Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'innaturale evoluzione delle cose
L'innaturale evoluzione delle cose
L'innaturale evoluzione delle cose
E-book235 pagine3 ore

L'innaturale evoluzione delle cose

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Leonardo, editore e giornalista trasferitosi a Londra in cerca di fortuna, viene richiamato a Roma da un improvviso lutto in famiglia, dopo che si è appena conclusa la sua storia d'amore con Lucy, la donna della sua vita. Ad attenderlo nella capitale c'è la famiglia, raccolta per dare l'addio allo zio Cesare, figura carismatica e quasi paterna. Nell'attesa che il testamento dello zio defunto venga reso noto, Leonardo si ritroverà davanti a volti e sensazioni che lo catapulteranno in una vita passata, tornata prepotentemente d'attualità. Tra nuovi rapporti, discussioni, decisioni difficili, farà la conoscenza di Elisabetta, studentessa di archeologia in cerca della sua vera identità...
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2015
ISBN9788867931927
L'innaturale evoluzione delle cose

Correlato a L'innaturale evoluzione delle cose

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'innaturale evoluzione delle cose

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'innaturale evoluzione delle cose - Giuseppe Iacolino

    http://creoebook.blogspot.com

    Giuseppe Iacolino

    L'INNATURALE EVOLUZIONE DELLE COSE

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    Conosco quella prospettiva da cui ogni cosa appare terrificante e misteriosa. Rifletti sull'eternità, considera, se ne sei capace, l'oblio, e tutto diventa un portento. Eppure in assoluta umiltà io dico che certe cose sono più straordinarie di altre e che io sono una di esse.

    PHILIP ROTH - Il seno

    A mia madre,

    le cui parole terrò

    per sempre con me

    G. I.

    Prologo

    Mi ripresi che avevo ancora gli occhi chiusi, non riuscivo a sentire nulla. Nessun rumore, nessun suono, nulla. Non ricordavo dove fossi né cosa fosse accaduto. Riuscivo a stento a muovere le gambe e il braccio sinistro era praticamente insensibile, anche se non avvertivo alcun dolore. In compenso ne provavo uno fortissimo al petto e allo stomaco. Cercai di toccare il braccio che non sentivo e appena mi mossi tutti i dolori si acutizzarono improvvisamente e, dal male che sentii, spalancai la bocca senza emettere alcun suono e strizzai gli occhi. – Almeno li ho mossi – pensai. Raccolsi tutto il coraggio e la forza che avevo per sbarrare i miei dannati occhi, che fino a quel momento continuavano imperterriti a rimanere chiusi e decisi di concentrarmi per capire cosa fosse successo, ma niente. Provai a pulirli, come se qualcosa fosse su di loro. Appena ci riuscii tentai di mettere a fuoco ciò che mi circondava aiutandomi ancora con la mano, passandola ripetutamente sulla faccia. Dopo un po’ riuscii finalmente a capire ciò che era successo.

    Mi sentii gelare per ciò che vidi. Ero all’interno di una macchina, sul lato passeggero, appeso alla cintura di sicurezza. C’era parecchio sangue e non riuscivo a capire come ce ne potesse essere tanto. Il parabrezza era sfondato e, riverso per metà sul cofano, sul lato del guidatore, c’era il corpo di un uomo. Solo il mio airbag era aperto, il suo quadro invece intatto. Quell’uomo stava lì, immobile. Sapevo di conoscerlo, mi sforzai, ma non riuscivo a ricordare chi fosse. Mi allungai verso di lui cercando di toccarlo per verificare se fosse ancora vivo, ma non fece nemmeno un movimento e il dolore che sentivo mi riportò nella mia posizione. Tolsi la sicura con uno sforzo che mi sembrò il più grande che avessi mai fatto e lo sportello si spalancò. Mi resi conto che la macchina era poco sollevata sul retro, mentre la parte avanti era piantata a terra. All’incirca poco più di un metro mi divideva dal suolo; anche se breve, mi sembrava una distanza infinita. Appena mi sporsi in avanti la testa cominciò a girarmi e del sangue mi colò sulla faccia. L’airbag aveva attutito l’impatto, ma non aveva evitato che schiantassi la mia testa sul vetro dello sportello che solo adesso mi accorgevo essere tutto incrinato. Il sangue che colava dalla ferita alla testa mi copriva il volto e la vista e cercai di fermarlo con la mano. Mi liberai dalla cintura, cercai di tenermi a qualcosa ma non riuscii e caddi dalla macchina fino al suolo. Il dolore per la botta fu talmente insopportabile che emisi un urlo straziante e svenni subito dopo. Rimasi privo di sensi per alcuni minuti, o almeno questo pensai appena mi ripresi.

