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La chiave di cristallo
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E-book334 pagine3 ore

La chiave di cristallo

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Info su questo ebook

La chiave di cristallo: una Porta, un Mistero lungo tre secoli, una Chiave. E' un thriller storico. Le vicende si svolgono in parallelo nella Roma di oggi e in quella misteriosa ed esoterica degli ultimi decenni del 1600, svelando inquietanti analogie fino al sorprendente colpo di scena. La Porta Magica di piazza Vittorio a Roma cela da più di tre secoli un tremendo mistero. Una chiave di cristallo potrebbe consentire a un uomo di svelarlo e, così facendo, di salvare la donna che ama, la propria anima e il futuro del mondo. Ricordi, premonizioni, sogni e realtà si sovrappongono, si fondono e si alimentano a vicenda in un accurato affresco degli ambienti romani del XVII secolo e dei più celebri personaggi che caratterizzarono un'epoca in bilico tra arretratezza e modernità, con l'Alchimia a fare da ponte tra antiche profezie e scienza moderna.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2018
ISBN9788827819890
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    Anteprima del libro

    La chiave di cristallo - Antonio Mosca

    uno.

    La Chiave

    «Ahimè, l’uomo eternamente ritorna!

    L’uomo più vile ritorna eternamente.»

    (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

    Il lampo di luce mi accecò. Caddi in ginocchio, un insopportabile dolore al cuore. Feci appena in tempo a portare una mano al fievole bagliore che intravidi sul mio petto, poi scivolai nel buio e nel silenzio.

    Quando mi risvegliai, le innumerevoli tonalità di viola, rosa e arancione del tramonto inondavano lo spazio intorno a me.

    Ero steso sul pavimento, provai a rialzarmi: ricaddi subito a terra. Mi trascinai allora verso una panca appoggiata al muro alle mie spalle e con fatica mi sollevai a sedere.

    Stringevo nel pugno la chiave e il crocifisso d’oro appesi alla catenina che mi pendeva dal collo. Li guardai, profondamente certo che fossero miei, senza però riuscire a ricordare in che modo li avessi avuti. Peggio ancora, non ero in grado di richiamare alla mente alcun ricordo. Un brivido attraversò il mio corpo dalla testa ai piedi, come se un artiglio gelido mi avesse sfiorato il cuore: avevo perso la memoria!

    Cercai di concentrarmi per ricostruire quel che era successo, ma mi sembrò di affondare in un mare di tenebre, squarciate solo dal ricordo della vampata di luce. Feci un respiro intenso e tornai a guardare gli oggetti che tenevo in mano.

    Un particolare della chiave mi parve insolito e attirò subito la mia attenzione. La soppesai: era leggera, capii che si trattava di una chiave di cristallo.

    La presi tra pollice e indice e fissai incredulo i capricciosi intrecci delle sue fini decorazioni. In un primo momento pensai che s’illuminassero a causa del riverbero della luce solare, presto, però, notai che il sole, calando verso l’orizzonte, andava trasformandosi in un’enorme palla rossa mentre la chiave splendeva di una luce candida e pulsante che sembrava scaturire dal suo interno, alimentata da una qualche forma di energia di cui non riuscii a intuire l’origine. Mi accorsi anche di un’altra cosa: ogni volta che cambiavo l’inclinazione dello sguardo i suoi riflessi di luce, simili a sottili pagliuzze luminose, si muovevano insieme a me, sembrava quasi che io potessi far danzare la luce della chiave di cristallo semplicemente spostando la testa.

    A un certo punto mi resi conto che stavo dedicando troppa attenzione alle stranezze di quella chiave nell’ingenuo tentativo di non pensare alla gravità della mia situazione, e il cuore si mise a battere forte, le mani iniziarono a tremare: è davvero tremendo ritrovarsi soli e senza memoria, ignorando perfino se, da qualche parte, qualcuno che ami ti stia aspettando, preoccupato per la tua assenza.

    Mi imposi allora di controllare il respiro, regolando il ciclo delle inspirazioni ed espirazioni su un ritmo lento e profondo.

