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Un perfetto bastardo
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E-book346 pagine6 ore

Un perfetto bastardo

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Info su questo ebook

Al primo posto della classifica del New York Times

Dalle autrici di Bastardo fino in fondo

Era una mattina qualunque, il treno era affollato e tutto sembrava noiosamente normale. A un certo punto sono stata come ipnotizzata dal ragazzo seduto vicino al corridoio. Urlava contro qualcuno al telefono come se avesse il diritto di governare il mondo. Ma chi credeva di essere con quel suo completo costoso? In effetti, gli conferiva un’aria da leader, ma non è questo il punto. Non appena il treno si è fermato, è saltato giù così in fretta da dimenticarsi il telefono, e io… potrei averlo raccolto. Potrei anche aver spiato tutte le sue foto e chiamato alcuni dei suoi numeri. Okay, potrei persino aver tenuto il telefono dell’uomo misterioso fino a che non ho trovato il coraggio di restituirlo. Così ho raggiunto il suo ufficio da snob… e lui si è rifiutato di vedermi. Ho consegnato il cellulare alla reception dell’ufficio di quel bastardo arrogante. Ma potrei, diciamo per ipotesi, avergli lasciato qualche foto sul telefono. Foto non esattamente angeliche.

Al primo posto della classifica del New York Times per settimane

La vera storia inizia dopo che ho ricevuto il suo messaggio

«I due protagonisti mi hanno conquistata! Questo libro è perfetto in ogni colpo di scena. Vi Keeland e Penelope Ward insieme fanno scintille, aspetto con impazienza le prossime collaborazioni!»
Raine Miller, autrice bestseller del New York Times

«Penelope Ward e Vi Keeland hanno creato un altro personaggio per farci innamorare perdutamente… E indossa persino un completo.»

«La storia bilancia perfettamente passione e romanticismo, con un pizzico di comicità. L’ironia dei personaggi è oro puro!»
Vi Keeland
Con più di un milione di libri venduti, si è affermata come una delle autrici di maggiore successo della sua generazione e i suoi romanzi sono tradotti in dodici lingue. Vive a New York con il marito e i suoi tre figli.
Penelope Ward
È un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Wall Street Journal». È cresciuta a Boston e ha lavorato come giornalista prima di diventare una scrittrice. Vive nel Rhode Island con il marito e due figli. La Newton Compton ha pubblicato il suo romanzo Odioamore. 
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2018
ISBN9788822720634
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    Anteprima del libro

    Un perfetto bastardo - Vi Keeland

    1960

    Titolo originale: Stuck-Up Suit

    Copyright © 2016 by Vi Keeland and Penelope Ward

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Silvia Russo

    Prima edizione ebook: luglio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l, Roma

    ISBN 978-88-227-2063-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Vi Keeland – Penelope Ward

    Un perfetto bastardo

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Questo libro è dedicato a tutte le ragazzine

    che a lezione di danza preferiscono indossare il verde fluo mentre tutte le altre indossano il rosa pastello.

    Capitolo 1

    Soraya

    Misi il piede destro sul terzo vagone della metropolitana e mi immobilizzai individuando lui già lì dentro. Merda! Era seduto proprio di fronte al mio solito posto. Feci retromarcia.

    «Ehi, guarda dove vai!». Un tale che indossava un completo per poco non si rovesciò il caffè addosso quando mi precipitai fuori dalla carrozza senza guardare e gli andai a sbattere contro. «Ma che diavolo…?»

    «Mi scusi!», farfugliai, e proseguii. Mi abbassai sotto il finestrino della metropolitana percorrendo il binario per qualche vagone. Le luci accanto a ogni porta si accesero di rosso e un forte segnale acustico risuonò per avvisare che il treno era in partenza. Saltai sulla carrozza numero sette proprio mentre le porte stavano iniziando a chiudersi.

    Mi ci volle un intero minuto per riprendere fiato, dopo aver corso l’intera lunghezza di quattro vagoni.

    Ho decisamente bisogno di tornare in palestra.