    Da quel punto vedevo la posizione della macchina e capii la dinamica dell’incidente. Vedevo l’auto, o ciò che ne restava, piantata con il muso su dei cespugli alla base di una formazione di roccia e con il retro poggiata su un albero devastato a due metri da terra. Girai la testa guardando il cielo. Era già buio e io non me ne ero neanche reso conto. Vidi che sopra di noi c’era un ponte, forse un cavalcavia. Non era molto alto, saranno stati una ventina di metri e probabilmente era da lì che eravamo venuti giù, ma non sapevo né perché, né come fosse successo.

    Avvertivo la freschezza dell’erba sulla faccia e sentivo che le forze mi andavano abbandonando. Cercai di alzarmi, ma inutilmente. Non avevo le gambe rotte, riuscivo ancora a muoverle, ma mancavano le forze e l’unico risultato che ottenni fu quello di girarmi a pancia in sotto e mettermi quasi in ginocchio. A un tratto qualcosa attirò la mia attenzione. Il finestrino posteriore destro era aperto e da quello fuoriusciva una mano. C’era una terza persona in macchina ed evidentemente, dalla conformazione della mano, si trattava di una donna. Il bracciale che portava al polso non mi chiariva la sua identità e un senso di sconforto, impossibile da placare, s’impadronì di me e di tutti i pensieri.

    – Chi erano quelle persone? Che ci facevano in quella macchina? Che ci facevo io con loro in quella macchina? –. Queste e altre domande tartassavano la mia testa e non trovavano la benché minima collocazione tra tutti i possibili ragionamenti. Lo sconforto e il dubbio erano tali da farmi sprofondare in un mare di panico. Mi sentivo come in un paradossale racconto di Poe, mi aspettavo da un momento all’altro di venire trascinato nell’oscurità da una creatura infernale che mi avrebbe divorato.

    L’acutizzarsi costante dei dolori non rendeva facile nulla e per la prima volta nella mia vita cominciai ad avere paura. Una paura strana però. Una paura che non era di perdita nei confronti della vita, ma di vuoto e assenza dell’essere. Non riuscivo a darmi pace e un po’ per quello strano disagio e un po’ nella speranza di essere sentito da qualcuno cominciai a urlare. Smisi quando dalla mia gola non uscì più alcun suono. Adesso la paura era terrore, ma fu un attimo e quel momento passò veloce com’era arrivato. Improvvisamente quasi mi rassegnai. Tentai ancora di fermare con la mano il sangue appiccicoso, quasi gelatinoso, che mi usciva dalla testa e sentii scorrere sulle dita l’apertura della ferita. Mi venne una grandissima voglia di piangere, ma non ci riuscii. Mi sdraiai a pancia in sotto e restai fermo, chiusi gli occhi e chiusi anche la mente. Immobile bloccai tutti i pensieri. Poco dopo cominciò a piovere e credo che impiegai alcuni secondi per rendermene conto. Rassegnarmi mi sembrava la cosa più logica e allo stesso tempo sbagliata che potessi fare. Decisi di concedermi un ultimo pensiero, che del resto era l’unico che ricordavo nitidamente e che poteva darmi conforto. Accennai un breve sorriso, impercettibile anche alla mia intenzione e mi abbandonai al silenzio. Abbandonai le mie forze e piansi. Furono lacrime leggere, ma le piansi tutte e questa fu l’ultima sensazione che sentii prima di perderla con tutto il resto.