    Quando mi fui un po’ calmato, decisi di mettere da parte crocifisso e chiave, che sistemai sotto la camicia in modo da nascondere la sua inspiegabile luminosità, per affrontare tutto il resto.

    Poiché mi sentivo meglio, riprovai ad alzarmi e questa volta ci riuscii senza problemi. Volsi lo sguardo intorno per capire dove mi trovassi: ero in una loggia con cinque arcate, all’interno di un’antica fortezza. Le volte erano affrescate, ma le immagini erano alquanto rovinate dal tempo e dalle intemperie.

    Mi affacciai. Dalle arcate della loggia si godeva di una straordinaria vista sui tetti di una meravigliosa città, scintillante come fuoco al rosso del tramonto, che si specchiava in un fiume placido e maestoso. Come un lampo si accese nella mia testa un ricordo: riconobbi Roma e il Tevere, e realizzai di trovarmi a Castel Sant’Angelo. Ne fui felice, voleva dire che non avevo perso definitivamente la memoria, dunque avrei potuto recuperarla mettendo assieme con pazienza un tassello dopo l’altro.

    Infilai le mani nelle tasche della giacca e dei pantaloni che indossavo, alla ricerca di un indizio che mi aiutasse a rammentare qualcosa. Trovai solo delle banconote e la tessera magnetica di un hotel, conservata in un cartoncino ripiegato dov’erano riportati il nome e l’indirizzo dell’albergo e, scritto a mano, il numero della stanza. Mi sforzai di essere ottimista e decisi di recarmi lì per fare una bella dormita, confidando che al risveglio avrei riacquistato la memoria.

    Inspirai intensamente e m’incamminai lungo gli antichi corridoi della fortezza, sulle cui pareti erano esposti i resti delle decorazioni e delle sculture romane che, come imparai leggendone le descrizioni, avevano ornato il sepolcro dell’imperatore Adriano, il perno attorno al quale Castel Sant’Angelo si era sviluppato nel corso dei secoli.

    Incrociai un custode, un uomo intorno alla sessantina alto e smilzo che mi squadrò accigliato.

    Cosa ci fa lei qui, mi rimproverò con voce severa, abbiamo chiuso già da un’ora.

    Mi accompagnò all’uscita, lasciai il Castello sentendomi stanco e inquieto.

    In strada fermai un taxi e mi feci accompagnare in albergo. Durante il tragitto guardai Roma scorrere davanti a me attraverso il vetro del finestrino ed ebbi la netta sensazione che quella, pur non ricordando quando, era stata la mia città.

    Giunto in hotel, un giovane portiere mi accolse con un sorriso che donò un briciolo di fascino a quel suo viso dove naso, occhi e bocca parevano esservi stati attaccati senza rispettare alcuna proporzione. Mi guardava come se mi conoscesse, io però non ricordavo niente di lui.

    La sua visita della città è stata piacevole, signor Giacomo? mi chiese con sincero interesse.

    Lo avrei abbracciato: mi aveva appeno rivelato il mio nome, mi limitai però ad annuire e a ricambiare il suo sorriso.

    Salii subito in stanza, dove mi spogliai, desideroso di una lunga doccia calda. La luce vibrante che scaturiva dalla chiave di cristallo mi turbò, alimentando la mia inquietudine. Così, prima di andare verso il bagno, mi sfilai la catenina e la chiusi in un cassetto.

    Non feci in tempo a muovere un passo che una luce fortissima mi abbagliò. Fui percorso da intensi brividi, sentii la bocca e la gola aride come se avessi ingoiato sabbia e tutti i tentativi di muovermi mi costavano sforzi tremendi.

    Indietreggiai d’istinto: brancolavo perché quell’inaspettato lampo mi aveva lasciato momentaneamente cieco, inciampai e caddi sul letto. Stavo per rassegnarmi a giacere lì inerte, abbandonandomi all’angoscia e al dolore, quando avvertii il bisogno impellente di stringere tra le mani la chiave di cristallo.

