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Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6)
Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6)
Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6)
E-book685 pagine8 ore

Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6)

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Info su questo ebook

La lealtà prima del potere.
La famiglia prima della vendetta.
Il sangue prima del cuore.
Entra nel mondo della serie Blood Bonds
e immergiti nelle tenebre più conturbanti.

Gli undici romanzi della serie dark romance Blood Bonds per la prima volta raccolti in quattro volumi unici!

Dopo Henri e Aleksandra, la narrazione della storia passa ai giovani André Lamaze e Nadiya Volkova, volgendo l'attenzione sul loro amore proibito. Riusciranno questi due amanti tormentati a respingere ciò che il destino ha in serbo per loro?

AVVERTENZE!
La serie Blood Bonds appartiene al genere dark romance, sfiorando talvolta l'horror-thriller. Troverete scene di violenza molto descrittive e situazioni inquietanti, non adatte a persone facilmente impressionabili. Se ne raccomanda la lettura a un pubblico adulto e consapevole delle tematiche affrontate in questa storia molto, molto dark.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2022
ISBN9791222020105
Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6)

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    Anteprima del libro

    Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6) - Chiara Cilli

    Chiara Cilli

    Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6)

    UUID: 06d18c2f-bab2-42fd-9f1a-593d54c787a3

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    PER ADDESTRARTI

    PROLOGO

    1

    2

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    PER COMBATTERTI

    PROLOGO

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    PER SCONFIGGERTI

    PROLOGO

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    LA SAGA CONTINUA...

    NOTA DELL'AUTRICE

    SEGUIMI SUI SOCIAL!

    Blood Bonds – La serie completa (Volumi 4-6)

    Copyright © 2022 by Chiara Cilli

    Cover design

    © Lunar Morrigan Arts | Giulia Calligola

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è del tutto casuale.

    Ad André e Nadiya,

    e a tutti voi che li avete amati.

    Are you drowning or waving?

    I just need you to save me.

    Bush, Out Of This World

    PER ADDESTRARTI

    Quarto romanzo della serie Blood Bonds

    PROLOGO

    Non avrei mai dimenticato la prima volta che Antoine Lamaze mi aveva picchiato fino a farmi perdere i sensi. Ero troppo giovane quando avevo sputato il primo fiotto di sangue e la paura più atavica si era infiltrata in me.

    Non avevo mai smesso di urlare.

    Gli anni si erano susseguiti uno dopo l'altro e io, incatenato al muro, avevo perso la voce per trascinare la mente di Henri via da quel sotterraneo.

    Per impedirgli di udire i versi schifosi di quell’animale.

    Era stato l’unico aiuto che avevo potuto dargli. Se fossi stato la persona che ero adesso, mi sarei rotto quell’ossicino del pollice che mi avrebbe consentito di sfilare le mani dalle manette delle catene e mi sarei fiondato sul Diavolo fin dalla prima volta che aveva osato sfiorare mio fratello.

    Ma all’epoca ero un bambino così debole.

    Per quasi un decennio non avevo fatto altro che subire le percosse di Antoine e dei bastardi che si erano divertiti con me e Henri come fossimo stati i loro giocattoli preferiti.

    Non avevo fatto altro che guardare l’oscurità rivestire Armand, nostro fratello maggiore, come un manto indelebile, mentre assisteva impotente all’orrore che regnava in quelle serate.

    Finché non era arrivato il giorno in cui era cambiato tutto.

    Avevo avvertito il cuore schizzarmi fuori dal petto, quando io e Henri avevamo trovato nostro padre in un lago di sangue, nel suo letto. I tagli nella pancia erano così numerosi e profondi che avevo intravisto le budella fuoriuscire.

    Avevo capito all’istante chi fosse stato l’autore di quel massacro.

    Non io.

    Avrei dovuto essere io, invece.

    Avevo preso il pugnale insanguinato, lasciato accanto alla mano pallida del cadavere. Un segno del destino, forse.

    Era stato allora che avevo giurato che non sarei mai più stato indifeso. Avrei eretto un muro invalicabile intorno a me. Avrei parlato lo stretto necessario. Non avrei mai più permesso che facessero del male ai miei fratelli, a qualunque costo.

    E soprattutto, nessuno si sarebbe mai più avvicinato a me.

    1

    ANDRÉ

    Erano passati soltanto sette giorni da quando avevo rinchiuso quella ragazzina nelle segrete. Solo una misera settimana, e notavo la sua assenza più di ogni altra cosa.

    Come diavolo era possibile?

    In palestra, cercavo la sua corposa coda di capelli ondulati, color borgogna, oscillare furiosa tra i gruppi che si allenavano.

    E non la trovavo.

    In mensa, scorrevo con lo sguardo sui volti inespressivi delle giovani che mangiavano in silenzio.

    E non vedevo il suo.

    Che cazzo significava? Che per mesi e mesi non avevo fatto altro che osservarla?

    Stronzate.

    Se lo avevo fatto, era stato solo per controllare i suoi progressi, come facevo con ogni altra ragazza durante gli allenamenti. O per assicurarmi che non facesse qualche cazzata, come l’ultima che aveva combinato, staccando un pezzo d’orecchio a uno dei miei uomini con un fottuto morso.

    No, non l’avevo mai guardata.

    Allora perché non riuscivo a cancellare l’immagine del suo viso dai pensieri? Perché stavo scendendo le scale anguste che portavano nei sotterranei?

    Perché stavo andando da lei?

    L’androne era muto come un cimitero; non vi era più alcuna donna segregata per punizione. Di alcune mi ero sbarazzato, altre si erano arrese al loro fato, diventando docili allieve pronte per la vendita.

    Dovevo tornare di sopra.

    Era troppo presto.

    Che cazzo stavo facendo?

    Voglio solo vederla.

    Aprii la porta della sua cella e la trovai rannicchiata sulla panchina di pietra addossata alla parete. Quaggiù la temperatura era così rigida che le sue mani avevano una sfumatura quasi bluastra. Non indossava più l’abbigliamento estivo, composto da una canottiera nera e calzoncini da running, ma un lupetto e leggings che aderivano perfettamente alle sue forme, facendola apparire ancora più snella.