    Trovai un sedile vuoto, rivolto verso la direzione di marcia, accanto a un uomo, e mi sedetti lì anziché nell’altra mezza dozzina di posti liberi girati nel senso opposto. Il tizio abbassò il giornale quando mi sistemai accanto a lui.

    «Mi perdoni», dissi. «Non riesco a viaggiare all’indietro».

    I due sedili di fronte a noi erano vuoti. L’etichetta suggeriva di occupare uno di quelli, ma immaginai che l’uomo preferisse la scomodità al mio vomito.

    Lui sorrise. «Neanch’io».

    Infilai le cuffie, feci un sospiro di sollievo e chiusi gli occhi mentre il treno iniziava a muoversi. Un minuto dopo, sentii un lieve colpetto sulla spalla. Il passeggero accanto a me mi indicò un uomo in piedi nel corridoio.

    Mi sfilai con riluttanza un auricolare.

    «Soraya. Mi sembrava di averti vista, e infatti eccoti qui».

    Quella voce.

    «Ehm… Ciao». Quale diavolo era il suo nome? Oh, aspetta… Come avevo fatto a scordarlo? Mitch. Mitch Lo Smanioso. Per colpa di quel disastro ancora non parlavo con mia sorella. Il peggiore appuntamento al buio di sempre. «Come va, Mitch?»

    «Bene, davvero alla grande ora che ti ho incontrato. Ho provato a contattarti un paio di volte. Devo aver trascritto il numero sbagliato, perché non hai mai risposto ai miei messaggi».

    Già. Proprio così.

    Si grattò le parti basse attraverso i pantaloni. Mi ero quasi scordata di quella raffinatezza. Probabilmente era un tic nervoso, ma ogni volta che lo faceva il mio occhio seguiva la sua mano. Mitch Lo Smanioso Col Prurito. Grazie, sorellina.

    Lui si schiarì la voce. «Magari potremmo prenderci un caffè, stamattina?».

    L’uomo in completo accanto a me abbassò di nuovo il giornale, guardò Mitch e poi me. Non potevo essere perfida con quel poveretto; era stato così gentile.

    «Ehm…». Appoggiai la mano sulla spalla dell’uomo al mio fianco. «Non posso. Questo è il mio ragazzo, Danny. Siamo tornati insieme una settimana fa, vero, tesoro?».

    Mitch sbiancò. «Oh. Capisco».

    Il finto Danny stette al gioco. Mi mise la mano su un ginocchio. «Io non sono un tipo che condivide, amico. Quindi, fatti un giro».

    «Non c’è bisogno di essere così scortese, Danny». Lanciai un’occhiataccia al tizio in completo.

    «Non sono stato scortese, piccola. Questo sarebbe scortese».

    Prima che potessi fermarlo, le sue labbra furono sulle mie. E non fu neppure un breve bacio a stampo. La sua lingua non perse tempo a entrarmi in bocca. Io gli colpii il petto con forza, spingendolo via.

    Mi pulii col dorso della mano. «Scusa, Mitch».

    «È tutto okay. Ehm… Scusate se vi ho interrotto. Stammi bene, Soraya».

    «Anche tu, Mitch».

    Non appena Lo Smanioso fu fuori portata d’orecchi, fulminai con lo sguardo il falso Danny. «Perché diamine l’hai fatto, coglione?»

    «Coglione? Due minuti fa ero tesoro. Deciditi, dolcezza».

    «Hai una bella faccia tosta».

    Lui mi ignorò e prese dalla tasca della giacca il telefono che stava vibrando. «È mia moglie. Potresti calmarti per un minuto?»

    «Tua moglie? Sei sposato?». Balzai in piedi. «Dio, sei davvero uno stronzo».

    Le sue gambe erano distese; non le spostò neppure per lasciarmi passare, così le scavalcai. Quando si accostò il telefono a un orecchio glielo sfilai di mano e parlai al microfono senza ascoltare.

    «Tuo marito è un grandissimo stronzo».