    Mi mossi a tastoni, alla ricerca del cassetto dove avevo riposto la catenina con il crocifisso e la chiave. Riuscii a trovarlo e, non appena riconobbi al tatto la sagoma della chiave di cristallo, la strinsi forte e portai la mano sul cuore: mi sentii immediatamente meglio.

    Rimasi qualche minuto disteso sul letto a fissare la chiave che emanava i suoi tenui, misteriosi bagliori. Sperai potesse rivelarmi le risposte alle domande che mi opprimevano: chi ero? come avevo perso la memoria?

    Infine andai in bagno, dove bevvi un sorso d’acqua per tentare di sciogliere l’angoscia che sentivo in petto, poi allacciai la catenina al collo e mi infilai sotto la doccia.

    Dopo essermi asciugato, m’imposi di affrontare con razionalità la strana situazione in cui m’ero venuto a trovare. Per prima cosa esplorai la stanza alla ricerca di indizi utili a ricostruire frammenti del mio passato e della mia identità.

    Trovai ben poco: una valigia vuota, alcuni abiti disposti in maniera ordinata all’interno dell’armadio e nella cassettiera. Nessun documento d’identità, ma per quello avrei poi chiesto al portiere: forse l’avevo consegnato in reception al momento dell’arrivo in albergo.

    Vidi un computer sulla scrivania. Mi sedetti, lo accesi e inserii la password indicata nella documentazione per gli ospiti. Cercai tra le cartelle elettroniche qualche informazione utile ai miei scopi: niente.

    Mi collegai allora a Internet, aprii il motore di ricerca e restai qualche secondo a riflettere su quale chiave di ricerca utilizzare. Inserii ‘amnesia’ e trascorsi alcuni minuti a studiare i risultati, indeciso se diagnosticarmi una ‘amnesia globale’, oppure un ‘disturbo dissociativo’, probabilmente di origine traumatica. Mi consolai leggendo che, in entrambi i casi, i sintomi hanno una durata molto limitata nel tempo e svaniscono di solito nel giro di alcune ore o di pochi giorni. Ipotizzai anche di poter essere un dottore, visto che ero stato in grado di comprendere quei difficili concetti medici.

    D’impulso, scrissi le parole ‘chiave di cristallo’ e avviai di nuovo la ricerca. Apparvero più di un milione di risultati, troppi. Raffinai allora la ricerca, aggiungendo ‘antica’: duecentomila risultati, ancora tanti, decisi comunque di scorrerne velocemente alcuni.

    Uno di essi attirò tutta la mia attenzione. L’anteprima mostrata dal motore di ricerca recitava: ‘L’Uomo con la Chiave di Cristallo ha bisogno di ritrovare la Porta’. L’autrice era una certa Emily, la data e l’ora di creazione coincidevano all’incirca con il mio malore a Castel Sant’Angelo.

    Incuriosito dalla coincidenza, cliccai sul link e comparve una pagina web al cui centro risaltava l’immagine di una porta antica con strani simboli scolpiti sugli stipiti e sull’architrave. Non ricordavo di averla mai vista prima, eppure mi risultò vagamente familiare. La didascalia dell’illustrazione recitava: ‘Porta Magica di piazza Vittorio, Roma, XVII secolo’.

    Cliccai sul nome ‘Emily’ e si aprì un blog con alcune informazioni riguardanti l’autrice e una sua foto: il viso di una graziosa ragazza che sorrideva enigmatico.

    Scorsi velocemente i suoi interessi: Emily era esperta di astronomia e appassionata di astrologia, nel suo blog dialogava con altre persone interessate come lei a profezie, cabala e altri argomenti new age.

    Proprio mentre stavo leggendo, Emily pubblicò un nuovo post. Il testo recitava: ‘Dall’uomo con la chiave di cristallo dipende il futuro di tutti noi’. In bella evidenza c’era un disegno, la riproduzione fedele della mia chiave.

    L’ansia mi prese alla gola e al petto, il mio cuore perse un battito: forse quella ragazza sapeva qualcosa che mi avrebbe aiutato a capire quel che mi era accaduto!