    Le sue palpebre si aprirono piano e le lunghe ciglia, folte e ricurve, batterono un paio di volte prima che i suoi occhi si abituassero al bagliore proveniente dal corridoio. Quando mi mise a fuoco, aggrottò la fronte e si tirò su. I lunghissimi capelli le incorniciarono il viso pallido come un pesante drappo di seta; perfino da qui potevo annusare l’effluvio del sapone – probabilmente era tornata da poco dalla seduta nelle docce, dove le ragazze venivano portate quando bisognava ripulire le celle dal piscio e dalla merda, talvolta anche dal vomito.

    «Già ti manco?», esordì con voce impastata.

    «Più dell’aria che respiro», risposi gelido.

    «Certo…», sospirò appoggiandosi al muro umido dietro di lei, le labbra quasi violacee stirate in un sorrisetto. «Te lo leggo in quei bellissimi occhi azzurri».

    La fulminai con un’occhiataccia.

    Vuoi veramente morire, mocciosa.

    «Sono verdi», la corressi, tagliente.

    «Lo so», ribatté in tono eloquente.

    Quindi stava deliberatamente cercando di farmi incazzare.

    «Sono qui da meno di cinque minuti e il mio impulso omicida è già salito alle stelle, ragazzina».

    Si alzò, e il cuore cominciò stranamente a battermi all’impazzata mentre si avvicinava. Si fermò a due passi da me e ricadde con una spalla contro la parete, guardandomi apertamente.

    Non mi piacque il modo in cui i suoi occhi mi assorbivano.

    «Allora perché sei venuto?», mi chiese.

    Imitai la sua posa e mi puntellai contro lo stipite della soglia.

    «Per vedere come stavi».

    Sì, come no.

    «Che gesto gentile», ironizzò lei.

    Abbozzai un falso mezzo sorriso. «Io sono una persona gentile».

    La giovane proruppe in una risata argentina, un suono così sconosciuto in quella dimora, a me, da scioccarmi.

    Mi era scoppiata a ridere in faccia, come se fossi il suo migliore amico. Ovviamente doveva essere del tutto ignara del fatto che avrei potuto piantarle una mano sotto il mento, spingere con uno scatto risoluto e frantumarle le vertebre del collo in un nanosecondo.

    Oppure è semplicemente stupida.

    Quel desiderio assassino doveva essere manifesto sul mio volto, poiché lei tornò seria a poco a poco, si cinse con le braccia e sviò gli occhi, a disagio.

    «Ho superato il limite, vero?», mormorò.

    Inarcai un sopracciglio sardonico. «Tu credi?»

    Rividi le espressioni truci che i membri del mio team mi avevano rivolto quando ero arrivato in palestra e avevo appreso ciò che questa rossa aveva osato fare a uno di loro.

    Uccidi questa puttana, mi avevano intimato le loro occhiate.

    Non lo avevo fatto.

    Una decisione del cazzo, e avevo il sentore che ne avrei pagato le conseguenze molto presto.

    Un lampo di paura le attraversò il viso, spazzando via la sua insolenza. «Q-quindi sei qui per… per…»

    Il suo terrore era come un afrodisiaco. La trapassai con lo sguardo, resistendo all’istinto di sguainare il pugnale per alimentarlo ancora di più. «Forse».

    Lei indietreggiò, impietrita, poi si mise le mani nei capelli e iniziò a vagare nella cella con fare sperduto.

    Bene, era ora che si rendesse conto di quanto la situazione fosse grave.

    «Questi atti di insubordinazione, per quanto sporadici, devono finire», dichiarai, pressoché seccato – no, dannazione, ero seccato. «Sei qui da quasi un anno e…»

    «E non mi hai ancora ucciso», mi incalzò, l’espressione ansiosa seppur determinata.

    Le scoccai un’occhiata mortale.

    «Questo non significa che non possa farlo». Strinsi le palpebre e accorciai con lentezza studiata la misera distanza tra di noi. «E lo farò, se continuerai ad avere questo comportamento».

    Alzò gli occhi al cielo. «Non è questo che volete? Ci addestrate per diventare guerriere insensibili e feroci e…»

    La mia mano agì di propria volontà e la agguantò per il mento, le dita affondate nelle guance. La strattonai verso di me, chinando il viso sul suo fino a sfiorarle la punta del naso con la mia, lo sguardo più affilato di una stalattite di ghiaccio.

    «Ti addestro per diventare un soldato ubbidiente e rispettoso, per trasformarti in un essere che esegue gli ordini tacendo», ringhiai. Poi, con voce più bassa: «E tu non hai ancora imparato a tenere chiusa questa fottuta bocca».

    «E mai lo farò», disse piccata.

    Nel momento in cui parlò, il suo alito mi lambì le labbra e mi ritrovai a schiuderle per respirarlo.

    Per respirarlo, maledizione.

    «Mi stai rendendo tutto davvero troppo facile», dissi tra i denti, il fiato che si accorciava inspiegabilmente.

    Lei gemette. «Mi fai male».

    Le sue mani erano sul mio petto.

    Su di me.

    Spingevano.

    Scorrevano.

    «Non ho neanche cominciato», replicai, gli occhi che tenevano i suoi.

    La giovane mi artigliò il polso per tentare di liberarsi della mia morsa. «Ti prego», mugolò.

    Serrai la presa. « Mai supplicare, ragazzina. È una delle prime regole che vi ho insegnato».

    La sbattei contro il muro, spingendole con forza la testa contro la pietra, quasi volessi spappolarcela sopra. Avrebbe dovuto opporre resistenza, difendersi con le unghie e con i denti come aveva imparato, invece si limitava a guardarmi implorante. Non era da lei. Non era questa la ragazza con cui avevo avuto a che fare negli ultimi mesi, quando lo shock iniziale dopo l’arrivo al castello e l’inizio di una nuova vita era stato sostituito dalla rabbia.

    Perciò non avevo potuto presentarla alla regina. Questo scricciolo covava tanta collera da rendere i suoi occhi marroni roventi come magma, mentre lottava. A Neela ciò non piaceva. Esigeva che la merce che veniva ad acquistare fosse non solo già iniziata all’arte del combattimento, ma anche perfettamente disciplinata.

    E questa giovane non lo era. Poteva sembrarlo all’apparenza, ma bastava guardarla con attenzione per capire che il suo asservimento era solo una finzione.

    Feci scivolare lo sguardo su di lei per poi riportarlo nel suo.