    Gli gettai il dispositivo tra le gambe e me ne andai nella direzione opposta a quella di Mitch.

    Era solamente lunedì, maledizione.

    Quel genere di episodi era la storia della mia vita. Imbattermi in brutti appuntamenti. Uomini che si rivelavano essere sposati.

    Mi diressi dentro un’altra carrozza, così non avrei dovuto vedere più né Danny, né tantomeno Mitch.

    Per mio sommo piacere quel vagone non era affollato, e c’era anche un sedile vuoto rivolto nel senso giusto. La mia pressione sanguigna tornò a stabilizzarsi non appena vi sprofondai. Chiusi gli occhi per un momento e lasciai che il movimento ondeggiante del treno mi calmasse.

    Un uomo dalla voce dura interruppe la mia serenità. «Cazzo, fa’ soltanto il tuo lavoro, Alan. Fa’ il tuo lavoro. È chiedere troppo? Perché ti pago se devo controllare io ogni minima scemenza? Le tue domande non hanno senso! Scoprilo e poi torna da me quando avrai una soluzione che valga il mio tempo. Il mio cane probabilmente verrebbe fuori con qualcosa di molto più intelligente delle tue argomentazioni».

    Stronzo.

    Quando diedi un’occhiata per cercare di individuare la fonte della voce, non potei trattenermi dal ridere da sola. Ma certo. Ma certo! Non c’erano dubbi sul perché l’uomo pensasse di poter trattare di merda chiunque. Con un aspetto come quello, di sicuro le persone gli cadevano davanti in ginocchio in continuazione, sia in senso figurato sia letteralmente. Era bellissimo. E in più emanava un’aura di potere e soldi. Alzai gli occhi al cielo… Ma non riuscii a distogliere a lungo lo sguardo.

    Indossava una camicia a righe su misura che rendeva facile immaginarsi la silhouette scolpita al di sotto. La giacca blu dall’aspetto costoso era distesa sulle ginocchia. Le scarpe nere eleganti ai suoi grandi piedi sembravano essere state appena lucidate. Era decisamente uno di quegli uomini che si lasciavano lucidare le scarpe in aeroporto dalle persone evitandone il contatto visivo.

    Tuttavia, l’accessorio più degno di nota era lo sguardo furioso sul suo viso perfetto. Aveva terminato la telefonata, e sembrava proprio incazzato: forse si era svegliato con la luna storta. Una vena gli spuntava dal collo. Per la frustrazione si passò una mano tra i capelli scuri.

    Cambiare con questa carrozza era stata proprio un’ottima scelta, anche solo per il piacere degli occhi. Il fatto che lui fosse così incurante di chiunque altro intorno a sé rendeva facile guardarlo sognante. Era così maledettamente sexy, con quell’espressione arrabbiata. Qualcosa mi diceva che in effetti quella era la sua espressione usuale. Era come un leone: un animale che ammiri da lontano, laddove ogni contatto concreto potrebbe causare un danno irreparabile.

    Le maniche della camicia erano arrotolate e un enorme e costoso orologio spiccava sul polso destro. Accigliato, l’uomo fissava fuori dal finestrino e giocherellava con l’orologio, rigirandolo avanti e indietro. Sembrava un’abitudine nervosa. Buffo, ero sicura che lui stesso innervosisse un mucchio di gente.

    Il suo cellulare squillò di nuovo.

    Rispose. «Che c’è?».

    La sua voce era quella specie di baritono roco che ogni volta mi colpiva dritto in mezzo alle gambe. Avevo un debole per i timbri profondi e sexy, ma difficilmente nella realtà la voce combaciava anche con l’uomo giusto.

    Tenendo il telefono con la mano destra, usava l’altra per continuare a trafficare con l’orologio.

    Tic. Tic. Tic.

    «Dovrà aspettare», ringhiò. «La risposta è che sarò lì quando ci arriverò… Qual è la parte che non ti è chiara, Laura? … Il tuo nome non è Laura? Quale diavolo è allora? … Dunque, Linda, digli che può rimandare se non vuole aspettare».