    Decisi di mettermi in contatto con lei, così le scrissi una mail nella quale le rivelavo di avere delle informazioni sulla chiave, e le chiedevo di rispondermi con urgenza.

    Dopo, cenai svogliatamente mangiando a piccoli bocconi un panino che mi ero fatto consegnare dal servizio in camera. Niente, però, riuscì a distogliere la mia mente dal pensiero della chiave e della relazione che poteva esserci con quella strana porta che avevo visto nel blog di Emily.

    Quando controllai per l’ultima volta la casella di posta elettronica erano già trascorse alcune ore dall’invio del mio messaggio, ma nessuna risposta era giunta da parte della ragazza.

    Mi stesi sul letto cercando di dormire, però all’inizio non riuscii ad addormentarmi. Provai allora a svuotare la mente fissando i tenui riflessi della chiave e regolai i miei respiri su un ritmo lungo e lento.

    Funzionò: sentii il corpo farsi sempre più pesante e, quando il sonno finalmente mi avvolse, sognai un uomo rinchiuso in una stanza angusta, scarsamente illuminata da una finestrella con le sbarre.

    Francesco Borri

    «Piccola anima smarrita e soave

    compagna e ospite del corpo

    ora t'appresti ad ascendere in luoghi

    incolori, ardui e spogli,

    ove non avrai più i consueti svaghi.»

    (Epitaffio di Adriano, Imperatore di Roma)

    Le due guardie papali spalancarono rumorosamente la porta della cella ed entrarono.

    Il prigioniero era di spalle, intento a disegnare qualcosa su una parete scarsamente illuminata dal cono di luce solare che filtrava dalla grata posta in alto sul soffitto, in corrispondenza di uno dei cortili della fortezza, e parve non accorgersi del loro arrivo: sembrava totalmente immerso nella sua opera.

    La parete era ricoperta di disegni, schemi, frasi e simboli tracciati con colori e sfumature diversi: c’era il nero, utilizzato principalmente per le formule, il rosso per le altre scritte e indefinibili variazioni del marrone, del verde e del giallo per i vari disegni. Si distinguevano il sole e la luna, e anche alcuni pianeti e altri astri, tra le piante raffigurate si celavano forme vagamente umane. Il tutto sembrava rappresentare un mondo misterioso, con dei segreti reconditi che il prigioniero stava cercando di svelare.

    Le due guardie non erano in grado di decifrare alcun segno, anzi tutta quell’opera incuteva loro un certo timore, mitigato solo dal fatto che la parete opposta era invece decorata con immagini sacre di ottima fattura, disegnate da un tal Benvenuto Cellini, un artista alquanto turbolento vissuto più di cento anni addietro, e ancora famoso presso la guarnigione del Castello per essere riuscito a evadere da una delle celle dei piani superiori, ben più confortevoli di quella, che era la peggiore dei sotterranei, annodando tra loro le lenzuola: una volta riacciuffato era stato sbattuto lì, e ne era uscito solo grazie all’intercessione di amici potenti.

    Tra i disegni di Cellini si riconoscevano i ritratti di un Dio Padre e un Cristo Risorto, leggermente sbiaditi dal tempo e dall’umidità che permeava le pareti. Altre figure erano state aggiunte in epoca più recente da prigionieri di minor talento: un crocifisso, una Madonna e alcuni personaggi vestiti con sai, probabilmente dei santi.

    Il più giovane delle due guardie, un uomo sui vent’anni dal viso lungo e glabro illuminato da una luce di bontà ma privo di particolari segni di intelligenza, si soffermò a guardare a bocca aperta il disegno al quale il prigioniero stava lavorando: una sorta di gigantesco serpente che si mordeva la coda, raffigurato in ogni minimo dettaglio. La parte superiore dell’animale era tinteggiata di scuro mentre quella inferiore era chiara, e lui la stava rifinendo incidendo lo strato di sporco e fuliggine della parete per rendere evidente ogni singola squama della figura. Contemporaneamente, raccoglieva in un recipiente di argilla la polvere scura grattata via, forse per utilizzarla in un secondo momento per ricavarvi, miscelata con qualche liquido, del nuovo colore.