    «Sei una tale delusione».

    «Non è vero!», esplose, e menò i pugni sulla piega del mio gomito per strapparsi la mia mano di dosso.

    Ah, ecco la mia ragazza.

    La fissai penetrante mentre si toccava le guance, su cui erano rimasti i segni rossastri delle mie dita. Mi scrutava intimorita, nondimeno c’era qualcos’altro nella sua espressione, una sfumatura che non conoscevo. Qualcosa che nessuno aveva mai rivolto verso di me, prima d’ora.

    Un interesse.

    «Perché non mi hai ancora fatto fuori?», mi chiese a bassa voce. «Ti sei sbarazzato di altre per molto meno. Perché io sono ancora qui?»

    Rimasi impassibile. Dovetti, perché avevo percepito un tumulto nel petto.

    Un tumulto che mi aveva sconcertato.

    Un tumulto che mi aveva irritato.

    «Ho visto qualcosa in te», risposi con durezza, tuttavia il mio tono sommesso era intimo. Troppo.

    La fece boccheggiare.

    Mi fece accigliare.

    «Sei agile, scaltra, forte quanto basta. Per ora».

    Ero sicuro che sarebbe potuta diventare la nuova campionessa della Šarapova, un giorno. Ma Neela non avrebbe mai comprato un giocattolo difettoso, per quanto fosse intrigante.

    La squadrai di nuovo, espirando dalle narici. «Un tale spreco».

    «Perché dici così?», rimbeccò, quasi offesa.

    «Perché per colpa del tuo carattere non sono stato in grado di venderti. Il che ti rende inadeguata. Quindi…» Sfilai il pugnale dal fodero alla base della mia schiena. «Sto per ucciderti».

    Velocemente. Senza pensarci, come avevo sempre fatto. Poi avrei girato i tacchi e Armand avrebbe mandato qualcuno a disfarsi del cadavere.

    L’avevo fatto per anni, all’occorrenza.

    Roteai il pugnale e calai il mio fendente.

    «Aspetta!», strillò lei.

    Mi bloccai, gli occhi puntati sulla mano che mi aveva piantato sul cuore, per poi farli guizzare nei suoi con l’incisività di un dardo appena scoccato.

    La giovane deglutì a vuoto.

    «Io sono brava. Sai che lo sono», affermò concitata.

    Scacciai le sue dita. «Non così particolarmente».

    «Pensa a quanto potrei diventarlo, se continuassi a stare qui», perseverò staccandosi dalla parete per invadere il mio spazio personale.

    Le piazzai una mano sul petto e la rispedii indietro con un piccolo sbuffo spazientito. «Ne dubito fortemente, visto i tuoi scatti ferini».

    «Facciamo un patto», esclamò.

    Ammutolii. Poi, esterrefatto, ripetei: «Un patto».

    «Sì», esultò, come se avesse avuto l’idea più geniale del mondo e io fossi troppo stupido per arrivarci. «Sai, è quando due persone…»

    «So perfettamente cos’è un patto», ringhiai furente.

    «Voglio proportene uno», asserì battagliera.

    « Tu vuoi fare un patto con me». Sondai il suo sguardo, in cerca di qualcosa che mi rivelasse la sua instabilità mentale. «Sei pazza».

    Si corrucciò. «No».

    «Sì, invece, perché nessuna delle altre», dissi con un ampio gesto della mano, riferendomi alle sue compagne, «si azzarderebbe perfino a guardarmi negli occhi».

    Incrociò le braccia con un cipiglio arrogante.

    «Io non sono come loro».

    «Su questo ti do ragione», mi ritrovai a replicare tra i denti, la smania di tagliarle quella lingua impertinente che si diffondeva in me come un fastidiosissimo formicolio.

    «Allora sta’ zitto e ascoltami», comandò, anche se con una traccia di insicurezza nella voce.

    Un ordine.

    Questa piccoletta aveva osato darmi un fottuto ordine. La sua follia raggiungeva picchi che non avevo neanche immaginato, decisamente. Ciononostante, ero incuriosito da quello che le stava frullando in testa – qualcosa che le stava mettendo molta ansia, a giudicare dal suo continuo umettarsi le labbra carnose.

    Labbra che non smettevo di fissare.

    Ridussi gli occhi a due fessure minacciose.

    «Dieci secondi, poi ti estirperò la trachea dalla gola».

    «Allenami tu», disse tutto d’un fiato.

    «Lo faccio già». Seguii il movimento dei muscoli del suo collo esile mentre inghiottiva la saliva, le narici frementi, le pupille dilatate, il sangue che pompava imperioso nelle vene. «Cinque secondi».

    «Solo tu», ansimò.

    Non mi mossi.

    Non parlai.

    «Do il meglio di me, quando sono in coppia con te», aggiunse in un soffio. «Lo sai».

    No, non sapevo niente.

    Non la stavo più ascoltando.

    Ero rimasto alle parole che avevano lasciato la sua bocca e mi avevano colpito con più violenza di un pugno.

    Lei distolse lo sguardo. «S-se sarai solo tu, io…»

    «Tu cosa?», la aggredii, pressandola contro la parete con la parte inferiore del corpo, la lama sulla sua giugulare.

    Sentirla rabbrividire contro di me mi spinse a pigiare ancora di più le cosce contro le sue, quasi volessi assimilare quel tremore, ingigantirlo e poi ridarglielo e stare a guardare mentre veniva scossa da convulsioni tanto potenti da spezzarle le ossa.

    Il respiro corto e irregolare, lei schiuse le labbra, ma non ne fuoriuscì nulla. Spostai il coltello verso l’alto, costringendola ad alzare il mento e a rivolgere gli occhi nei miei.

    «Cosa, Nadiya?», ripetei in un sibilo basso.

    «Sarò il soldato che vuoi», boccheggiò.

    La guardai a lungo, cercando di carpire ogni suo più piccolo pensiero attraverso il suo sguardo spaventato, ma così ammaliatore.

    Fu allora che lo vidi.

    Il pericolo.

    Un enorme, sinuoso, allettante pericolo.

    Perché nella sua richiesta si celava qualcosa che aveva già preso a serpeggiarmi sulla pelle come un liquido infetto pronto a penetrare nei tessuti e a divorare.

    Qualcosa da cui dovevo assolutamente allontanarmi.