    Dopo aver riattaccato, borbottò qualcosa sottovoce.

    Le persone come lui mi affascinavano. Pensavano di possedere il mondo soltanto perché erano stati benedetti dalla genetica o gli erano state date delle opportunità che li avevano elevati a una condizione economica superiore.

    Non indossava una fede nuziale. La sua giornata consisteva in attività del tutto egoistiche e impersonali, ci avrei scommesso. Un caffè espresso costoso, lavorare, mangiare in ristoranti di lusso, scopare senza amore… e così via. Farsi lustrare le scarpe e giocare a squash in qualche intervallo nel mezzo.

    Scommettevo pure che era egoista anche a letto. Non che io l’avrei buttato fuori dal mio, però. Non ero mai stata con nessuno di così potente come quell’uomo, per cui non sapevo come si sarebbe comportato sotto le lenzuola. La maggior parte dei ragazzi con i quali ero uscita erano artisti squattrinati, hipster o ambientalisti. La mia vita era lontana da quella di Sex and the City.

    Era più Sex and the Pity, sesso e pietà. O Sex and the Shitty, sesso e schifezza. Non mi sarebbe dispiaciuto recitare per un giorno il ruolo di Carrie con questo Mr. Big, o in tal caso Mr. Big Prick, Mr. Gran Cazzone. Assolutamente sì, cavolo.

    C’era solo una lacuna in questa mia piccola fantasia: io non ero proprio il suo tipo. Probabilmente gli piacevano le tipe bionde smarrite e sottomesse dell’alta società, e non formose ragazze italiane di Bensonhurst dall’atteggiamento irriverente e i capelli multicolore. Con le trecce lunghe fino al sedere, sembravo un incrocio tra Elvira e Pocahontas col culo grosso. Tingevo le punte dei capelli di un colore diverso ogni due settimane, a seconda del mio umore. In quel momento le avevo di un blu scuro, il che significava che le cose mi stavano andando abbastanza bene. Erano rosse quando mi si doveva stare alla larga.

    Il mio flusso di pensieri fu interrotto dallo stridio del treno che si fermava. Di colpo, Mr. Gran Cazzone si alzò; al suo passaggio una scia di dopobarba costoso saturò l’aria. Persino il suo profumo era sensuale ma pungente.

    L’uomo si precipitò fuori dalle porte, che si richiusero dietro di lui.

    Se n’era andato. Tutto qui. Lo spettacolo era finito. Bene, era stato bello finché era durato.

    Io sarei scesa alla fermata successiva, quindi mi avviai verso la stessa porta dalla quale era appena uscito lui. Con il piede urtai qualcosa, che scivolò sul suolo come un disco da hockey, inducendomi ad abbassare lo sguardo.

    Il mio cuore iniziò a battere più in fretta. A quanto pareva Mr. Gran Cazzone aveva perso un pezzo di se stesso.

    Gli era caduto il telefono.

    Il suo fottuto telefono!

    Era corso fuori dal treno così in fretta che doveva essergli caduto dalla mano. A quanto pareva ero stata troppo impegnata ad ammirare il suo sedere succulento per notarlo. Raccolsi l’iPhone e lo sentii caldo nella mia mano. La custodia sapeva di lui. Desiderai annusarlo da più vicino, ma mi trattenni.

    Mi coprii la bocca e mi osservai intorno. Se la mia vita fosse stata uno show in

    TV,

    la risata registrata sarebbe stata inserita proprio in quel momento. Nessuno mi stava guardando. A nessuno sembrava importare che avevo il telefono di Mr. Pantaloni Costosi.

    Che cosa devo farne?

    Lo infilai nella borsetta leopardata. Mi sembrò di nascondere una bomba mentre scendevo alla stazione e mi avviavo sul marciapiede soleggiato di Manhattan. Il cellulare vibrò per le notifiche dei messaggi e squillò almeno una volta. Non ero pronta a toccarlo di nuovo, non prima di prendere il mio caffè. Dopo essermi fermata al solito venditore ambulante, sorseggiai la bevanda mentre percorrevo i due isolati fino al lavoro.