    1

    L’unico suono che riuscivo distintamente a sentire era quello della goccia che, cadendo dal rubinetto, si mischiava al resto dell’acqua della vasca nella quale ero immerso fino alle orecchie. Avevo lasciato fuori soltanto il naso per respirare e gli occhi erano chiusi. Non che questo contasse molto, dato che la luce era spenta e il bagno era completamente al buio. Era la situazione perfetta con le condizioni adatte per rilassarmi e io, in quel preciso momento, ne avevo davvero bisogno, visto la tensione che l’attesa mi provocava.

    Erano circa le sette quando ero entrato e dovevo essere immerso già da una buona ora, perché ogni tanto sentivo la televisione dei vicini e distinguevo la voce del presentatore di quiz delle otto che elargiva gettoni d’oro a chi avrebbe saputo rispondere a domande del tipo: «Qual è la lingua madre in Brasile?» oppure «In che anno ebbe inizio la rivoluzione industriale?». Era bellissimo restare con la testa ficcata dentro l’acqua. Tutti i suoni esterni erano amplificati e distorti e bastava concentrarsi per sentirne moltissimi altri, compreso l’odioso cane della signora Miller che adesso interrompeva quel mio stato di pace riflessiva. Lei abitava sola da quando, cinque anni prima, il marito era morto lasciandola sola con Buck, l’odioso cane che io chiamavo Break, e un appartamento enorme che, giorno dopo giorno, si impolverava sempre di più. Di rado la incontravo con enormi borse della spesa e volentieri l’aiutavo. Riuscivamo a stento a entrare in ascensore e lei mi guardava sempre con gentilezza. Mi guardava e pensava: – Ma chissà se sarà riuscito a trovare lavoro? –. Io, prima che lei potesse formulare la frase appena pensata, intervenivo dicendole che ero appena tornato da un colloquio o cose simili e lei, ridendo come se io avessi fatto una battuta umoristica sui cappelli della regina, diceva: Te lo stavo proprio per chiedere.

    Ho sempre avuto una sorta di dono, a me piace chiamarlo così, nel riuscire a leggere le persone. Riesco a sentire i loro pensieri, quasi come se uscissero loro dalla bocca chiusa; ogni volta che qualcuno mi guarda io so perfettamente quello che sta pensando. E questo accade spesso anche con gli altri quattro sensi. A volte riesco a capire dalla voce la consistenza della pelle di una persona come se la stessi toccando, altre me la immagino come se riuscissi a vederla e a definirne contorni e colori, altre ancora ne sento l’odore quasi come la stessi abbracciando e da un po’ di tempo, sempre più spesso, mi sembra come se riuscissi distintamente ad avvertirne il sapore, come se la stessi baciando o addirittura mordendo.

    Pian piano ritornai nel mio comatoso stato d’inerzia subacquea e abbandonai i latrati di gioia di Break. Mi venne in mente quando da piccolo con Simone, un mio carissimo amico ormai troppo lontano, cercavamo di distinguere tutti i suoni di ogni singolo strumento che ci sono in una canzone e ancor di più quelli che si possono mischiare in un’opera. Individuavamo i giri di basso e i riff di chitarra, o violini, fiati e tamburi e poi ci esaltavamo nel canticchiarli per strada, gesticolando come se stessimo suonando davvero, nel tragitto che ci separava dal bar dietro l’angolo. Avevo circa tredici anni in quel periodo e la mia casa era ancora Roma. Era fantastico sentire il suono del basso e individuarne i virtuosismi attraverso l’acqua. Sistemavo lo stereo con i bassi pieni smorzando gli altri suoni e poi m’immergevo, proprio come adesso, la testa giù fino a non sentire altro che il rimbombare pieno di quelle corde e quel suono mi entusiasmava talmente tanto da non riuscire più a levarmelo dalla testa. Ero capace di rimanere dentro la vasca fino a far diventare le mie mani tutte bianche e rugose, tanto da sentire la pelle piagarsi e quasi far male ogni volta che cercavo poi di chiudere i pugni. Era fantastico ed era da tanto che non lo facevo. Un’altra delle tante cose che mi mancava moltissimo non era tanto la situazione in sé, quanto lo stato di benessere che ne derivava.