    Ispirai in maniera brusca e la colpii con un’occhiata di ghiaccio.

    «No», dissi.

    Rinfoderai il pugnale e abbandonai la cella alla velocità della luce. Risalii al pianterreno, dunque uscii sul piazzale antistante alla facciata principale del castello. Gli uomini di guardia mi salutarono con cenni del capo o del fucile che imbracciavano.

    Mi arrestai al centro dello spiazzo.

    Era metà mattinata e il cielo era coperto da un fitto strato di cumulonembi. La temperatura doveva essere intorno a zero gradi, e a ogni mio respiro una nuvoletta di condensa si innalzava davanti alla mia faccia.

    Un fiocco di neve si depositò sulla mia bocca; lo catturai con la lingua, avvertendone a malapena il sapore. Reclinai il capo, accogliendo altri batuffoli su tutto il viso.

    Non cadere.

    2

    NADIYA

    Avevo paura del buio.

    Quando ero piccola, la mamma mi aveva regalato una luce notturna a forma di stella. Una stellina destinata a diventare la più grande e splendente, diceva. E lo ero diventata. Ero stata una delle atlete favorite alle Olimpiadi di Londra del 2012, nella disciplina della ginnastica artistica.

    Semifinale.

    Una rovinosa caduta dopo un salto.

    Frattura del quarto e quinto metatarso del piede sinistro.

    Olimpiadi finite.

    Non era stato un infortunio importante, ma avevo visto sfumare la mia possibilità di vincere la medaglia d’oro che avevo inseguito da quando avevo iniziato la mia vita da ginnasta.

    Una vita che mi era stata brutalmente strappata via, in una notte di gennaio, mentre mi apprestavo a tornare a casa dopo un’intensa serata di allenamenti.

    Non ricordavo quasi niente dell’attacco, in quanti erano. Solo l’odore acre del panno impregnato di cloroformio che mi era stato schiacciato sulla bocca e sul naso.

    Mi ero risvegliata all’inferno.

    E lì, tra terrore e smarrimento e mura che trasudavano inenarrabili oscenità, avevo trovato lui.

    André Lamaze.

    All’arrivo al castello, Hanna, il nostro supervisore, ci aveva spiegato che eravamo state prese per essere addestrate e vendute a Neela Šarapova – detta la regina di Véres, città della Transilvania in cui ci trovavamo – per diventare sicari professionisti. Ci aveva spiegato che ora non eravamo nient’altro che merce, che la nostra esistenza così come la conoscevamo era cessata e ne sarebbe iniziata una nuova.

    Una in cui il più giovane dei tre fratelli Lamaze era il nostro comandante, e gli dovevamo obbedienza assoluta.

    E io avevo ubbidito.

    Per mesi avevo tenuto la testa bassa, preda del panico che mi aveva attanagliato non appena mettevo piede in palestra.

    Fino al giorno in cui avevano assaltato il castello.

    Fino al giorno in cui la donna con gli occhi così verdazzurri da sembrare alieni mi aveva salvato. Il suo coraggio era stato come un fulmine che mi aveva trapassato, lasciandomi un po’ della sua energia sfrigolante.

    Era stato allora che avevo deciso che non sarei più stata succube di quello che il destino mi aveva riservato.

    Avevo tenuto gli occhi aperti, studiato gli uomini che mi circondavano, imparato a difendermi.

    E soprattutto, avevo fatto di tutto per non farmi vendere.

    Ogni volta che si era avvicinato il momento di presentarci alla regina, avevo fatto in modo di non essere idonea, rischiando di essere ammazzata.

    Ma sapevo che lui non lo avrebbe fatto.

    C’era qualcosa in me che lo attraeva. Durante le sessioni, percepivo costantemente il suo sguardo seguirmi come un laser. Nel primo periodo avevo pensato che mi osservasse con minuzia per la mia tecnica di combattimento, i miei movimenti fluidi ed eleganti.

    Poi avevo cominciato a misurarmi con lui.

    Lotta dopo lotta, i nostri occhi avevano iniziato a cercarsi in un modo che mi aveva inquietato. Elettrizzato. Avevo incominciato a bramare di colpirlo, di essere afferrata dalle sue mani.

    Di averlo vicino.

    E per lui era lo stesso – doveva esserlo perché, quando lo scontro ci aveva portato a un respiro l’una dall’altro, le sue labbra avevano quasi lambito le mie.

    Sempre.

    Come se lo avessero chiamato.

    Per questo gli avevo fatto quella proposta assurda. Forse, se fossi riuscita ad amplificare questa strana intesa che si scatenava tra di noi, non mi avrebbe più visto come una merce, ma come un essere umano. Avrei potuto convincerlo a lasciarmi tornare a casa.

    Sai che ti stai solo illudendo.

    Probabile, ma era stata la mia ultima possibilità. Scappare era fuori questione. Non mi era rimasto che tentare l’impossibile, giacché l’alternativa erano una vita di omicidi su commissione o la morte.

    Ma André aveva rifiutato di essere l’unico ad allenarmi.

    Le sue gambe avevano aderito alle mie, il suo bacino aveva premuto contro il mio, la sua bocca era rimasta sospesa sulla mia, e lui aveva detto no.

    D’ora in avanti, non appena avesse varcato di nuovo quella soglia, sarebbe stato per uccidermi.

    ✦ ✦ ✦

    Dopo aver divorato il misero pranzo che mi era stato portato, mi raggomitolai sulla panca, il corpo talmente irrigidito dal freddo che i brividi che mi percorrevano sembravano cento volte più possenti.

    Avevo l’impressione di aver appena chiuso le palpebre, quando il pesante battente si aprì cigolando. Mi rizzai a sedere di scatto, squadrando André con occhi spalancati dalla paura.

    Era così alto che per poco non sfiorava la sommità della soglia con il capo, e l’abbigliamento nero non faceva che mettere in risalto il suo fisico asciutto ma vigoroso. I lunghi capelli biondi, leggermente mossi e con striature castano chiaro, erano pettinati all’indietro e i tratti del volto inflessibile parevano ancora più spigolosi. Nella semioscurità, le sue iridi ardevano come fuochi.

    Mi alzai, sfregandomi nervosa le mani sudate. «Quello… quello che ti ho detto ieri…», balbettai, il cuore sul punto di sfondarmi il petto. «Dimenticalo, okay? Non… non ero lucida e…»

    «Non mi vuoi più?»