    L’altra guardia papale era un uomo sui trent’anni, robusto, scuro di capelli e di barba, e aveva folte sopracciglia. Tutto, nel suo contegno, indicava che era di indole taciturna, calmo e risoluto. Diede un colpo sulla spalla del compagno per richiamarlo al motivo della loro visita e attirò l’attenzione del prigioniero facendo tintinnare le catene che egli avrebbe dovuto indossare prima di essere trasferito.

    Sua Eminenza ti attende, annunciò in tono monocorde.

    Finalmente, sussurrò il prigioniero.

    Distolse lo sguardo dalla parete e ripose velocemente i suoi attrezzi. Si sistemò la camicia e srotolò le maniche prima di porgere i polsi alla guardia, che glieli cinse con delle manette da cui penzolava la catena che il suo compagno, chinatosi, passò tra i due anelli saldati ai ferri posti alle caviglie dell’uomo fin dal momento del suo arresto.

    Così bardato, attese che la guardia più anziana illuminasse con la torcia l’esterno della segreta, poi uscì e l’altro richiuse la porta.

    La cella era l’ultima del corridoio, confinante con una cisterna dell’acqua da cui proveniva l’umidità che l’affliggeva.

    I tre uomini percorsero silenziosi il corridoio semicircolare delle segrete, voltarono a sinistra e, scesa una piccola rampa di scale, entrarono in un vasto ambiente dov’erano stipate un’ottantina di grandi giare: dall’odore acido il prigioniero intuì che contenevano olio.

    Mentre la attraversavano, le torce proiettarono un vago chiarore in fondo alla sala e resero visibili le aperture di alcune fosse circolari: erano i silos fatti costruire più di cento anni prima da papa Clemente VII per stiparvi gli alimenti che furono utilizzati durante l’assedio da parte dei lanzichenecchi.

    Dalla sala delle oliare entrarono in un salone che un tempo lontano era stato ricco di marmi pregiati e bronzi scintillanti, il vero cuore di quell’antichissimo edificio. Ora conservava poche delle antiche decorazioni: la tremolante luce delle fiaccole rese visibili al prigioniero le nicchie che avevano conservato le urne con le ceneri di Adriano, di sua moglie Sabina e del loro figlio Elio Cesare prima che l’antica tomba imperiale fosse trasformata dai papi in una fortezza e in una prigione. La sua attenzione fu attirata dalla lapide dov’era scolpito l’epitaffio di Adriano e, come l’imperatore aveva fatto mille e cinquecento anni prima, anche lui si interrogò sul futuro della propria anima.

    Sempre in silenzio, imboccarono la scala che li avrebbe portati al terzo piano della fortezza. Giunti in cima alla rampa, la guardia in testa al drappello bussò a una porta che fu aperta solo dopo una verifica a voce.

    Uscirono in un ampio cortile: il sole era alto nel cielo e la sua luce inondava tutto lo spazio intorno al prigioniero. Egli si fermò e, a occhi chiusi, respirò a pieni polmoni la fresca aria primaverile: era la prima volta che usciva dalla sua cella da quando era stato rinchiuso.

    La guardia più giovane lo spinse per farlo muovere ma il prigioniero restò immobile: si limitò a riaprire gli occhi e a sollevare lo sguardo verso il cielo terso. Impiegò del tempo per riabituarsi alla luce del giorno e, nel farlo, si soffermò sul bagliore aureo che proveniva dalla cima del Castello: solo dopo alcuni secondi riuscì a distinguere le bronzee ali della candida statua di marmo dell’arcangelo Michele, che aveva sostituito quella fatta completamente di bronzo, fusa ai tempi del Sacco di Roma per ricavarne cannoni.

    La guardia più anziana, allora, gli strattonò le catene e lo indusse a incamminarsi verso l’ingresso degli antichi appartamenti pontifici.