    Quel giorno ero in ritardo, così decisi di rimandare la curiosità per la vita di Mr. Gran Cazzone all’ora di pranzo. Quando giunsi alla mia scrivania, tirai fuori il suo telefono e realizzai che la batteria era quasi a zero, così lo misi sotto carica.

    Essere un’assistente in una rubrica di consigli di cuore non era certo il lavoro dei miei sogni, ma ci pagavo le bollette. Ida Goldman era la proprietaria di Chiedi a Ida, una storica rubrica quotidiana. Parte del mio lavoro consisteva nel decidere, tra le domande che arrivavano, quali passare a lei. Alcune risposte selezionate erano pubblicate sulla rivista, mentre le restanti venivano postate sul suo sito. Negli ultimi tempi Ida stava cercando di addestrarmi, infatti mi aveva chiesto di rispondere ai lettori.

    Mentre i consigli del capo, però, erano sempre sensibili e politically correct, i miei affrontavano le questioni senza tanti giri di parole: in pratica tralasciando le stronzate. Come risultato le mie risposte non venivano mai pubblicate. Ogni tanto, non resistevo e mi prendevo la briga di dare un riscontro a certe domande che non avevano superato la scrematura, quelle che sarebbero finite comunque nella spazzatura. Alcune persone necessitavano davvero di una guida, e sentivo che sarebbe stato un disservizio ignorare le loro richieste di aiuto.

    Solo di recente ho scoperto che mio marito ha una collezione porno. Cosa devo fare? – Trisha, Queens.

    Bingo! Investi in un buon vibratore. Assicurati di rimettere tutto come prima dopo essertela spassata mentre lui era al lavoro.

    Mi sono sbronzata a una festa e ho baciato il ragazzo della mia migliore amica. Ora non riesco a smettere di pensarlo. Mi sento orribile ma credo di essermi innamorata di lui adesso. Qualche perla di saggezza? – Dana, Long Island.

    Sì. Sei una troia. A domani, Dana!

    Di recente il mio ragazzo mi ha chiesto di sposarlo. Ho detto di sì. È l’uomo più dolce e gentile che abbia mai conosciuto. Il problema è che il diamante che mi ha regalato è più piccolo di quanto avessi sperato. Non vorrei ferire i suoi sentimenti, davvero. Devo trovare un modo gentile per esprimere il mio disappunto – Lori, Manhattan.

    Dio ebbe lo stesso dilemma quando gli toccò creare te, tesoro.

    P.S.

    Quando il tuo fidanzato scaricherà il tuo culo egoista, dagli il mio numero.

    Rispondere a qualche email in modo onesto e schietto sembrava sempre darmi l’energia di cui avevo bisogno per far ripartire la mia giornata. La mattinata passò in fretta. A mezzogiorno, il cellulare di Mr. Gran Cazzone aveva la batteria del tutto carica, così lo portai con me a pranzo. Avevo ordinato cibo thailandese per me e per il mio capo.

    Dopo aver finito Ida lasciò la stanza, così ebbi dieci minuti di privacy per passare al setaccio il telefono. Fortunatamente, non era protetto da una password. Prima tappa: foto. Non ce n’erano molte e, se avevo pensato di essere in grado di raccogliere indizi su chi fosse quell’uomo basandomi sulla galleria fotografica, mi ero sbagliata di grosso.

    La prima immagine era di un cagnolino bianco e peloso. Sembrava un Terrier. Quella successiva era di una donna in topless con una bottiglia di champagne incastrata tra le tette. Erano pallide, perfettamente rotonde e del tutto finte. Puah! Poi c’erano altre foto del cagnolino, seguite da una scattata a un gruppo di anziane. Ma che cavolo…? Non potei fare a meno di scoppiare a ridere a voce alta: l’ultima immagine era un selfie di lui e una donna anziana. Era vestito in modo più casual, i capelli scompigliati, e stava sorridendo. In quello scatto era così incredibilmente affascinante. Difficile credere che quello fosse lo stesso tizio spocchioso in giacca e cravatta del treno, ma il suo bellissimo viso lo confermava.