    Trasalii. Non fu per la domanda in sé, ma per l’intensità con cui la pronunciò. Per il modo in cui mi stava guardando, come se volesse insidiarsi nella mia mente. Il suo sguardo, sempre così freddo, ora era rovente e duro e disarmante.

    Non riuscii a sostenerlo.

    Lui lo interpretò come un no e si voltò, arpionando una mano alla porta per richiudersela alle spalle.

    Non lasciarlo andare via.

    Morirai.

    Fermalo.

    Dovevo?

    Che cosa aveva voluto dire con quella frase? Perché avevo la spaventosa impressione che non si riferisse alla mia proposta? Che avesse un significato del tutto diverso?

    Perché lo speravo?

    «Sì!», esclamai di slancio.

    André si fermò con un piede fuori dalla cella, l’uscio quasi del tutto richiuso. Non si girò, quasi la mia risposta lo avesse paralizzato.

    Azzardai un minuscolo passo in avanti. «Voglio te».

    Il legno del battente scricchiolò sotto le sue dita, le nocche sbiancate per la forza con cui lo stava stringendo. Rabbrividii.

    «Per… gli allenamenti», precisai.

    Percepii il suo sorrisino.

    Dopo qualche secondo di stasi, André spalancò di nuovo la porta e se ne andò. Rimasi immobile, l’eco dei suoi passi rapidi e risoluti che si propagava nell’androne e si affievoliva fino a scomparire.

    Pianissimo, mi approssimai alla soglia e feci capolino con la testa. André mi aspettava all’inizio della stretta scalinata che portava al pianoterra, un lato del corpo accasciato contro il muro in una posa indolente.

    Voleva che lo raggiungessi?

    Il suo sopracciglio si inarcò, come a dire Ti muovi o no?

    Dunque, mi avviai con cautela, lanciando occhiate oblique alle porte su ambo i lati del corridoio mentre procedevo attraverso le zone d’ombra e luce generate dalla scarsa illuminazione. Quando gli fui dinanzi, André piegò il capo per indicarmi le scale. Le guardai in tralice, quindi incominciai a salire gli alti gradini.

    Lui era proprio dietro di me, così vicino che potevo sentire il suo respiro nell’orecchio. Avevo la sensazione che l’aura di ghiaccio che lo circondava si stesse espandendo per ammantare anche me e strangolarmi. La avvertivo intorno al collo, come delle dita in procinto di serrarsi.

    Mi portai d’istinto una mano alla gola, mi volsi appena per controllare André…

    E misi un piede in fallo.

    Protesi le mani per non spaccarmi i denti sullo scalino che mi stava venendo rapidamente incontro, ma d’improvviso mi ritrovai di nuovo dritta. Il braccio di André mi cingeva come un boa, al punto che faticavo a respirare, tanto mi comprimeva sotto il seno. Il suo petto era come acciaio contro la mia schiena.

    Rimanemmo così per alcuni istanti – io aggrappata al suo avambraccio, la sua guancia che premeva forte sui miei capelli, i nostri respiri che divenivano sempre più rumorosi.

    Il suo cuore era come un tamburo impazzito contro le mie scapole, il battito così veemente da appropriarsi del mio e costringerlo a seguire il suo stesso ritmo forsennato.

    «Se volessi ucciderti», mi sussurrò nell’orecchio, sfiorandolo con le labbra, «non avrei bisogno di portarti da qualche altra parte». Mi strinse a sé ancora di più, facendomi ansimare per la repentina fitta di dolore al costato e l’inaspettata contrazione nel basso ventre. «Lo avrei fatto lì dentro».

    Una scarica di terrore mi fece sbarrare gli occhi.

    Non ero nient’altro che un topo messo all’angolo, e lui il gatto che provava un piacere sadico nel vedermi tremare, consapevole che la zampata che mi avrebbe tolto la vita sarebbe giunta presto.

    Ma non adesso.

    Al rallentatore, staccai le mani dal suo braccio e le alzai in segno di resa. Ruotai lievemente il viso verso il suo e annuii piano, fremendo nel sentire la sua bocca sfregare sulla mia guancia.

    «Non cadere», disse, l’alito che mi solleticava l’angolo delle labbra. «Non ti prenderò una seconda volta».

    Allora perché la veemenza con cui mi stava tenendo mi diceva che lo avrebbe sempre fatto? Che qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe sempre stato al mio fianco?

    Povera idiota.

    Forse lo ero davvero e stavo permettendo a qualcosa di immaginario di offuscarmi la ragione.

    Lentamente, André mi lasciò andare. Due respiri profondi ma un po’ incerti, poi ricominciai a salire. Una volta nel grande e inquietante atrio, lui mi sorpassò e si avviò svelto verso l’arcata d’ingresso dell’ala est.

    Mi affrettai ad andargli dietro, faticando per tenere la sua andatura senza trotterellare come un cagnolino che segue il padrone.

    «Allora dove stiamo andando?», volli sapere.

    In palestra, per brutalizzarmi davanti alle altre? Per usarmi come monito?

    André si bloccò di soprassalto e si voltò per assalirmi.

    «Devi per forza parlarmi, vero?»

    Senza riflettere, feci per replicare con lo stesso tono, ma ritrovarmi la sua faccia a una spanna dalla mia mi mozzò le parole in gola.

    «Era una cazzo di domanda retorica», ringhiò, gli occhi che sputavano fiamme.

    Il mio respiro era così furente che probabilmente anch’io avrei soffiato fuoco dalle narici, se avessi potuto.

    «Scusa», mormorai con palese ostilità.

    Il suo sguardo analizzò con attenzione ogni centimetro del mio viso. «Se ti tagliassi la lingua avrei un problema in meno», borbottò.

    Avvampai per la rabbia. «Prov…»

    Di scatto la sua mano si serrò sulla mia mascella, chiudendomi la bocca con uno schiocco doloroso. Con il pollice premette così forte sulle mie labbra da farmi male.

    «Devi stare zitta», scandì con voce pericolosamente bassa.

    Assentii con un gemito soffocato, il panico che navigava a vele spiegate in me e mi ghiacciava dall’interno.