    Mentre l’altro restava fermo davanti al portale di accesso, i due varcarono la soglia e si ritrovarono in un salone arredato in maniera sontuosa. Il prigioniero osservò con attenzione le panche e i tavoli lignei posti lungo le pareti laterali e il grande scrittoio sistemato al centro della parete a sinistra della porta. Dalla volta sopra di loro un maestoso angelo affrescato, sfavillante di luce e con la spada sguainata, sembrava scrutare proprio lui.

    Fermo, gli ordinò la guardia, e si allontanò di qualche passo per bussare alla porta che era alle spalle dello scrittoio.

    Eminenza, annunciò con voce deferente, il prigioniero è qui.

    Indietreggiò e, quando la porta si aprì, si inchinò davanti a un uomo che entrò nella sala appoggiandosi a un bastone con l’impugnatura d’argento: zoppicava vistosamente da una gamba.

    Era vestito con un abito talare della stessa tonalità di rosso porpora della mozzetta. Tra i due indumenti spiccava il candore degli eleganti ricami del rocchetto di lino bianco. Sul petto luccicava una preziosa croce d’oro, appesa al collo grazie ad alcuni nastri colorati, intrecciati tra loro. Completava l’abbigliamento cardinalizio lo zucchetto purpureo, che sembrava galleggiare su una elaborata parrucca incipriata secondo i dettami di quella moda che, nata agli inizi del secolo presso le corti inglese e francese, s’era rapidamente diffusa in tutta Europa.

    Apparentemente intorno ai cinquant’anni, il cardinale era un uomo alto e affascinante che conservava ancora tracce di una bellezza un tempo fuori dal comune. Iniziavano, però, a manifestarsi i segni di una incipiente decadenza: la carnagione era bianco-giallognola, con molti capillari in evidenza sulle guance arrossate, e c’era un rigonfiamento intorno alle orbite degli occhi, attenti e intensi, d’un azzurro ceruleo. Sotto gli abiti, si notava un anomalo gonfiore del ventre, sproporzionato rispetto al resto della corporatura, alquanto esile nel complesso.

    Libera il prigioniero e lasciaci soli, ordinò il cardinale.

    Eminenza… borbottò il soldato, incredulo per l’ordine ricevuto.

    Il porporato sollevò la mano destra e distolse lo sguardo: il suo volto aveva assunto una studiata espressione di annoiato disprezzo. La guardia capì di dover obbedire immediatamente e, senza aggiungere una sola parola, sfilò le catene al prigioniero, abbassò il capo in segno di commiato e uscì dalla sala, richiudendosi la porta alle spalle.

    Il prigioniero, intanto, era rimasto con lo sguardo puntato su una zona indefinita del pavimento davanti a sé. Il cardinale lo fissò a lungo, infine lo salutò con tono cordiale.

    Buongiorno, Francesco.

    Il prigioniero sollevò la testa e, in silenzio, si concentrò sull’uomo che aveva di fronte. Quando i loro sguardi s’incrociarono, aggrottò le sopracciglia.

    Sono cambiato così tanto in questi ultimi quindici anni da risultare irriconoscibile? Il cardinale aveva parlato a voce bassa, scoprendo i denti in un sorriso che non aveva raggiunto gli occhi.

    Decio Azzolino, mormorò l’uomo, quasi incredulo.

    Provò l’impulso di avvicinarsi a lui per abbracciarlo ma si sforzò di controllare le emozioni che gli si erano scatenate dentro.

    Stentavo a riconoscerti a causa dei tuoi sontuosi abiti, più che per gli anni trascorsi, soggiunse con voce più ferma possibile, devo considerarmi fortunato perché incontro un amico, oppure preoccuparmi per il fatto di essere al cospetto del Segretario di Stato?

    Il cardinale abbozzò un sorriso e si diresse verso lo scrittoio. Si accomodò sulla poltrona, appoggiò il bastone al bracciolo alla sua sinistra e lo invitò a sedersi.

    Mio caro Francesco, questo è un incontro tra vecchi amici e, di questi tempi, è fortunato chi può dire di averne.