    Ancora cinque minuti e sarei dovuta tornare alla mia scrivania. Non c’era un account email associato al telefono, così aprii i suoi contatti e decisi di chiamare il primo nome della lista: Avery.

    «Bene, bene. Graham Morgan. Da quanto tempo. Cos’è successo? Hai scorso già l’intero alfabeto e ora stai ricominciando di nuovo daccapo? Ti ricordi che non sono uno dei tuoi balocchi, vero?». Udii il chiasso di un clacson e del traffico in sottofondo, seguito dallo sbattere della portiera di un’auto, che attutì i rumori della città. «All’edificio Langston. E non passare dal parco: i ciliegi sono in fiore, e non voglio che mi si gonfi la pelle prima della riunione». La donna finì di abbaiare con l’autista e poi si ricordò del telefono. «Allora, cosa c’è, Graham?»

    «Ehm… Salve. Non sono Graham, in realtà. Il mio nome è Soraya».

    «Sor… che?»

    «Sor-a-ya. Significa principessa in persiano. Anche se io non sono persiana. Solo che mio padre credeva…».

    «Qualunque sia il tuo nome, dimmi cosa vuoi e perché mi stai sottraendo del tempo prezioso. E perché mi stai chiamando dal cellulare di Graham Morgan?».

    Graham Morgan. Persino il suo maledetto nome era sexy. Avrei dovuto immaginarlo.

    «Ho trovato questo telefono sul treno. Sono abbastanza sicura appartenga a un uomo che ho visto questa mattina. Circa trent’anni, forse? Capelli scuri pettinati all’indietro, piuttosto lunghi, arricciati all’altezza del collo. Indossava un completo gessato blu scuro. E portava un grosso orologio».

    «Bello, arrogante e incazzato?».

    Ridacchiai un po’. «Sì, è lui».

    «Il suo nome è Graham Morgan, e so esattamente dove dovresti portare il telefono».

    Pescai una penna dalla borsetta. «Okay».

    «Per caso sei da qualche parte vicino alla metro Uno?»

    «Non sono troppo lontana».

    «Bene, prendi la metro e attraversa la città. Supera Rector Street e scendi al terminal dei traghetti sud».

    «Okay. Posso farcela».

    «Una volta scesa, gira a destra a Whitehall e poi a sinistra in South Street».

    Conoscevo quella zona e cercai di visualizzare con la mente gli edifici là intorno. Era un quartiere piuttosto commerciale.

    «Non c’è l’East River, lì?»

    «Esattamente. Gettaci dentro il telefono di quel bastardo e dimenticati di averlo mai visto».

    Cadde la linea. Bene, interessante.

    Capitolo 2

    Soraya

    Avevo pianificato di restituire il telefono quella mattina.

    No, davvero. L’avevo pianificato.

    D’altra parte, avevo programmato anche di finire il college. O di viaggiare per il mondo. Invece il viaggio più lontano che avevo fatto nell’ultimo anno era stato quando il mio culo senza istruzione si era addormentato accidentalmente sul treno e io ero finita a Hoboken.

    Col telefono al sicuro nella tasca interna della mia borsa, mi accomodai nella carrozza sette, una fila dietro Mr. Gran Cazzone, il quale si gettava occhiate furtive intorno mentre leggeva il The Wall Street Journal. Avevo bisogno di più tempo per studiare quella belva. Le creature dello zoo mi avevano sempre affascinata, specialmente il modo in cui interagivano con l’uomo.

    Una donna salì alla fermata successiva e si sedette direttamente di fronte a Graham. Era giovane, e la lunghezza della sua gonna sconfinava nell’indecente. Le gambe abbronzate erano toniche, nude e sensuali: persino i miei occhi vi indugiarono per un momento. Eppure, la belva non ci si fiondò mai. In realtà non sembrò nemmeno notarla, mentre alternava la lettura al giocherellare con quel suo grosso orologio.