    Appena André mollò la presa, la collera, nascostasi in un angolo nel momento in cui lui mi aveva toccato, tornò a manifestarsi con prepotenza sul mio volto. Un luccichio predatorio balenò nei suoi occhi, ed ebbi l’impressione che l’aria tra di noi fosse carica di elettricità.

    Una tensione che mi accapponava la pelle.

    Una tensione che mi attirava inesorabilmente a lui.

    Gli guardai le labbra carnose, un po’ dischiuse.

    Un invito.

    Una trappola.

    La mia rovina.

    Mi resi conto di essermi sporta verso di esse solo quando André girò di colpo sui tacchi e riprese a marciare lungo il corridoio. Rimasi dov’ero, le palpebre che sbattevano in modo convulso, il cuore un piccolo martello pneumatico nel petto.

    «Ti dispiacerebbe seguirmi?», sbraitò lui, la voce che rimbombava tra le pareti. «O devo fracassarti le ginocchia e trascinarti in palestra per i capelli?»

    Mi riscossi con una scrollata di spalle e accennai una corsetta per raggiungerlo. Tampinandolo, replicai: «Se mi rompessi le ginocchia, a quel punto sarei veramente inutile».

    E sarei stata eliminata in un battito di ciglia.

    «Vedo che hai afferrato».

    Un brivido di paura mi investì.

    Arrivammo in prossimità della porta a doppio battente che conduceva alla palestra, e André tese una mano verso una delle due grosse maniglie dalla forma gotica.

    Mi frapposi tra lui e l’uscio con piglio quasi guerrigliero.

    «Non ti libererai così facilmente di me».

    Il suo sguardo.

    Oh, mio Dio.

    Divenne puro, letale ghiaccio. Ne percepii la potenza scorrermi sulla pelle come una lama desiderosa di incidere, sporcarsi di rosso.

    Un’entità maligna che mi permeava pian piano per risucchiarmi.

    Ora fu lui ad osservarmi la bocca, in un modo che mi tolse il fiato. Mi si avvicinò. Si chinò fino a sfiorarmi la punta del naso con la sua, e il suo respiro si fuse con il mio.

    «Suona come una minaccia, Nadiya», mormorò.

    Non c’era nulla di sensuale nel suo tono affilato, tuttavia ne fui così sedotta che sollevai impercettibilmente il viso per lambirgli il labbro inferiore con il mio. Prima che accadesse, però, André raddrizzò la testa quel tanto che bastò affinché la mia bocca scivolasse sul suo mento.

    Sibilò.

    Pervasa da una brama pericolosa, feci per tirare fuori la lingua e scoprire il suo sapore, ma lui fu lesto nel ghermirmi per la gola e a staccarmi da sé. Boccheggiai per lo spavento, per poi accorgermi che la sua morsa non era tale da impedirmi di respirare.

    Che la sua fronte era sulla mia.

    Sconvolta, fissai le sue palpebre strizzate, i tratti del volto contratti in una smorfia sofferente e insieme rabbiosa. Quando riaprì gli occhi, ebbi la sensazione di morire, tanto erano penetranti.

    «Non… farlo mai più», disse minaccioso.

    Non risposi subito. Allora, lui serrò le dita, facendomi ansare.

    «No», promisi in un soffio.

    André lasciò ricadere la mano lungo il fianco.

    Ma nessuno dei due si mosse.

    Tenni lo sguardo fisso davanti a me, sul lembo di petto che lo scollo a V della sua maglia lasciava scoperto. Il suo odore mascolino mi riempì le narici, scombussolandomi ancora di più. Il suo respiro pesante mi smuoveva i capelli in cima alla testa, inviandomi brividi lungo la spina dorsale.

    Improvvisamente, non volli più stargli così vicino.

    Era troppo.

    Dovevo spostarmi.

    Allontanarmi.

    Non lo feci.

    A un tratto André inspirò bruscamente e mi tolse di mezzo con una spallata, spalancando i battenti. Un attimo per ricompormi, dunque lo seguii nel salone.

    Come ogni pomeriggio, le ragazze si stavano allenando con i bastoni, e il rumore di legno contro legno creava un fracasso al quale ormai mi ero così abituata da trovarlo familiare.

    Mi tenni a qualche metro di distanza da André mentre avanzavamo verso il ring al centro. La sua camminata ostentava la terrificante sicurezza di chi sapeva di poter uccidere con un movimento della mano, la freddezza di un condottiero.

    «Tu», proruppe all’improvviso quando passammo accanto a una giovane con una lunghissima coda di cavallo bionda. Lo rifece quando superammo una ragazza che aveva le punte dei capelli castani di un viola oramai sbiadito e una piccola cicatrice che le tagliava di netto il sopracciglio. «Sul ring», ordinò infine.

    Gli uomini che le stavano allenando le scortarono sulla piattaforma e si posizionarono in due angoli opposti. Le mie compagne mi scrutarono con diffidenza e curiosità; erano le migliori di questo nuovo gruppo, e mi domandai perché André le avesse volute sul quadrato.

    Cosa diavolo aveva in mente?

    Quasi mi avesse letto nel pensiero, lui si girò e mi si accostò tanto che dovetti reclinare il capo per guardarlo con un misto di timore e ansia.

    «Battile», mi disse sottovoce, «e sarò tuo».

    Il mio cuore sobbalzò.

    Mio.

    Mio.

    Mio da conoscere.

    Mio da toccare.

    Mio da conquistare.

    Mio da manipolare per riacquistare la libertà.

    Mi sporsi per dare una sbirciata alle giovani che dovevo affrontare. Nel corso dei mesi avevo avuto modo di misurarmi con loro singolarmente, ma nessuna di noi aveva mai lottato con più ragazze o istruttori in contemporanea. Quelle due picchiavano forte ed erano il doppio di me, ma potevo farcela.

    Ce l’avrei messa tutta, pur di ottenere l’unico mezzo che mi avrebbe permesso di abbandonare per sempre questo inferno. Di andarmene da qui viva e libera.

    E quel mezzo era André Lamaze.

    Riportai l’attenzione su di lui. «Bene», feci piccata.

    Lo sorpassai con una spallata, proprio come aveva fatto lui poco prima, e mi arrampicai sul ring. Rimasi in un angolo, osservando prima la bionda e poi quella con il sopracciglio spaccato. Erano di una bellezza statuaria – come tutte le donne che entravano a far parte del gruppo di André, del resto – e mi chiesi quanta paura avrebbero suscitato le loro espressioni arcigne una volta al servizio di Sua maestà.

