si plachi, ma quell’immagine non scompare. Alzo il dito. Voglio premere il pulsante rosso della pompa, abbandonarmi al torpore che mi offre la morfina. Ho un attimo di esitazione; poi metto giù la scatoletta. Devo assolutamente pensare, iniziare da qualche parte. Il lettino vuoto. I puntini. Devo unire i puntini.

    Capitolo 3

    Dopo la nascita di Mia, ho continuato a rivivere quel momento ogni singola notte: il suo primo sussulto scatenato dal freddo nella sala parto; poi un respiro profondo e infine un pianto disperato che le sfuggiva dalle labbra nello sforzo di affrontare l’inevitabile passaggio dal mio utero al mondo esterno.

    E ogni mattina mi rendevo conto che in realtà erano stati i suoi strilli a raggiungere i recessi più profondi dei miei sogni. Mi svegliavo sempre con la sensazione che un milione di piccole bombe mi stessero esplodendo in testa. Poi interveniva la memoria muscolare: svegliati, alzati, da’ da mangiare alla bimba, cambiala, falle il bagnetto, cullala, tienila in braccio. Bisogna darle da mangiare, cambiarla, farle il bagnetto, cullarla, tenerla in braccio.

    Avevo perso la nozione del tempo: non sapevo che giorno fosse, e neppure la data. Non ero al corrente dei problemi che affliggevano il resto del mondo, ed erano mesi che non prendevo in mano un libro o un giornale. La mia vita si era ridotta a un processo di consolidamento di compiti meccanici. Giornate ripetitive, fatte di attività cicliche portate avanti senza alcuna consapevolezza.

    Quando mi alzai dal divano, il mondo mi girò attorno per poi fermarsi. Rimasi in ascolto, in attesa di sentire riecheggiare gli strilli mattutini di Mia in preda alle coliche. A sette mesi dalla sua nascita, erano repliche – ormai centinaia – di quel momento primordiale che rivivevo ogni notte nei miei sogni. Ultimamente le sue grida mi raggiungevano ritardate, quasi distorte, come a sottolineare la distanza che si era creata tra noi.

    Quella mattina rimasi in ascolto, ma la casa era avvolta nel silenzio. Per una volta provai una sensazione di normalità, e mi immaginai una bambina paffuta adagiata sul lettino, una creatura delicata immersa in un sonno pesante e tranquillo. Avevo aspettato tanto il momento in cui Mia si sarebbe svegliata senza iniziare subito a piangere, ancora prima di aprire gli occhi. Forse quel giorno era arrivato. La fine delle coliche, la fine del suo pianto incessante?

    Pensai persino di girarmi dall’altra parte e riaddormentarmi, ma c’era qualcosa di strano. Come mai non la sentivo borbottare, biascicare suoni incomprensibili? Di solito a quell’ora Mia si era già attaccata alle sbarre del lettino, nel tentativo di sollevarsi in piedi, con gli occhi gonfi di lacrime e rabbia.

    Percorsi a piedi nudi il corridoio e mi fermai davanti alla porta della sua cameretta, ancora socchiusa. La sera prima mi ero dimenticata di togliermi l’orologio e il cinturino mi aveva lasciato un segno, come se avessi avuto i polsi legati per tutta la notte. Erano quasi le nove e avevo dormito per sei ore di fila, cosa mai successa.

    La porta di Mia era soltanto accostata, come l’avevo lasciata ore prima. La aprii appena e mi intrufolai nella stanza. Qualcosa mi colpì all’istante, facendomi sobbalzare.

    La giostrina di Campanellino sospesa sopra il piccolo letto: era sbilanciata e storta, in qualche modo sembrava imperfetta, come se fosse stata spostata. La stanza, illuminata dalla luce fioca del sole che filtrava dalla finestra, era completamente immersa nel silenzio. Il lettino davanti alla finestra era silenzioso, abbandonato: sulle lenzuola neppure un segno del corpicino di Mia.

    Nel mio cervello si scatenarono i fuochi d’artificio. Ero intrappolata nella zona grigia, a contemplare qualcosa d’impossibile, eppure ce l’avevo di fronte ai miei occhi. Com’era possibile che la bambina non ci fosse più? Mi pulsavano i molari mentre controllavo le finestre e scuotevo le sbarre di ferro. Cercai in tutto l’appartamento e ricontrollai due volte ogni finestra. Nessuna traccia della bimba.

    Corsi alla porta d’ingresso. Le serrature erano intatte, e c’erano ancora i segni del mio goffo tentativo di montare un chiavistello: il metallo graffiato, la vernice scheggiata. Le serrature erano tutte chiuse, e ogni cosa era al suo posto. Eccetto Mia.

    Non c’era nessuna prova che in casa ci fosse stato qualcuno: nessuna impronta sul pavimento, nessun oggetto dimenticato. Non era stato rimosso niente, eppure aleggiava una strana energia. Fisicamente l’appartamento pareva intatto, ma allo stesso tempo era come se fosse stato saccheggiato.

    Mi resi conto di quanto fosse paradossale quel momento: Mia era scomparsa, eppure non c’era nessuna prova, nessun indizio che qualcuno l’avesse portata via. Nessuna scheggia sul pavimento, nessuna porta spalancata, nessuna tenda che svolazzasse da una finestra socchiusa. Nessun lenzuolo ammucchiato, nessun ciuccio. Nessun giocattolo buttato sul pavimento.