    D’improvviso i miei pensieri furono scossi da un suono acuto e quasi fastidioso. Distinsi immediatamente e quasi cedetti alla tentazione di non uscire dalla vasca, ma era l’unica cosa che aspettavo. Presi con la mano bagnata il telefono cellulare che tenevo sulla tavoletta chiusa del water. Era un messaggio. Chiusi gli occhi un solo istante, presi un bel respiro e schiacciai il tasto leggi: «Cosa ci si può aspettare da uno che non fa gli auguri di compleanno neanche a sua madre? Niente! Chiamami… Adesso… Io non lo farò». Mi venne voglia di immergere la mano nella vasca e cancellare ogni possibilità di chiamata, ma il cellulare mi serviva troppo in quel momento e non potevo concedermelo. Lo avrei magari scagliato contro il muro dopo, se ne avessi avuto la forza, come del resto avevo fatto tante altre volte tempo prima, anche per ragioni diverse da quella. Guardai l’orario, erano le nove meno venti. Uscii dall’acqua ormai fredda, misi l’accappatoio e mi guardai allo specchio. I taglietti in faccia causati dalla barba della mattina erano scomparsi e non c’era nulla che di particolarmente interessante attirasse la mia attenzione in quella faccia allo specchio. Mi sedetti sul letto, sentendo le ginocchia lamentarsi come ogni volta che le tenevo ferme in una posizione per più di un determinato lasso di tempo e digitai a memoria il numero di mia madre.

    Pronto rispose come sempre dopo parecchi squilli, con aria di chi sa che sta per massacrare l’interlocutore.

    Ciao.

    Era ora. Cos’è, troppo impegnato a non combinare nulla?.

    Ovvio risposi, lontanissimo dal sembrare ironico. No, è che sono stato impegnato. Sai com’è, se non ci fossi io… .

    Certo, come sempre. Non ricordarti che oggi è il compleanno di tua madre.

    Okay, se vuoi non me ne ricorderò, dissi, distendendo le braccia verso l’alto fin sopra la testa e così facendo allontanando il telefono dall’orecchio fino a perdere le iniziali parole di risposta di mia madre, per riprenderle due secondi dopo.

    … un cretino, dichiarò, col solito tono distaccato. Che hai fatto oggi?.

    Le solite cose, mamma. Corso avanti e indietro e sbrigato le solite e noiose faccende, sapeva che mentivo generalizzando il nulla delle mie parole e che non le avrei mai realmente detto ciò che stavo facendo, ma era un tacito consenso, tu come va?.

    Come sempre, ucciderei alcuni dei bambini, ma la voglia di bridge serale e la visione dell’imminente pensionamento mi tengono lontana dal carcere.

    Potresti giocare anche là dentro, sai, le dissi ironico. Allora non c’è nessuna novità in vista?.

    Solo una, rispose, gli zii verranno per l’anniversario di matrimonio dei nonni e con l’occasione ci riuniamo tutti.

    I miei nonni facevano sessantacinque anni di matrimonio e non c’era cosa più faticosa di sentire le dissertazioni filosofiche degli zii che, riuniti e tutti ornati a festa, si lanciavano palle da bowling di sapienza contornate da finto perbenismo borghese e supportati dai sorrisi delle mogli.

    Fantastico, risposi ironico, quanto li ha pagati il nonno?.

    Sicuramente più di quanto pagherebbe te se lavorassi ancora per lui come fattorino, rispose, con quel poco di astio che le era rimasto verso di lui. Il nonno aveva aperto un negozio di fiori alcuni anni prima proprio vicino a dove stavo adesso e dopo un po’ di tempo aveva aperto un negozio a Londra e io avevo lavorato per lui alcuni anni addietro, poco prima che finissi l’università. Comunque, a proposito di lavoro, l’hai trovato?.

    Cosa?.

    Il lavoro, deficiente, le solite parole che devastavano irrimediabilmente ogni mia conversazione con lei.