    Quanto spaventose sarebbero diventate.

    I loro sguardi deviarono alla mia sinistra, e notai che André si era puntellato con le mani sulla pedana. I suoi occhi mi freddarono.

    «Massacratela», ordinò alle mie compagne.

    Non ebbi neanche il tempo di registrare quell’unica parola, che le mie avversarie mi furono addosso. I miei riflessi mi permisero di schivare il primo pugno e parare il secondo, ma una ginocchiata nel costato mi mandò subito al tappeto.

    «Andiamo, ragazzina», mi schernì André mentre le giovani mi saltellavano attorno come lupi pronti a finire la loro preda per mangiarla. «Ti piace usare i denti, no? Allora tirali fuori e combatti».

    Gli scoccai un’occhiata fulminante, per poi rotolare di lato per evitare un pestone diretto alla faccia. Slanciai le gambe in alto per balzare di nuovo in posizione eretta e i miei talloni centrarono sotto il mento la bionda che si era fiondata su di me. Intravidi soltanto qualcosa di scarlatto fuoriuscirle dalla bocca e a stento colsi i gorgoglii che produsse, perché dovetti immediatamente alzare la guardia e difendermi dall’attacco della bruna.

    Mi dolevano gli avambracci per via delle parate e cominciavo a non avere più sensibilità alle mani, con cui sferravo cazzotti e schiaffi. Avevo l’impressione che i muscoli andassero a fuoco, che i tendini stessero per spezzarsi, che la testa stesse per scoppiare a causa della massima concentrazione. I miei occhi seguivano in maniera frenetica i loro spostamenti, cercavano di prevedere la loro prossima mossa, mentre il mio corpo eseguiva figure imparate in una vita di cui mi sarei riappropriata con tutte le forze.

    A un certo punto la gomitata della bionda mi spedì verso le corde. Vi rimbalzai contro e sfruttai quella spinta per restituirle lo stesso colpo sullo zigomo. Mi preparai per accogliere l’assalto dell’altra giovane…

    Ma qualcosa mi attanagliò la caviglia e tirò.

    Caddi in ginocchio con un grido, ma non potei girarmi per vedere chi diamine mi avesse afferrato, poiché una rotula si schiantò sulla mia faccia. Venni ghermita per i capelli e, tra le chiazze nere che macchiavano il mio campo visivo, scorsi il volto truce di André.

    Un microscopico sorrisino gli incurvava le labbra.

    Bastardo!

    Era stato lui a rovesciare le sorti dello scontro.

    Da quel momento non riuscii più a reagire.

    Incassai un colpo dopo l’altro, a malapena capace di proteggermi con le braccia. La regina esigeva che non fossimo ferite in alcun modo, nel corso della formazione, giacché non voleva che l’avvenenza delle donne che comprava fosse deturpata neanche da un semplice graffio. Eppure, avvertivo un sapore metallico sulla lingua e un rivolo di sangue colarmi dalla narice.

    E dentro di me, sapevo che André non avrebbe comandato loro di fermarsi.

    Perché non gli importava.

    Aveva affermato di non volermi uccidere, ma aveva mentito così spudoratamente. Mi aveva preso in giro. Mi aveva fatto credere di avere una possibilità.

    Che ci fosse speranza.

    Invece, aveva già deciso la mia sorte.

    Piombai sul tappeto, sbattendovi il viso. Tossii, sputacchiando goccioline purpuree.

    Fu allora che il mio sguardo si infranse su quello di André con la stessa potenza di un’onda contro lo scoglio.

    Lo tenni nel mio come fosse un’ancora.

    L’unico appiglio nel mare in tempesta.

    Lo chiamai.

    Un’ombra passò nei suoi occhi, quasi avesse sentito il mio richiamo. Quasi avesse udito la mia voce nei suoi pensieri e non gli fosse piaciuto che fossi stata in grado di entrarvi.

    Uno spostamento d’aria sopra di me ruppe quella connessione, ma prima che le giovani tornassero alla carica, la voce di André Lamaze risuonò stentorea.

    «Basta», comandò.

    Un cenno del mento, e i due uomini negli angoli portarono le ragazze giù dal quadrato.

    Con fatica, mi sollevai sui gomiti e poi gattonai fino alle corde senza smettere di guardare André. Scesi dal ring, proprio davanti a lui, gemendo quando atterrai con tutto il peso sulle gambe stanchissime.

    «Avrei vinto», dissi infuriata, ma trattenendomi dall’alzare la voce. Con il dorso della mano mi pulii le labbra sporche di sangue. «Se tu non fossi intervenuto, le avrei battute. E lo sai».

    Lui rimase imperturbabile. «Io non ho fatto niente».

    Divenni paonazza. «Mi hai preso per la caviglia proprio quando le avevo in pugno», sibilai.

    «Come sai che non è stata l’altra ragazza?», mi chiese in tono canzonatorio.

    Incurante della gente che ci circondava, gli andai sotto a muso duro. «So riconoscere le tue mani su di me».

    Il suo sguardo si accese d’ira. «E come, se non ti ho mai toccata?»

    Mi sporsi verso di lui. «Lo hai fatto prima, sulle scale. Quando mi hai stretto a te come se non volessi più lasciarmi andare».

    André mi inchiodò con uno sguardo di ferro, tacendo. Mi fissò così a lungo e con tanta collera che provai il bisogno di andare a rintanarmi da qualche parte per sfuggire a una tale potenza.

    «Nikolaj», urlò all’improvviso, facendomi sussultare.

    Il suo uomo più fidato ci raggiunse all’istante e si mise sull’attenti.

    Gli occhi di André non sviarono mai dai miei.

    «La rossa non è più in punizione. Può rientrare insieme alle altre».

    Nikolaj annuì e tornò dalla giovane con cui stava lavorando.

    André continuò a guardarmi come se fossi un complicato rebus da risolvere. «Congratulazioni, ragazzina», mi provocò. «Sembra che tu abbia ottenuto quello che volevi».

    Si voltò e si avviò velocissimamente verso la porta, quasi avesse dei cerberi alle calcagna. Solo quando sparì in fondo al corridoio rilasciai il respiro trattenuto.