    Lo ritenevo più interessato all’altro sesso di così.

    Quando arrivò la sua fermata, presi la decisione di restituirgli il telefono. L’indomani. Un giorno in più non avrebbe avuto alcuna importanza. Per il resto del viaggio, spulciai di nuovo tra le sue foto. Solo che stavolta le studiai prestando più attenzione ai dettagli dello sfondo invece che focalizzarmi sul soggetto.

    Il selfie di lui con la signora anziana era stato scattato di fronte al camino. Prima non l’avevo notato. La mensola era rivestita da almeno una dozzina di fotografie incorniciate. Zoommai su quella più nitida. Era di un giovane e di una donna. Il ragazzino era sugli otto o nove anni e indossava una specie di uniforme. La donna – o almeno credevo fosse una donna – sembrava portare un taglio a spazzola. Il ragazzo poteva essere Graham, ma non ne ero sicura. Per poco non mancai la mia fermata mentre zoommavo su quello che si rivelò essere il postino sullo sfondo di un’altra fotografia. Che diavolo stavo facendo?

    Andai al mio solito banchetto del caffè e ordinai. «Un latte di soia alla vaniglia grande, ghiacciato e senza zucchero».

    Anil scosse la testa e rise. Di tanto in tanto, quando in fila c’erano donne che parevano essersi perse cercando uno Starbucks, io ordinavo qualcosa di ridicolo. A voce alta. Quelle poverine si convincevano che Anil servisse bevande stravaganti. Principalmente, invece, avevi quattro opzioni: nero, con latte, con zucchero, o andartene da un’altra parte. Feci cadere un dollaro nel bicchiere, lui mi porse il caffè nero, e risi mentre mi allontanavo sentendo una donna chiedergli se faceva frappuccini.

    Quando giunsi in ufficio, Ida era di umore particolarmente velenoso. Perfetto, cazzo. Il mondo intero credeva che Chiedi a Ida fosse un’amata istituzione americana; solo pochi eletti conoscevano la verità. La donna che tirava fuori mucchi di consigli zuccherosi era una tirchia che si divertiva a fregare le persone.

    «Trovami un numero del Celestine Hotel», mi accolse.

    Accesi il vecchio computer fisso con il quale lavoravo. La rete del mio cellulare era molto più veloce, ma non potevo sprecare i miei giga solo perché lei si rifiutava di entrare nel Ventunesimo secolo. Cinque minuti dopo, le portai il numero nel suo ufficio.

    «Ecco qua. Vuoi che faccia una prenotazione per te?»

    «Prendi la cartella dei viaggi dallo schedario».

    Gliela diedi e aspettai, visto che non aveva ancora risposto alla mia domanda. Ida scorse la cartella gonfia, finché non trovò una piccola cartolina ripiegata – quelle che gli hotel lasciavano con sopra il nome della cameriera. Lei lo lesse e poi me lo porse.

    «Chiama l’hotel. Di’ loro che Margaritte non sa come si pulisce una stanza. L’ultima volta che ho alloggiato al Celestine il tappeto non era stato aspirato a dovere e sul muro della doccia c’erano dei capelli neri, spiegaglielo».

    «Okay…».

    «Menziona il nome di Margaritte e di’ che voglio una stanza pulita da qualcun altro. Poi chiedi uno sconto».

    «E se non volessero farlo?»

    «Prenota comunque la camera. La mia stanza era perfettamente pulita l’ultima volta».

    «Cioè, il tappeto e la doccia non erano sporchi?».

    Lei lasciò andare un sospiro esasperato, come se stessi mettendo alla prova la sua pazienza. «I loro prezzi sono un vero e proprio furto. Io non pago quattrocento dollari a notte».

    «E quindi vuoi che io faccia licenziare qualcuno?».

    Alzò uno spesso sopracciglio disegnato. «Preferiresti esserci tu al suo

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