    9-1-1.

    Corsi in cucina e afferrai la cornetta del telefono a muro, ma mi bloccai di scatto. Lo scolapiatti era vuoto. Non c’erano biberon, nessun bavaglino, nessuna tettarella, nessuna confezione di latte in polvere, nessun misurino.

    Mi precipitai verso la pattumiera, di sicuro i pannolini sporchi erano ancora lì. Il secchio però era vuoto, non c’era nemmeno il sacco di plastica.

    Spalancai il frigo. Tutti i biberon di latte in polvere che avevo preparato la sera prima erano spariti.

    Tornai in camera di Mia. I ripiani del fasciatoio, di solito pieni di pannolini e copertine, erano vuoti. La porta dell’armadio era spalancata e non c’era una sola gruccia appesa, nemmeno una scarpetta sul fondo.

    Aprii i cassetti: tutti i vestitini erano spariti. Il comò era completamente vuoto e non c’era nemmeno un bottone o un’etichetta rimasta in un angolo. Il cestino sopra il cassettone, dove tenevo i pannolini e le pomate, era vuoto. Non c’era nulla, i mobili erano tutti vuoti.

    Controllai ogni millimetro della sua stanza, ogni cassetto, ogni angolo del suo armadio. Sentii un colpo al cuore. Non solo Mia non c’era più, ma era sparita ogni sua traccia.

    La sede del settantesimo distretto di polizia su Lawrence Avenue a Brooklyn distava cinque minuti a piedi da North Dandry. Non appena varcai la porta a vetri dell’edificio, l’addetto alla reception alzò l’indice e lo puntò verso l’auricolare, per avvisarmi che stava parlando al telefono.

    Un custode stava spingendo sul pavimento un secchio giallo fluorescente con le rotelle e un mocio tutto sfilacciato. Aveva una tuta da lavoro blu e le scarpe da ginnastica bianche rivestite di plastica trasparente. Lo osservai mentre spingeva il secchio sul linoleum: puliva il pavimento con movimenti circolari, infilava il mocio nello strizzatoio e lo spremeva.

    Fissai il mio riflesso sul vetro della porta e vidi una donna che si dondolava avanti e indietro al ritmo del mocio, le strisce di cotone che strisciavano sul pavimento. Strofina, immergi, strizza, strofina, immergi, strizza.

    Ero lì in piedi da sola, accompagnata soltanto dal battito del mio cuore. Mi ero esercitata innumerevoli volte: cosa avrei detto, quali parole avrei usato. Scomparsa, no: implicava un momento di disattenzione; rapita non era la parola giusta perché non avevo visto nessuno portarla via. Non trovo più mia figlia: ecco l’espressione che avevo scelto.

    Dei passi mi riportarono di colpo alla realtà. Dietro di me si aprì una porta e contemporaneamente squillò un telefono. Un investigatore in pantaloni classici e camicia azzurra, la cravatta infilata nella cintura, si diresse al bancone della reception. Trascinava con sé un uomo basso ed esile stringendogli il braccio tatuato. L’uomo era in uno stato quasi catatonico. L’ispettore lo spintonò e così lo mandò a sbattere di petto contro il bancone: il tipo rimase indifferente, con un sorriso sbilenco, come se avesse sperimentato quel trattamento ormai troppe volte per preoccuparsene.

    «Chiama un agente e digli di farlo schedare», ordinò l’investigatore all’agente alla reception. «Non voglio più vedere la sua faccia finché non avrà smaltito la sbornia».

    «Ho bisogno di parlare con qualcuno». Lo dissi a voce alta, così alta che l’impiegato alzò gli occhi dal telefono. «Per favore, ho bisogno di aiuto».

    «Solo un minuto», rispose l’ispettore, «sarò da lei appena possibile». Era troppo lontano perché riuscissi a leggere il suo nome sulla targhetta appuntata sulla tasca della camicia. Sembrava giovane, forse era troppo giovane. Mi capirà? Ha figli? Si è già occupato di bambini scomparsi? Forse dovrei chiedere di parlare con un investigatore più esperto.

    «Ho bisogno di parlare con qualcuno», ripetei, alzando ancora di più la voce.

    Lui si avvicinò, di malavoglia. «Come posso aiutarla?».

    Sentii le parole trapassarmi la mente; poi mi balenarono immagini di serrature, porte chiuse con catenacci, fermagli, sicure.

    AIUTO, urlai dentro di me. Aprii la bocca ma non riuscii a emettere suono. Deglutii forte, e quel rumore parve riecheggiare nei corridoi silenziosi della centrale. Volevo confessare qualsiasi cosa avessi fatto: perché dovevo per forza aver fatto qualcosa. Nessuno può scomparire da una porta chiusa a chiave o attraverso le pareti, e non certo una bambina così piccola.

    Fui travolta da un’ondata di nausea e assecondai volentieri quei conati: volevo liberare le parole, confessare ciò che dovevo sicuramente aver fatto. Mi rifiutai di contrastare il peso che sentivo in gola. Sentii la saliva raccogliersi in bocca e istintivamente mi strinsi il naso con le dita per impedire che il vomito mi uscisse dalle narici.

    Lui si fece indietro, come se fossi una lebbrosa. «C’è un bagno qui dietro». L’ispettore indicò una porta a meno di tre metri da lì.

    Il bagno era

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