    Avevo davvero avuto ciò che volevo?

    O mi ero addentrata in una dimensione dalla quale non sarei più riemersa?

    3

    ANDRÉ

    Stupida e insopportabile mocciosa.

    Sapeva riconoscere le mie mani su di lei? Benissimo. Le avrei scolpito nella memoria quanto male potevano infliggerle.

    Avrebbe rimpianto di avermi voluto tutto per sé.

    Avrebbe rimpianto di aver osato avvicinarsi tanto.

    Avrebbe rimpianto di avermi attirato a lei.

    Credeva di potermi ammaliare con quegli occhi da cerbiatta? Glieli avrei cavati con le pinze.

    E poi vediamo come fai a portarmi verso di te, piccola stronza.

    Ero incazzato come una belva, mentre viaggiavo rapido su per le scalinate del castello.

    Avevo bisogno di sfogarmi fisicamente. I miei muscoli formicolavano per l’impazienza di essere sfruttati al massimo in uno degli scontri brutali con la campionessa della regina, dalla quale accorrevo quando qualcosa minava il mio autocontrollo.

    Allora perché non stavo andando da lei?

    Perché ero davanti alla porta della camera di mio fratello?

    Bussai forte. «Devo parlarti», esordii.

    Nessuna risposta.

    Mi appoggiai con il braccio al battente, fissandomi le punte degli stivali e respirando nervoso. «Non è per te. È…» Sbuffai. «È per me».

    Non colsi alcun rumore proveniente dalla stanza.

    Stavo per buttare giù la porta.

    «Ho un problema. Con…» Mi leccai il labbro, lo stesso che lei aveva quasi lambito con il suo. «Una ragazza».

    Dopo qualche secondo, il legno del battente scricchiolò e udii un lievissimo tonfo che mi fece presupporre che lui si fosse seduto sul pavimento. Seguii il suo esempio, portandomi un ginocchio al petto e reclinando il capo contro l’uscio.

    Rimasi in silenzio per quella che mi parve un’era.

    Non sapevo da dove cominciare, perché né lui né Armand sapevano di Nadiya. Nessuno sapeva di lei.

    Per la mia squadra era solo un elemento instabile di cui disfarsi il prima possibile. Per Armand era un numero nei suoi schedari. Per me…

    Per me.

    Espirai stanco dalle narici. «Me la porto dietro da quasi un anno», iniziai. «Nel momento in cui penso di averla addomesticata, lei dà di matto e mi impedisce di mostrarla a Neela».

    Scossi piano la testa, al ricordo del suo primo scatto isterico. Aveva iniziato a urlare come se fosse stata posseduta, e l’avevo quasi dovuta annegare in uno dei lavandini dello spogliatoio per farla tornare in sé.

    Era stato allora che avevo commesso il primo errore.

    L’avevo tirata fuori dall’acqua e l’avevo sbattuta contro il muro. Le avevo scostato i capelli fradici che le si erano appiccicati al viso.

    L’avevo guardata.

    Avrei dovuto piantarle il pugnale nel petto nell’attimo in cui avevo sentito quella specie di scossa passare tra di noi, invece ero scappato come un coniglio del cazzo.

    E continui a farlo.

    Aggrottai la fronte, irritato da quel maledetto pensiero. Stavo per proseguire, quando mio fratello parlò.

    «Che vuol dire che dà di matto?», chiese, la voce roca e così spenta che avevo l’impressione appartenesse a una persona priva di anima.

    Dannatissima Nikolayeva. Mi augurai che quella puttana stesse vivendo un inferno diecimila volte peggiore di quello che lui le aveva riservato abbandonandola.

    «L’ultima volta ha staccato un pezzo d’orecchio a uno dei miei uomini», risposi in tono leggero.

    Un tempo avremmo ridacchiato, ma niente era più come prima. Noi non lo eravamo più.

    «Una piccola lupa», fu il suo commento incolore.

    «Già…» Increspai le labbra in un sorriso, smorzandolo subito dopo e arrabbiandomi con me stesso per quell’attimo di debolezza.

    Ripensai a come si era mossa sul ring, prima. Alla flessuosità del suo corpo da ginnasta, a come i suoi capelli avevano ondeggiato a ogni spostamento, alla precisione dei suoi colpi.

    Ripresi a parlare senza neppure accorgermene. «Ha un talento incredibile, e non ne ha la minima idea. Il modo in cui si muove… È magnetica».

    Serrai le palpebre.

    Che diavolo c’era di sbagliato in me? Da dove venivano quelle parole e come cazzo mi era venuto in mente di dirle ad alta voce?

    «Non riesco a toglierle gli occhi di dosso», me ne uscii a bruciapelo, stringendo fortissimo il pugno per la rabbia cocente che mi montò dentro.

    Devi… stare… zitto.

    Non ci riuscii. Ero una patetica marionetta in balia del terremoto che quella piccoletta aveva scatenato in me. Un terremoto che aveva scheggiato la corazza di odio e ira in cui, in solitudine, avevo vissuto fin dalla morte di Antoine. Un terremoto che portava con sé qualcosa che non avevo mai provato.

    Qualcosa che non volevo provare.

    «E lei…» Espirai dalle narici, esausto e furente.

    «Non ha paura di te», concluse mio fratello, e questa volta il suo tono assunse una sfumatura cupa e sinistra.

    Rividi Aleksandra Nikolayeva fronteggiarlo impavida, frapporsi tra me e lui e urlarmi in faccia con un coraggio che non avevo mai visto.

    Senza alcun timore.

    Sempre.

    Nadiya non era come lei. Oh, era temeraria e avventata, ma mi bastava lanciarle un’occhiata omicida per farla tremare come una foglia.

    «Ce l’ha, invece», risposi sopprimendo un ghigno. «Ma è così fuori di testa che ha cercato di leccarmi».

    Avvertivo ancora le sue labbra sul mento, l’alito caldo accarezzarmi la pelle quando aveva tirato fuori la lingua. Cristo, avrei voluto staccargliela con un morso.

    Avrei voluto mordere lei.

    Avrei voluto fare qualcosa che mi turbava, che mi irritava.

    Che mi eccitava.

    «Perché è ancora viva?», mi domandò lui.

    Perché non riesco a smettere di pensare di baciarla.

    Quella verità era tremenda come una lama che mi penetrava lentamente nel

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