    Quando anche il prigioniero si fu seduto, il cardinale Azzolino prese una brocca da un vassoio appoggiato in un angolo dello scrittoio e versò del vino in due calici. Ne porse uno al suo ospite, che rifiutò con un gesto della mano.

    Non ricordo di averti mai visto rifiutare del buon vino! esclamò il cardinale prima di vuotare d’un fiato metà del suo bicchiere.

    Si pulì le labbra con un fazzoletto e lo ripose nella manica sinistra. Chiuse gli occhi per qualche secondo e, quando li riaprì, fissò il prigioniero come avrebbe fatto un falco con la preda.

    Ecco finalmente Francesco Borri, il celebre medico, l’alchimista stimato in mezza Europa, l’eretico ribelle ricercato dalle polizie dell’altra metà.

    A quale metà appartieni, Decio? chiese, guardingo, Borri.

    Considera i fatti: sei qui, vivo, nonostante gli Spagnoli non aspettino altro che catturarti per farti pagare la rivolta che organizzasti a Milano prima della tua fuga in nord Europa. Non mi è stato facile convincere l’imperatore a consegnarti alla Santa Romana Chiesa anziché alla Spagna, dove fremono dal desiderio di vederti ardere sul rogo.

    Decio Azzolino tacque qualche secondo e bevve un altro lungo sorso di vino. Con un vago gesto della mano indicò lo spazio intorno a sé.

    Sai che il Sant’Uffizio emise la tua condanna a morte proprio in questa sala? Fui io a difenderti in quel processo e, se tu non fossi fuggito, sarei riuscito a farti infliggere solo una condanna simbolica: in cambio della tua abiura avresti avuta salva la vita. Galileo Galilei lo ritenne un equo compromesso per evitare la condanna a morte e poter continuare le sue ricerche. Tu, invece, scegliesti di fuggire. Così fosti scomunicato e condannato al rogo.

    Non si trattò di un vero processo, fu una farsa, esclamò Borri balzando in piedi, la ribellione di Milano aveva come scopo la cacciata degli Spagnoli e l’unificazione di tutti i territori liberati sotto la bandiera Pontificia: niente a che vedere con l’eresia!

    Gli Spagnoli sospettavano ci fossero il papa e i Francesi dietro la rivolta da te organizzata, dovevamo intervenire con decisione per fugare ogni dubbio! replicò Azzolino battendo un pugno sul tavolo. Se non avessimo preso noi i giusti provvedimenti, il processo te l’avrebbero fatto gli Spagnoli: credi forse che l’Inquisizione Spagnola sarebbe stata più imparziale della nostra?

    Le labbra di Borri si mossero, quasi lui fosse sul punto di ribattere, poi qualche pensiero prese il sopravvento e le parole svanirono. Intanto, Azzolino si era fermato per studiare le sue reazioni e, alla muta replica del suo interlocutore, abbozzò un sorriso e proseguì volgendo altrove gli occhi.

    Gli Spagnoli pretendevano la tua condanna a morte: la ribellione di Milano aveva fatto troppo scalpore e nuove rivolte sarebbero scoppiate in tutta la penisola se tu e i tuoi compagni non foste stati puniti severamente. Non potevamo permetterci di trasformarti in un martire politico, così decidemmo di inquisirti con l’accusa di eresia.

    Ti stupisci che io sia scappato? intervenne Borri rimettendosi a sedere, che processo equo avrei potuto mai aspettarmi: se anche non mi aveste bruciato, mi avreste rinchiuso a vita, per me peggio di essere giustiziato!

    Azzolino tacque qualche istante e socchiuse gli occhi.

    Non fare l’ingenuo con me, sai bene che quell’accusa non fu un semplice pretesto, disse con voce che si sforzò di sembrare accondiscendente, "l’Inquisizione Romana indagava su di te già prima dei fatti di Milano. Il Sant’Uffizio sapeva tutto della tua congregazione segreta, dei vostri folli piani per organizzare una guerra santa al fine di conquistare il mondo con l’aiuto delle schiere angeliche. Eravamo

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