    , risposi, da domani lavorerò per l’Altissimo. Cercherò anime cattive in strada per convertirle al suo volere. Tutto questo solo per redimerle per l’eternità, intendiamoci.

    Non la smetti mai di dire scemenze?.

    È ben retribuito, credimi, continuai, mi dà un soggiorno per due con vista sui prati in fiore del giardino incantato, per rimanere in tema floreale, così posso invitare anche te e paga in contanti. E c’è molto altro, sai.

    Come no, m’interruppe, troncando il mio sproloquiare, se ci fosse ancora tuo padre ti darebbe uno schiaffo per quello che hai detto.

    Rimasi un attimo in silenzio e poi mormorai una forma di assenso con la voce. Glielo sentivo nominare così tanto raramente che credevo ne avesse addirittura rimosso il ricordo.

    Senti, continuò, chiama la nonna ogni tanto e ricordati che la festa è fra tre giorni.

    D’accordo, ci sarò. Comunque stacchiamo che devo cenare e ho mille cose da fare. Ci sentiamo domani, okay?.

    Quando mai, a domani.

    A domani… e mamma, auguri… , chiuse la chiamata ancora prima che potesse sentire le mie ultime parole.

    Non la richiamai e nemmeno le scrissi, ero troppo in ansia e mi serviva il telefono libero e poi lei sarebbe stata a breve con sue amiche del bridge che l’avrebbero raggiunta per giocare e discutere di problemi infantili e molto probabilmente di quanto insoddisfacenti erano i loro rapporti sessuali post-menopausa con i loro repressi e frustrati mariti, vittime di crisi post-andropausa e lobotomizzati dalla Major League. Mi vestii con le prime cose che trovai e andai in cucina per cenare. Il frigo era più vuoto delle tasche di un barbone, ma una fettina di carne mi diede la speranza di un lauto pasto. Aprii il vino già consumato per metà e me ne versai un bicchiere. Adoravo il colore del vino, mi dava sicurezza e mi calmava. Bastava solo guardarlo e tutto mi sembrava più scorrevole, tranquillo. Fu un secondo che venne interrotto dal rumore che la carne fece a contatto con la padella che poco prima avevo messo sul fuoco a riscaldare. Mi sedetti a tavola e non riuscii a cominciare, fissavo la misera fettina di carne al centro del piatto e in un certo senso mi sentivo fissare da lei. Allora misi un po’ di musica, dietro di me nella parete attrezzata c’era lo stereo e a fianco parecchi CD di musica. La scelta non fu difficile e fu viziata da un periodo un po’ burrascoso che non poteva non contenere al suo interno momenti di classico rock inglese, che è la cura per ogni male che porta marchi d’inespressiva lontananza da ciò che rende l’indipendenza di ogni uomo inavvicinabile, come lo era il lavoro in quel periodo. Presi Presence, il settimo album dei Led Zeppelin, uno dei più criticati, e lo inserii nella feritoia dello stereo. Le prime note mi tirarono immediatamente su. Ripresi a mangiare e pensai che farlo da soli non era poi tanto male; ti servi da solo, se ti scappa di ruttare lo fai tranquillamente, senza doverti imporre vincoli di perbenismo forzato e poi se ti va di bere bevi, senza doverti sentir dire che stai esagerando o roba simile. Finito tutto posai i piatti nel lavello che si accatastarono sugli altri e pensai che li avrei lavati dopo, o cosi volli convincermi. Tornai nella mia camera e mi buttai sul letto. Diedi un altro sguardo al telefono e poi uno al PC chiuso sulla scrivania. Pensai di aprirlo e buttare giù qualche pagina, ma non sentivo lo stimolo giusto o forse era tutto viziato da quel periodo o, ancora peggio, ero io in uno stato di noia che non lasciava spazio a ispirazioni degne di questo nome. Erano quasi le nove e mezzo. Chiusi gli occhi un istante e sulla voce sensuale di Plant nell’ultimo blues dell’album mi addormentai.

    Non passarono nemmeno dieci minuti e il suono del cellulare mi destò per la seconda volta in poche ore. Era Frank Horser, un mio vecchio compagno di università con

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1